[ 9 gennaio ]
Avremo modo di tornare sulla nuova bufera finanziaria che coinvolge la Cina.
Ne avevano parlato il 27 agosto scorso, a commento del precedente terremoto finanziario che coinvolse la borsa di Shanghai.
Intanto consigliamo la lettura di quello che riteniamo l'articolo più istruttivo comparso in questi giorni sui media nostrani. E' un articolo di oggi della corrispondente de LA STAMPA.
La dice lunga su come funziona l'economia cinese. Ne consigliamo la lettura anzitutto a coloro che considerano la Cina... un "paese socialista".
I 90 MILIONI DI INVESTITORI CHE A SHANGHAI GIOCANO IN BORSA COME AL CASINO
di Cecilia Attanaglio Grezzi
«Per la Borsa cinese il 7 gennaio è stato il giorno più breve di sempre. Dopo appena 14 minuti Shanghai ha perso il 5 per cento e si è azionato l'«interruttore», la sospensione di 15 minuti introdotta il 4 gennaio proprio per controllare la volatilità dei mercati. Non è bastato. Anzi probabilmente ha peggiorato la situazione.
Appena le contrattazioni sono riprese si è registrato un nuovo calo del 7 per cento e le Borse hanno chiuso per la giornata. In serata è stata annunciata anche l' abolizione della nuova misura dalla contrattazione di venerdì. Invece di calmierare i danni, evidentemente, avrebbe contribuito a diffondere il panico perché impedisce agli investitori di vendere liberamente quando le perdite si fanno ingenti. In soli quattro giorni l' indice di Shanghai ha perso il 12 per cento tornando ai livelli di inizio 2015.
Il mercato azionario cinese è secondo solo a quello degli Stati Uniti, ma ha caratteristiche proprie. Le Borse di Shanghai e Shenzhen contano 90 milioni di piccoli azionisti, più degli iscritti al Partito comunista cinese, che giocano con la finanza come fossero al casinò. Secondo alcune stime, costituiscono circa l' 80 per cento del totale degli investitori. Così, quando a primavera del 2015, l' indice di Shanghai è salito vertiginosamente fino a toccare rialzi del 150 per cento, i piccoli risparmiatori cinesi sono stati travolti da un' euforia contagiosa. Solo a maggio scorso sono stati aperti 12 milioni di nuovi conti-titoli.
Scene di panico
È così che i grandi investitori hanno cominciato a vendere. Il 12 giugno il sistema che aveva portato a guadagni facili ha cominciato a crollare ed è esploso il panico. Il governo ha cercato di tamponare con misure di emergenza e i piccoli risparmiatori hanno svenduto: se il governo non crede più nelle Borse meglio lasciar perdere.
In poche settimane i mercati azionari cinesi hanno perso il 45 per cento del loro valore, una situazione che ha spinto il governo ad intervenire con misure drastiche. Prima tra tutte quella in scadenza domani: vietare la vendita di azioni a chiunque possieda più del 5 per cento di un titolo. Ora questa misura sarà sostituita da un' altra: dal 9 gennaio i grandi azionisti potranno vendere solo l' 1 per cento delle azioni di un titolo ogni tre mesi.
È evidente che queste misure non sono dirette ai piccoli azionisti. Le stesse statistiche dell' indice di Shanghai, descrivono le decine di milioni di piccoli investitori cinesi come numerosi, ma di poco peso.
Il 90 per cento di loro possiede azioni per un valore inferiore ai 14 mila euro. Considerando che l' intero mercato azionario cinese ammonterebbe a 6500 miliardi di euro, si può assumere che oltre due terzi degli investitori possiedono complessivamente meno del 5 per cento dei titoli. L' insieme delle aziende di Stato, da solo, capitalizza il 6 per cento del totale.
I soldi dello Stato
Il punto è che questo governo ha investito credibilità e prestigio sullo sviluppo del mercato azionario. Secondo Goldman Sachs, per controllare i mercati finanziari, Pechino avrebbe investito oltre 210 miliardi di euro nei soli mesi di luglio e agosto dello scorso anno. All' inizio del loro mandato il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang hanno affermato, per la prima volta nella Cina comunista, la volontà che le forze di mercato giocassero «un ruolo decisivo» nell' allocazione delle risorse.
Ma a metà giugno hanno dimostrato con chiarezza che non erano disposti a lasciare che il mercato si auto-regolamentasse. A sei mesi di distanza, l' errore è stato ripetuto. Il crollo di ieri ha dimostrato a tutti che c' è qualcosa che il Partito comunista non è in grado di controllare: la Borsa».
«Per la Borsa cinese il 7 gennaio è stato il giorno più breve di sempre. Dopo appena 14 minuti Shanghai ha perso il 5 per cento e si è azionato l'«interruttore», la sospensione di 15 minuti introdotta il 4 gennaio proprio per controllare la volatilità dei mercati. Non è bastato. Anzi probabilmente ha peggiorato la situazione.
Appena le contrattazioni sono riprese si è registrato un nuovo calo del 7 per cento e le Borse hanno chiuso per la giornata. In serata è stata annunciata anche l' abolizione della nuova misura dalla contrattazione di venerdì. Invece di calmierare i danni, evidentemente, avrebbe contribuito a diffondere il panico perché impedisce agli investitori di vendere liberamente quando le perdite si fanno ingenti. In soli quattro giorni l' indice di Shanghai ha perso il 12 per cento tornando ai livelli di inizio 2015.
Il mercato azionario cinese è secondo solo a quello degli Stati Uniti, ma ha caratteristiche proprie. Le Borse di Shanghai e Shenzhen contano 90 milioni di piccoli azionisti, più degli iscritti al Partito comunista cinese, che giocano con la finanza come fossero al casinò. Secondo alcune stime, costituiscono circa l' 80 per cento del totale degli investitori. Così, quando a primavera del 2015, l' indice di Shanghai è salito vertiginosamente fino a toccare rialzi del 150 per cento, i piccoli risparmiatori cinesi sono stati travolti da un' euforia contagiosa. Solo a maggio scorso sono stati aperti 12 milioni di nuovi conti-titoli.
Scene di panico
È così che i grandi investitori hanno cominciato a vendere. Il 12 giugno il sistema che aveva portato a guadagni facili ha cominciato a crollare ed è esploso il panico. Il governo ha cercato di tamponare con misure di emergenza e i piccoli risparmiatori hanno svenduto: se il governo non crede più nelle Borse meglio lasciar perdere.
In poche settimane i mercati azionari cinesi hanno perso il 45 per cento del loro valore, una situazione che ha spinto il governo ad intervenire con misure drastiche. Prima tra tutte quella in scadenza domani: vietare la vendita di azioni a chiunque possieda più del 5 per cento di un titolo. Ora questa misura sarà sostituita da un' altra: dal 9 gennaio i grandi azionisti potranno vendere solo l' 1 per cento delle azioni di un titolo ogni tre mesi.
È evidente che queste misure non sono dirette ai piccoli azionisti. Le stesse statistiche dell' indice di Shanghai, descrivono le decine di milioni di piccoli investitori cinesi come numerosi, ma di poco peso.
Il 90 per cento di loro possiede azioni per un valore inferiore ai 14 mila euro. Considerando che l' intero mercato azionario cinese ammonterebbe a 6500 miliardi di euro, si può assumere che oltre due terzi degli investitori possiedono complessivamente meno del 5 per cento dei titoli. L' insieme delle aziende di Stato, da solo, capitalizza il 6 per cento del totale.
I soldi dello Stato
Il punto è che questo governo ha investito credibilità e prestigio sullo sviluppo del mercato azionario. Secondo Goldman Sachs, per controllare i mercati finanziari, Pechino avrebbe investito oltre 210 miliardi di euro nei soli mesi di luglio e agosto dello scorso anno. All' inizio del loro mandato il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang hanno affermato, per la prima volta nella Cina comunista, la volontà che le forze di mercato giocassero «un ruolo decisivo» nell' allocazione delle risorse.
Ma a metà giugno hanno dimostrato con chiarezza che non erano disposti a lasciare che il mercato si auto-regolamentasse. A sei mesi di distanza, l' errore è stato ripetuto. Il crollo di ieri ha dimostrato a tutti che c' è qualcosa che il Partito comunista non è in grado di controllare: la Borsa».
* Fonte: LA STAMPA del 9 gennaio 2016
1 commento:
La domanda sembra abbastanza semplice: come creare i 400 milioni di appartenenti alla middle class senza passare per il fordismo (ovvero versare parte degli utili societari nelle buste paga dei lavoratori)? Beh, la ricetta cinese non passa per gli scioperi (proibiti!) frutto del braccio di ferro tra padronato e lavoratori ma per la finanza-casinò. La borsa cinese ha finora assolto al compito assegnatole ma, purtroppo, non ha fatto i conti con i destini delle bolle che da quella dei tulipani olandesi del '600 fino ai giorni nostri hanno sempre fatto quella fine: prima o dopo si sgonfiano.
Nella ex URSS almeno non c'era una vera e propria middle class, al massimo c'erano gli apparatchick. Eppure per quella nazione si parlava di capitalismo di Stato. E della Cina cosa si dovrebbe dire, allora?
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