[ 11 marzo ]
In occasione di un incontro a Roma su“Teorie e pratiche dell’autogestione – solo un modo di far fronte alla crisi o punto d’avvio di una diversa organizzazione economico-sociale?” il 13 marzo 2016, ho buttato giù alcuni appunti senza velleità scientifiche. Quello che temo di più è il crogiolarsi, a sinistra, su sogni e illusioni (ciascuno ha le proprie: “l’altra Europa”, “l’altra economia” ecc.) non valutando invece con freddezza e raziocinio passi più concreti.
* FONTE: Autogestione senza eccitazione in Politic&Economia Blog
In occasione di un incontro a Roma su“Teorie e pratiche dell’autogestione – solo un modo di far fronte alla crisi o punto d’avvio di una diversa organizzazione economico-sociale?” il 13 marzo 2016, ho buttato giù alcuni appunti senza velleità scientifiche. Quello che temo di più è il crogiolarsi, a sinistra, su sogni e illusioni (ciascuno ha le proprie: “l’altra Europa”, “l’altra economia” ecc.) non valutando invece con freddezza e raziocinio passi più concreti.
A costo di smorzare gli entusiasmi de’ sinistra sul tema dell’autogestione, lasciatemi mettere a fuoco qualche problematica al riguardo. Distinguiamo per comodità due aspetti, micro e macro.
Ambedue vedono centrale il problema dell’informazione.
A livello micro un’impresa autogestita incontra diversi problemi:
1) Shirking (sottrarsi ai propri doveri). Nel lavoro di team è facile fare lo scansafatiche (se spostate un tavolo pesante in sei persone, una persona può facilmente eludere a fatica. Altro esempio: quando c’è informazione asimmetrica, un soggetto (chiamato agente nell’analisi economica) deve compiere un’attività e solo lui/lei conosce i tempi per effettuarla (pensate all’idraulico o al meccanico), il committente (il principale, che può essere il resto dell’impresa autogestita) può essere ingannato circa i tempi realmente occorrenti. Il Taylorismo nasce proprio per semplificare le mansioni sì da renderle monitorabili. L’autogestione può naturalmente incentivare la partecipazione e l’impegno, ma in imprese grandi e complesse in cui le relazioni diventano più impersonali questo è più difficile. E’ un problema drammatico con cui il socialismo reale (che non è affatto vero che non si pose questi problemi, tutt’altro) non ha risolto, con conseguenze di inefficienza che ne hanno minato la credibilità. Si può naturalmente pensare che la parola efficienza sia solo propria al capitalismo. Laddove efficienza significa produrre una quantità maggiore di beni e servizi che costano meno lavoro (sì da poter ridurre l’orario di lavoro), e di qualità, vedrete che la parola è importante anche in forme economiche alternative.
(Rammento anche, inoltre, il primo problema fondamentale incontrato nel socialismo: con la sicurezza del posto di lavoro la gente lavora con meno impegno; nella misura in cui l’impresa autogestita garantisce il posto di lavoro –garanzia che incontra i limiti posti dalla macroeconomia che vedremo poi -, il problema si ripropone).
Naturalmente non voglio essere del tutto negativo sull’animo umano identificato con l’homo economicus egoista, e certamente un contesto partecipativo può migliorare l’etica individuale e collettiva. Però, adelante Pedro, con juicio.
2) In imprese complesse (e probabilmente anche in quelle meno complesse) in cui vige la divisione del lavoro, le informazioni complesse tendono ad accentrarsi ai livelli più alti, e magari le funzioni più semplici e alienanti al livello più basso. La rotazione dei ruoli è un escamotage interessate, ma con dei limiti: rimuovereste qualcuno che per bravura ed esperienza sta coordinando bene un’impresa autogestita? E se questo richiede più impegno (non si timbra il cartellino alle 17), siete pronti a offrirgli un salario più elevato (questo è il problema minore, credo).
Una chance può provenire dal fatto che, ceteris paribus (cioè a parità di fatturato) un’impresa cooperativa può forse pagare salari più elevati (poiché vi sono da suddividere come salari, i profitti non destinati agli investimenti). Questo può (come nel modello degli “efficency wages”, i non economisti trascurino questo riferimento) elevare o costi di fare lo scansafatiche, dato che se scoperti si è licenziati e si perde un buon salario. Ci si deve di nuovo però chiedere se in organizzazioni complesse la rinuncia alle catene di comando gerarchiche - o la loro attenuazione o ammorbidimento via continue assemblee gestionali ecc. - non porti a inefficienze. In un famoso saggio, What do bosses do? (A cosa servono i dirigenti?) un economista americano, Stephen Marglin (un raro caso di brillante giovane economista mainstream che negli anni 1970 transitò nell’eterodossia) argomentò – in linea con lo spirito di quegli anni – che le tecnologie con connesse gerarchie nascono per dare un ruolo alla direzione capitalistica della produzione, altrimenti non giutificata. Peut-être, però dubito che organizzazioni complesse siano così gestibili senza catene gerarchiche altrettanto complesse. Formazione continua e rotazione sono però ottime idee (a cui infatti pensò Adriano Olivetti, v. più sotto).
3) Vale la pena richiamare qui Bruno Iossa, l’economista italiano di un qualche rilievo che si è forse più battuto per l’economia cooperativa. Egli non fornisce alcuna base oggettiva per credere che un’impresa cooperativa non incontri i problemi qui accennati. Ritiene che gli appartenenti alla coop siano mossi dall’”amore di sé”, da “forte sentimento di appartenenza all’umanità” che la solidarietà sia in re ipsa (Iossa, 2015, p. 229). E perché, se proprio si vuole sottilizzare, il senso di appartenenza deve svilupparsi sotto la spinta di un rapporto di semi-proprietà com’è una cooperativa privata e non invece, in maniera decisamente superiore, in una impresa pubblica, che è davvero di tutti? C’è in questo un anti-statalismo tipico di parte della società italiana, una visione dello Stato come istituzione da avversare, ma all’occorrenza da spremere e a cui rivolgersi all’occasione servilmente, un segno di arretratezza sociale prima che economica.
4) Ci sono inoltre figure ed esperienze importanti da studiare. Mi viene in mente Adriano Olivetti, prendo per comodità da Wikipedia:
«Adriano Olivetti riuscì a creare nel secondo dopoguerra italiano un'esperienza di fabbrica nuova ed unica al mondo in un periodo storico in cui si fronteggiavano due grandi potenze: capitalismo ecomunismo. Olivetti credeva che fosse possibile creare un equilibrio tra solidarietà sociale e profitto, tanto che l'organizzazione del lavoro comprendeva un'idea di felicità collettiva che generava efficienza. Gli operai vivevano in condizioni migliori rispetto alle altre grandi fabbriche italiane: ricevevano salari più alti, vi erano asili e abitazioni vicino alla fabbrica che rispettavano la bellezza dell'ambiente, i dipendenti godevano di convenzioni.
Adriano Olivetti |
Anche all'interno della fabbrica l'ambiente era diverso: durante le pause i dipendenti potevano servirsi delle biblioteche, ascoltare concerti, seguire dibattiti, e non c'era una divisione netta tra ingegneri e operai, in modo che conoscenze e competenze fossero alla portata di tutti. L'azienda accoglieva ancheartisti, scrittori, disegnatori e poeti, poiché l'imprenditore Adriano Olivetti riteneva che la fabbrica non avesse bisogno solo di tecnici ma anche di persone in grado di arricchire il lavoro con creatività e sensibilità…
Adriano Olivetti credeva nell'idea di comunità, unica via da seguire per superare la divisione traindustria e agricoltura, ma soprattutto tra produzione e cultura. L'idea, infatti, era quella di creare unafondazione composta da diverse forze vive della comunità: azionisti, enti pubblici, università e rappresentanze dei lavoratori, in modo da eliminare le differenze economiche, ideologiche e politiche. Il suo sogno era di riuscire ad ampliare il progetto a livello nazionale, in modo che quello della comunità fosse il fine ultimo».
L’Olivetti era una fabbrica capitalistica, ma molti insegnamenti potrebbero servire per grandi imprese pubbliche o autogestite. E, perché no, anzi assolutamente sì, vanno studiati i Kibbutz.
5) La mobilità sociale si è nei fatti realizzata dove c’è stata una istruzione pubblica di qualità, come abbiamo visto nell’esperienza scandinava, nella quale i sindacati hanno anche chiesto una formazione continua per i propri dipendenti incentivando l’impresa all’innovazione. Rimarco questi aspetti perché questi sono fatti macroscopici, che hanno coinvolto con successo decine di milioni di persone (o una grande fabbrica capitalistica nel caso dell’Olivetti) – le proporzioni vanno sempre mantenute quando si parla invece di esperienze che hanno coinvolto poche migliaia di persone.
6) Infine, sull’esperienza delle fabbriche recuperate propriamente dette, lavoratori che cercano di mantenersi un’occupazione e che non hanno necessariamente fisime ideali per la testa, si tratta di capire se il fallimento aziendale è stato dovuto a incapacità del management/proprietà, oppure la produzione era decotta. Nel primo caso è possibile che un management autogestito (con i caveat di cui sopra) risollevi l’impresa. Non sembra questo caso – dunque non un caso di fabbrica recuperata – quello di spazi recuperati ad altre attività. Una documentazione più ragionata sulle esperienze italiane, certo più legate a un sostegno pubblico (e che c’è di male, anzi!) è in Vieta (2015) (che ho segnalato io ai miei amici autogestionali!). Nel caso di impresa decotta – un caso di disoccupazione tecnologica – l’intervento pubblico appare necessario per il sostegno ai redditi, l’aggiornamento professionale, e naturalmente il sostegno a nuove attività gestite da cooperative, magari sugli spazi delle vecchie. E’ importante rileggersi la Legge Marcora (v. Vieta 2015). E figurarsi come potrebbe essere mutata. (Marcora, per i più giovani e gli immemori, era un democristiano di sinistra, ex partigiano)
7) Quello che forse va aggiunto è che il recupero delle fabbriche era svolto fino a un paio di decenni fa dalle imprese a partecipazione statale. L’IRI, dai salvataggi degli anni trenta dello scorso secolo di banche e imprese, ha un passato glorioso per aver salvaguardato e progredito le basi tecnologiche dello sviluppo italiano. E posso dire per conoscenza diretta di quanto le maestranze fossero felici quando nel dopoguerra imprese dismesse da capitale privato nazionale e straniero erano rilevate dalle PPSS! Era la quasi sicurezza del posto di lavoro. Certo, ai sognanti utopisti questo è poco, quasi meschino, ma per centinaia di migliaia di famiglie italiane questo ha rappresentato vita e speranza. Ci si dovrebbe battere contro le privatizzazioni e per una nuova politica industriale pubblica.
L’aspetto macro della faccenda è fondamentale per due motivi contro al pensiero ingenuo di alcuni che pensano che risolto il problema della democrazia nel posto di lavoro si sia risolto tutto. Magari! Ci si deve domandare:
(i) Cosa coordina le imprese cooperative, mercato? pianificazione? un mix?
(ii) La tutela del posti di lavoro è un problema eminentemente macroeconomico, nessuna garanzia seria può essere offerta a livello di impresa, per quanto democratica essa sia. Questo sia perché l’occupazione dipende dalle politiche macroeconomiche, che perché l’impresa può risultare obsoleta, e quindi nella condizione di dover ricevere un sostegno esterno (maledetto Stato, ti detestiamo, ma di te proprio non si può fare a meno! Forse allora ha ragione Cesaratto a dire che il vero nodo sei tu, e sei tu che dobbiamo trasformare in senso democratico e comunitario)
1) La grande scoperta di Adam Smith è stata la mano invisibile, ovvero che il sistema dei prezzi guida le decisioni economiche su quanto e quando produrre (il problema informativo citato all’inizio). Se, ad esempio, il prezzo di vendita non copre i costi di produzione di un’impresa (che è dunque in perdita), essa ridurrà la produzione (sicché il prezzo salirà). Questo meccanismo in alcun modo implica che il laissez-faire conduca alla piena occupazione e alla giustizia sociale. Per questo serve, in una economia di mercato, la mano visibile dell’intervento pubblico sotto forma di politiche keynesiane e stato sociale. Marx definiva i prezzi la stella polare dei capitalisti (nel senso che li guidava nelle scelte), ciò non di meno riteneva che il capitalismo fosse prono alle crisi. Possiamo semplificare dicendo che nel capitalismo il livello di pieno impiego della produzione richiede la mano visibile (di Keynes), mentre la sua composizione è lasciata alla mano invisibile (naturalmente poi vi sono i condizionamenti culturali ecc., ma acquisiamo il metodo di non mettere sempre troppa carne al fuoco)
2) Di alternativo al sistema dei prezzi c’è la pianificazione, l’economia di comando. Il problema informativo è in questo caso gestito dall’altro, sulla base di un modello delle interrelazioni fra settori dell’economia (molti settori producono per altre imprese, non per il mercato finale) e in vista del consumo finale (il cui livello e composizione è anche deciso dall’alto). E’ un modello che ha prodotto la piena occupazione, e da questo punto di vista può essere considerato un successo. Quantità e qualità dei beni ha lasciato in genere a desiderare, ma vanno considerate le condizioni storiche drammatiche in cui si è spesso svolto l’esperimento socialista. Come ho già detto, è un modello che io problema della gestione democratica delle imprese se l’è posto eccome, ponendo una problematica imprescindibile a chi propugna l’autogestione (e che quindi se la dovrebbe studiare bene).
Vi sono naturalmente forme intermedie fra mercato e pianificazione, come la programmazione economica praticata con successi molto, molto parziali in alcuni paesi occidentali nel secondo dopoguerra, si tratta di linee indicative di sviluppo per i diversi settori tracciate dai governi.
3) I sostenitori dell’autogestione ci dovrebbero dire dove si collocano. A leggere Bruno Iossa, la scelta è per il coordinamento via prezzi di mercato. Vale la pena soffermarsi un attimo su Iossa. Questi è di sinistra, eppure basa le critiche a quello che chiama “statalismo” (una parola solitamente propria ai liberisti) sul più bieco autore liberista, Buchanan, fondatore della scuola della public choice. Questa scuola ritiene che lo Stato sia irrimediabilmente viziato dagli interessi personali dei governanti (o dei funzionari). Ora io credo che questo sia vero in molti casi, e soprattutto in molte culture. Ma non per esempio nelle culture nord-europee in cui lo Stato è visto piuttosto come comunità. E in ogni caso, perché le imprese cooperative che Iossa ritiene la “terza via” fra Stato e mercato dovrebbero essere immuni da quegli interessi? Iossa ritiene inoltre che il sistema delle cooperative possa essere efficientemente guidato dal mercato: vale a dire, mentre nel mercato tradizionale è l’interesse del singolo capitalista a muovere l’economia, ora è l’interesse della singola cooperativa. Ci sono almeno due obiezioni:
(a) il mercato senza l’intervento pubblico non porta alla piena occupazione, ma chissà perché Iossa (2001, p. 128) ritiene che un sistema di cooperative porti a questo risultato. Oppure forse non lo ritiene (egli oscilla continuamente fra la fede nella teoria neoclassica dominante e quella keynesiana senza dirci mai dove si collochi). E infatti se la cava dicendo che in un sistema cooperativo non ci può essere disoccupazione perché i lavoratori di un’impresa in crisi si divideranno solidalmente il monte-ore di lavoro. Al prof. Iossa – che, fatemi precisare, è persona colta e garbatissima – piace però vincere facile. Riducendo monte-ore e salario il problema certamente si risolve, tant’è che è un sistema che utilizzano anche le imprese capitalistiche per non disperdere le maestranze addestrate in caso di crisi. Ma se monte-ore e salario da dividere sono zero, perché la crisi è grave, oppure (come già accennato sopra) perché l’impresa è tecnologicamente cotta (disoccupazione tecnologica), come ci si mette? In nessun senso il problema della disoccupazione (ciclica, strutturale, tecnologica) può dunque essere risolto a livello di singola impresa, capitalistica, cooperativa o quello che credete. E’ un problema macro. La disoccupazione dipende dalle politiche adottate, e per avere politiche adeguate ci si deve battere. La disoccupazione tecnologica ci sarà sempre, e lì servono politiche governative e di impresa di sostegno alla formazione, ed eventualmente al passaggio a nuovi rami d’industria in espansione (per la quale, here and again, serve l’intervento pubblico, v. Marianna Mazzuccato). E’ illusorio muoversi a livello micro ed esulando dall’intervento pubblico.
(b) Le imprese cooperative sono fra loro in concorrenza, per cui non v’è un vincolo solidaristico fra loro. Ma Iossa e gli utopisti ritengono che vi sia una vincolo di solidarietà (la coop sei tu) che da ultimo sostituisca sia la logica crudele del mercato che quella fredda della pianificazione. Insomma, siccome le coop sono buone, allora anche le relazioni di mercato diventano umane e solidali. Mi sembra che il valore di queste idee sia pari a quelle delle prediche domenicali dal pulpito delle chiese. Oh, Iossa si appoggia sull’ultimo Lenin che, superata l’emergenza, nel 1923 propugnò un mix di imprese cooperative e mercato, una sorta di socialismo-liberista, l’emulazione socialista in luogo della concorrenza capitalistica. Bell’affare. (Sono cose naturalmente da studiare con molta più serietà, mi si scuserà la superficialità).
Conclusioni
1) Le fabbriche recuperate sono un’esperienza importante sotto vari profili:
(i) sono una forma di resistenza alla crisi, alle politiche liberiste, alla globalizzazione
(ii) possono indicare che in molti casi le maestranze sono in grado di sviluppare conoscenze e management, e questo è una indicazione utile persino per le imprese capitalistiche
(iii) Sono esprimenti di autogestione che vanno sostenuti e studiati nel quadro della storia del socialismo che, anche tramite l’esperienza delle fabbriche recuperate, va avanti.
2) La storia, l’esperienza e l’analisi ci indicano alcuni dei possibili limiti all’autogestione, sia micro che macro, questi vanno razionalmente esaminati senza lasciarsi andare a sentimentalismi che non servono a nulla (evocare a ogni piè sospinto il Comandante Marcos e il Chiapas, o i vari movimenti più o meno al quadrato degli scorsi anni, belli e importanti per le coscienze che hanno cambiato, quanto per molti versi effimeri, non aiuta).
Il ruolo dello Stato e della democrazia partecipata rimane centrale, se non si vuole rimanere marginali. Tutte le esperienze di lotta e di resistenza sono importanti. Non va però perso di vista lo sfondo della lotta contro le politiche europee, anzi contro l’Europa – oggi il nemico principale – e contro una globalizzazione senza controlli – il nemico sullo sfondo. Questi due fattori hanno snaturato e svuotato la nostra democrazia costituzionale e stanno impoverendo il paese, stretto fra una classe politica incapace perché nulla può più perché non decide più nulla (tranne rubare), e un antagonismo che non coglie la dimensione dei problemi. Il referendum costituzionale è forse una occasione per ricominciare a ricostruire un quadro di prospettiva politica alto, che raccolga le varie e legittime aspirazioni in una direzione più complessiva.
Riferimenti
B.Iossa (2001) L’impresa gestita dai lavoratori e la disoccupazione classica e keynesiana, Rivista italiana degli Economisti, n.1.
B.Iossa (2015) “Destra e sinistra nella teoria economica”, Rivista di politica economica, vol. 104, n.1.
S. Marglin (1974) “What Do Bosses Do? The origins and functions of hierarchy in capitalist production, Part I.” The Review of Radical Political Economics 6 (2): 60-112.
M. Vieta (2015), The Italian Road to Creating Workers Cooperative from Workers buyouts, http://www.euricse.eu/publications/wp-7815-the-italian-road-to-creating-worker-cooperatives-from-worker-buyouts-italys-worker-%C2%AD%E2%80%90recuperated-enterprises-and-the-legge-marcora-framework/
1 commento:
"...contro l’Europa – oggi il nemico principale – e contro una globalizzazione senza controlli – il nemico sullo sfondo."
Esatto. In un certo senso sono lo stesso nemico, poichè è proprio l'Unione europea a "imporre" la globalizzazione incontrollata. Se non ci fosse l'Europa, ogni Stato deciderebbe, democraticamente e in base ai suoi interessi, quanta globalizzazione consentire, in quali ambiti, con quali limiti (ciò che fa il resto del mondo, insomma). Non solo come libertà di commercio, ma soprattutto di movimento dei capitali.
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