[ 4 marzo ]
L’economista Marcello De Cecco [nella foto] è morto ieri, a Roma, all’età di 77 anni. Nato a Lanciano nel 1939, laureatosi in legge a Parma e in economia a Cambridge, ha insegnato in numerosi atenei italiani ed esteri, tra cui Norwich, Siena, la Normale di Pisa e la Luiss di Roma. Dotato di simpatia innata, colto e raffinato interprete della storia della moneta e della finanza, De Cecco conquistò uno spazio nella ricerca accademica internazionale per i suoi contributi alla comprensione del “gold standard”, il sistema aureo vigente fino alla prima guerra mondiale. Il suo Money and Empire, pubblicato nel 1974 da Basil Blackwell, è considerato un autorevole esempio di analisi storico-critica delle relazioni monetarie internazionali. Il libro, basato su una accurata disamina delle fonti documentali, rivela il radicato scetticismo dell’autore verso ogni tentativo di esaminare le relazioni economiche tra paesi in base a teoremi astratti e decontestualizzati.
Alla luce di questa metodologia di ricerca, De Cecco ha avanzato spesso obiezioni verso la tradizione di pensiero economico sostenitrice dei “meccanismi di aggiustamento automatico”, secondo i quali le forze spontanee del mercato dovrebbero essere in grado di garantire l’equilibrio degli scambi commerciali e finanziari tra i diversi paesi. Per gli esponenti di questa visione, il funzionamento del gold standard era assicurato dal meccanismo spontaneo secondo cui, per esempio, l’eventuale eccesso di importazioni di un paese avrebbe dato luogo a un deflusso d’oro verso l’estero tale da generare un calo di domanda interna e quindi dei prezzi nazionali, con un conseguente aumento della competitività e un riequilibrio tra import ed export. Sia pure rivisto e aggiornato, questo tipo di meccanismo rappresenta ancora oggi un ineludibile punto di riferimento per la maggioranza degli economisti accademici e viene talvolta citato nei rapporti ufficiali delle principali istituzioni monetarie per giustificare politiche di laissez-faire negli scambi internazionali. Per De Cecco, tuttavia, simili aggiustamenti spontanei in realtà non hanno mai avuto rilevanza concreta. A suo avviso, piuttosto, le relazioni economiche tra paesi sono strutturate su basi imperialistiche, intrinsecamente votate allo squilibrio, condizionate dalle scelte politiche e finanziarie dei governi e dipendenti in ultima istanza dai rapporti di forza tra capitalismi nazionali. In questo senso, nei suoi lavori De Cecco ha suggerito che il gold standard prebellico poté sopravvivere solo fino a quando l’Impero britannico fu in grado di imporre uno specifico regime di governo coloniale dei flussi finanziari internazionali, in base al quale l’India avrebbe dovuto assorbire i titoli del debito emessi dalla Gran Bretagna per coprire il disavanzo estero di quest’ultima.
La teoria dei meccanismi automatici di aggiustamento è stata anche alla base dell’entusiasmo con cui molti economisti accolsero la nascita della moneta unica europea. L’idea che gli squilibri commerciali e finanziari tra i paesi dell’Unione monetaria potessero esser facilmente risolti tramite movimenti spontanei dei prezzi o attraverso migrazioni di lavoratori, era piuttosto diffusa vent’anni fa tra gli studiosi. Questa visione semplicistica, potremmo dire “idraulica”, del funzionamento dell’Unione monetaria europea, è sempre stata criticata da De Cecco, il quale anche al caso dell’euro ha applicato i suoi complessi schemi di lettura storica dei rapporti economici internazionali. In particolare, egli ha più volte segnalato che la tendenza della Germania ad accumulare surplus commerciali verso l’estero genera il paradosso di un paese egemone che, anziché svolgere il ruolo tradizionale di creatore e diffusore della moneta all’interno del sistema che esso domina, tende piuttosto a risucchiarla presso di sé sottraendola agli altri paesi membri. Tale contraddizione, secondo De Cecco, non ha precedenti nella storia dei regimi monetari e chiaramente pregiudica la sostenibilità del processo di unificazione europea.
I dubbi sull’efficacia dei meccanismi di aggiustamento automatico interni all’Unione monetaria non hanno tuttavia mai indotto De Cecco a contestare il progetto europeo. Membro del consiglio degli esperti economici dei governi Prodi e D’Alema negli anni Novanta, tra i fondatori del Partito Democratico nel 2007, De Cecco ha condiviso fino in fondo il percorso politico che ha legato i destini della sinistra di governo italiana alle speranze di successo dell’integrazione europea. Anche quando nel 2010 fu tra i firmatari di una lettera di trecento economisti che evocava la possibilità di una rottura dell’eurozona, in privato De Cecco contestò ai suoi promotori, tra cui il sottoscritto, una frase finale del documento che esplicitamente contemplava una opzione politica di uscita di uno o più paesi dalla moneta unica. La sua sfiducia verso un’eventualità del genere era fondata sul timore che l’abbandono dell’euro sfociasse in un mero deprezzamento del cambio, magari lasciato alle forze erratiche del mercato: una soluzione che a suo avviso avrebbe solo favorito quegli spezzoni di piccolo capitalismo, arretrato e talvolta parassitario, che in passato già avevano fatto tanti danni e sui quali non riteneva possibile fondare alcuna reale speranza di sviluppo economico ed emancipazione civile del paese.
Emiliano Brancaccio |
Il fatto che rigettasse la mera ipotesi di un ritorno alle valute nazionali, non consente di collocare l’economista di origine abruzzese tra i rassegnati alle lacrime e al sangue dell’attuale processo di integrazione europea. Sia pure con discrezione e senza clamori, Marcello De Cecco ha sempre portato avanti, in accademia e in campo divulgativo, una tesi assolutamente eretica e controcorrente: vale a dire l’idea di avviare una riflessione critica sugli effetti della indiscriminata apertura ai movimenti internazionali di capitali e di merci, e di immaginare delle ipotesi di ripristino di forme coordinate di controllo degli scambi tra paesi.
In un articolo pubblicato nell’aprile 2010 sulla Rivista italiana degli economisti, De Cecco passò in rassegna le posizioni degli economisti italiani del Novecento in tema di liberoscambismo: esaminando gli scritti di un giovanissimo Franco Modigliani, di Marco Fanno, di Giorgio Fuà ed altri, egli mostrò che le critiche all’apertura incontrollata alle transazioni con l’estero risultavano prevalenti. Nel 2013, nella introduzione al suo ultimo libro, De Cecco fu poi ancor più esplicito: egli scrisse che l’aver screditato e messo da parte per più di un cinquantennio soluzioni come il protezionismo e la regolamentazione degli scambi «come se si trattasse di pulsioni peccaminose e indegne di una nuova e superiore organizzazione internazionale, è stato colpevole e persino stupido, perché in forma blanda esse dovevano rimanere in voga» mentre oggi ci si ritrova a ripristinarle «velocemente e in dosi assai maggiori, senza usufruire dei vantaggi che sarebbero derivati da dosi moderate, e correndo in pieno il pericolo di precipitare il mondo intero in un nuovo disordine internazionale» (Ma che cos’è questa crisi, Donzelli).
Anche in sede politica De Cecco provò di tanto in tanto ad avanzare tesi simili. Nel mezzo della crisi degli spread, in una riunione presso la sede del PD con l’allora segretario Bersani e il responsabile economico del partito Fassina, con la sua proverbiale flemma De Cecco dichiarò che l’ipotesi di un moderato protezionismo verso la Germania in fondo non andava scartata a priori, a condizione che l’Italia potesse delinearla in accordo con la Francia, un paese caratterizzato da strutture produttive per più di un verso complementari alle nostre. Ricordo che Bersani restò attonito. I tempi evidentemente non erano maturi.
Negli ultimi anni della sua vita Marcello De Cecco considerava sempre più tangibile il rischio di un rapido riflusso verso forme di ultranazionalismo e di razzismo, ma lo interpretava come una tremenda eterogenesi dei fini del globalismo indiscriminato e dell’europeismo acritico che negli anni precedenti avevano imperversato tra le forze politiche, specie a sinistra. Questo nesso di causa ed effetto suggerisce un’interpretazione non banale della storia recente delle relazioni internazionali. Su di esso sarebbe utile provare a riflettere.
* Fonte: Emiliano Brancaccio
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