[ 30 marzo ]
«La storia del nostro paese inizia con un referendum. Era il 2 giugno del 1946 e i cittadini italiani furono chiamati a scegliere fra monarchia e repubblica. Da lì il rapporto del nostro paese con questo strumento si è evoluto e ha attraversato diverse fasi.
Il referendum rientra, insieme all’iniziativa legislativa popolare e alla petizione, tra gli istituti di partecipazione diretta dei cittadini alla democrazia. Nel nostro ordinamento sono previsti vari tipi di referendum, di cui i principali sono quello abrogativo e quello costituzionale.
Art. 75 della costituzione italiana – È indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum
La prima tipologia, nonché quella più comune e quella che si terrà fra meno di un mese sulle trivelle, permette a 500 mila elettori (o cinque consigli regionali) di richiedere l’abrogazione parziale o totale di una legge. Per essere valido un referendum di questo tipo deve raggiungere il cosiddetto quorum, cioè devono aver partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto. Nella storia repubblicana si sono tenuti 66 referendum abrogativi.
Art. 138 della costituzione italiana – Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.
La seconda tipologia, che potrebbe coinvolgere i cittadini italiani dopo l’approvazione della riforma Boschi, è il referendum costituzionale. In seguito all’approvazione di un disegno di legge di natura costituzionale, entro tre mesi dalla pubblicazione, un quinto dei membri di una delle due camere o 500 mila elettori o cinque consigli regionali posso richiedere un referendum popolare. Ad oggi ci sono stati due referendum di tipo costituzionale: uno nel 2001 per la modifica al titolo V della parte seconda della Costituzione (approvato), e uno nel 2006 per l’approvazione della legge di modifica alla parte seconda della Costituzione (non approvato).
A queste due tipologie principali, si aggiungono le eccezioni: il già menzionato referendum del 1946 per la scelta fra repubblica e monarchia, il referendum consultivo del 1989 per il conferimento del mandato costituente al parlamento europeo, reso possibile da una legge costituzionale ad hoc.
Ma come sono andati in pratica i 70 referendum che si sono tenuti in Italia dal 1946 ad oggi?
70 anni di referendum, una storia a fasi alterne
Fra i 66 referendum abrogativi, i 2 costituzionali, quello consultivo sul parlamento europeo e quello del 1946 sulla forma istituzionale dello stato, i cittadini italiani sono stati chiamati a dire la loro in 70 diverse occasioni.
Con una media di 1 referendum all’anno (dal 1946 ad oggi), diventa importante capire quali siano stati i risultati, in termini di affluenza, di queste votazioni. Analisi particolarmente utile per i referendum abrogativi, sia perché sono stati i più ricorrenti, sia perché, a differenze delle altre tipologie, richiedono il raggiungimento di un quorum di validità.
Il primo referendum abrogativo risale al 1974, quando il mondo cattolico chiedeva di abrogare la legge Fortuna-Baslini, con la quale era stato introdotto il divorzio. Con un’affluenza superiore all’87%, vinse il fronte del no con il 59,30% dei voti. Nello stesso decennio ci furono altri due quesiti (uno su ordine pubblico e l’altro sul finanziamento pubblico ai partiti), entrambi con quorum raggiunto e vittoria del no.
Il vero boom del fenomeno è avvenuto negli anni ’90, quando si sono tenuti 32 referendum abrogativi, di cui 24 promossi dal partito radicale. Di questi 32, il 34% non ha superato la soglia di validità richiesta. Anche gli anni 2000 sono stati caratterizzati da un numero elevato di quesiti (16), ma nessuno ha raggiunto il quorum.
L’ultima tornata, e parliamo di storia recente, è nel giugno del 2011: quattro quesiti, (due proposti dall’Italia dei valori e due dal comitato per l’acqua pubblica) tutti con quorum raggiunto e vittoria del sì. In questo caso l’affluenza registrata è stata relativamente bassa (di poco superiore al 54%), ma con una percentuale di consensi favorevoli molto alta, oltre il 94%.
Guardando i numeri in totale, scopriamo che il 40,91% dei 66 quesiti abrogativi non ha raggiunto il quorum necessario. Di quelli risultati validi, il 58,97% ha avuto esito positivo (vittoria del sì), e il restante 41,03% esito negativo (vittoria del no).
Il raggiungimento del quorum ha importanza per una una serie di motivi. Il primo è che sancisce o meno la validità dell’esito del voto: per quanto il sì possa aver vinto, se la maggioranza degli aventi diritto non partecipa alla consultazione, il risultato non sarà valido. Il secondo motivo è puramente economico: quando infatti un referendum abrogativo raggiunge il quorum, scattano i rimborsi da parte dello stato per i comitato promotori.
Il business dei referendum, i rimborsi ai comitati promotori
Le richieste di referendum sono soggette a un duplice controllo. Il primo da parte dall’ufficio centrale per il referendum, puramente tecnico, e il secondo da parte della corte costituzionale. Con la legge costituzionale del marzo 1953, infatti, sono state allargate le competenze della consulta, già regolate dall’articolo 134 della nostra costituzione.
Ad oggi sono più di 60 i quesiti “bloccati” dalla corte. Ultima vittima illustre in ordine di tempo è il referendum sulla legge Fornero proposto dalla Lega nord, che nel gennaio del 2015 è stato dichiarato inammissibile. Al contrario, proprio grazie al parere favorevole dei giudici costituzionali, il prossimo aprile si terrà il referendum “in materia di ricerca, prospezione e trivellazioni marine“.
Come visto in precedenza, fra gli attori che possono sottoporre un quesito alla consulta, ci sono gli elettori italiani, attraverso la raccolta di 500 mila firme. Il lavoro dei cosiddetti “comitati promotori” in questo processo è fondamentale. Per questo motivo il nostro ordinamento riconosce un “indennizzo” economico. Le legge 157 del giugno 1999, poi modificata e aggiornata nell’agosto del 2006, sancisce che:
e’ attribuito ai comitati promotori un rimborso pari alla somma risultante dalla moltiplicazione di un euro per ogni firma valida fino alla concorrenza della cifra minima necessaria per la validita’ della richiesta e fino ad un limite massimo pari complessivamente a euro 2.582.285 annui, a condizione che la consultazione referendaria abbia raggiunto il quorum di validita’ di partecipazione al voto. Analogo rimborso e’ previsto, sempre nel limite di euro 2.582.285 annui di cui al presente comma, per le richieste di referendum effettuate ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione.
In pratica ai comitati promotori, nel caso di quesito dichiarato ammissibile e quorum raggiunto, viene riconosciuto un rimborso pari a un euro per ogni firma valida raccolta. Una forma di finanziamento pubblico che da un lato risarcisce i comitati civici che si attivano per proporre un referendum, dall’altro rimborsa anche quei partiti politici che hanno fatto di questo strumento un loro cavallo di battaglia.
Per esempio, grazie ai due referendum proposti nel 2011, l’Italia dei valori ha incassato oltre 1 milione di euro. Discorso analogo per il Comitato promotore per il sì ai referendum per l’acqua pubblica, che nel bilancio 2012 certificava 624.093 euro di rimborsi elettorali rimanenti grazie alla legge 157 del 1999.
Esborsi confermati dalle pubblicazioni in gazzetta ufficiale, sia per i due referendum proposti dall’Italia dei valori, sia per quelli del comitato per l’acqua pubblica. Parliamo di 500.000 euro a quesito, per un totale di 2 milioni di euro.
A questo punto la domanda è una: è giusto che a società civile e partiti politici venga riconosciuto lo stesso tipo di indennizzo per l’attività di promozione di un referendum?
Gli effetti di un referendum, cosa succede il giorno dopo
La legge 352 del 1970 regola le cose che devono accadere per rispettare l’esito del voto, negativo o positivo che sia. L’articolo 38 sancisce che qualora l’esito della consultazione sia negativo, non potranno essere proposti referendum per l’abrogazione della stessa legge per un periodo di 5 anni. Qualora invece il quesito venga approvato, l’articolo 37 dispone che il presidente della Repubblica debba dichiarare l’avvenuta abrogazione della legge tramite decreto pubblicato in gazzetta ufficiale. L’abrogazione ha valore dal giorno successivo alla pubblicazione del decreto.
Ma una volta che una norma è stata cancellata, o parzialmente cancellata, da un referendum popolare, è possibile per il parlamento o il governo ri-legiferare sulla materia? Come sancito dalla sentenza 199 (2012) della corte costituzionale la risposta è no, ma come sempre ci sono delle eccezioni:
Un simile vincolo derivante dall’abrogazione referendaria si giustifica, alla luce di una interpretazione unitaria della trama costituzionale ed in una prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa delineato dal dettato costituzionale, al solo fine di impedire che l’esito della consultazione popolare, che costituisce esercizio di quanto previsto dall’art. 75 Cost., venga posto nel nulla e che ne venga vanificato l’effetto utile, senza che si sia determinato, successivamente all’abrogazione, alcun mutamento né del quadro politico, né delle circostanze di fatto, tale da giustificare un simile effetto
Non è dunque possibile per parlamento e governo modificare quanto deciso dagli elettori, a meno che non si verifichino dei cambiamenti strutturali del quadro politico, o del contesto generale. Definizione ambigua e aperta a infinite interpretazioni, e che rende possibili le eccezioni. E a proposito di eccezioni, l’esempio forse più calzante è il referendum del 1993 per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, di fatto poi reintrodotto lo stesso anno dal parlamento sotto forma di rimborso elettorale.
La stessa cosa, secondo alcuni, sta avvenendo all’esito del referendum 2011 sull’acqua pubblica. Sulla materia è stato presentato un disegno di legge dall’intergruppo parlamentare “Acqua bene comune”, composto da tutti i parlamentari di Movimento 5 stelle e Sel, da una ventina di appartenenti al Pd e da un deputato di Scelta civica. Il provvedimento è però già al centro di tante polemiche per gli emendamenti proposti dal governo, accusato da membri dell’opposizione e del comitato promotore di andare contro la volontà dei cittadini.
Insomma, mentre su carta il “cosa succede il giorno dopo” sembra essere molto chiaro, in pratica, come sempre, il contesto politico e il dibattito parlamentare possono dare adito a situazioni poco chiare.
Referendum in Italia, una storia lunga 70 anni
Spesso si sente dire che l’uso del referendum come strumento di partecipazione politica dai parte dei cittadini andrebbe incrementato. Ma non è tutto così facile come sembra. Il fatto che il 40% dei referendum abrogativi non abbia raggiunto il quorum spiega bene le difficoltà che ci sono state in questi anni.
Le cause di queste difficoltà possono essere molteplici: dall’abuso dello strumento – basti pensare ai 32 quesiti referendari nei soli anni ’90 – ai problemi di comprensibilità degli stessi, passando per i tentativi da parte della classe politica di “neutralizzare” in vario modo i possibili effetti dei risultati elettorali (come nel già citato referendum sul finanziamento pubblico alla politica del 1993).
Con l’avvicinarsi della consultazione sulle trivelle nei mari italiani, prevista tra poche settimane, la storia pare ripetersi. Nei giornali se ne parla poco, e i principali partiti politici non sembrano interessati a fare un’aperta campagna in materia. Difficile al momento dire se il quorum verrà raggiunto, ma una cosa è certa: il rapporto dei cittadini, e della classe politica, con il referendum sembra ancora complicato».
* Fonte: OpenPolis
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