[ 22 gennaio ]
A proposito della crisi bancaria, del conflitto Renzi-Juncker e del gigantesco scontro di interessi in atto. In coda un breve commento sulle dichiarazioni di Draghi
«Le banche vengano dunque salvate (evitando il bail-in e mandando a quel paese l'UE), ma nello stesso tempo nazionalizzate»
Rassicurare. L'ordine di giornata è questo, e non potrebbe essere altrimenti. Crollano i valori borsistici delle banche italiane? Per Renzi e Padoan il sistema bancario italiano è il più solido d'Europa. Il Monte dei Paschi di Siena (Mps) perde oltre il 50% della propria capitalizzazione dall'inizio dell'anno? La soluzione "arriverà dal mercato", dice il presidente del consiglio in una mega intervista (prima, seconda e terza pagina) sul Sole 24 Ore di stamane.
Rassicurano ovviamente i banchieri - e cos'altro dovrebbero fare! -, rassicurano gli speculatori professionali (uno su tutti: il "leopoldino" Davide Serra: “ci pensiamo noi”) e rassicura perfino la Bce: la lettera alle banche sulle sofferenze? Una comunicazione di routine di ben poca rilevanza... Strano era sembrato a tutti il contrario...
Ma mentre lorsignori "rassicurano", segno evidente che non hanno al momento idee chiare sul da farsi, sarà bene fare mente locale sui cosiddetti "fondamentali". Oggi, come prevedibile, le borse europee hanno realizzato il più classico dei rimbalzi, e naturalmente chi più aveva perso nei giorni scorsi (vedi Mps e Carige) più è “rimbalzato”, senza però recuperare le perdite precedenti. Ma le borse sono solo un sintomo di una malattia che ha ben altre cause. E che richiederebbe ben altre medicine, esattamente quelle che non si trovano nelle farmacie del sistema neoliberista.
Cerchiamo perciò di risalire ai "fondamentali" per tentare di capire, pur tra tante incertezze, come potrà svilupparsi la situazione. Per farlo bisognerà però tener conto che i "fondamentali" non sono soltanto quelli di natura economica, ma pure quelli di matrice politica.
Molte cose le ho già scritte nell'articolo "Il 2016 di fuoco delle banche italiane", pubblicato il 30 dicembre 2015. Un pezzo che si apriva con questa frase: "Almeno per le banche, il 2016 non sarà un anno come gli altri". Previsione non difficile da farsi. Più complesso - ora che il fuoco arde con un'intensità mai vista - capire come finirà la partita.
Proviamo dunque a mettere un po' di ordine in una problematica che spesso porta ad oscillazioni estreme tra l'idea della "tempesta perfetta" e quella del "tutto va ben madama la Marchesa", con in mezzo gli inevitabili complotti degli ancor più inevitabili speculatori. Ovviamente i complotti esistono, e di certo esiste la speculazione. Quel che non sopportiamo è la ricorrente "scoperta" della sua esistenza nei momenti topici delle grandi crisi finanziarie. Come potrebbe non esistere, e non pesare alla grande, la speculazione in un sistema incentrato sulla finanza e basato sul più cieco credo mercatista?
Ma lasciamo perdere e andiamo al dunque, procedendo per punti.
1. La nuova fase della crisi sistemica globale
Si è mai ripreso veramente il sistema dalla crisi iniziata nel 2008? La risposta è no. Alcune aree del pianeta hanno risposto meglio, altre assai meno (evidente il caso europeo), ma in generale il sistema è rimasto in crisi. La prova più evidente di tutto ciò è che oggi, mentre le economie occidentali (quelle definite "mature") affannano, i cosiddetti "emergenti" sprofondano in una crisi valutaria e del debito di cui non si vede la fine. E' arrivata così la deflazione, a dispetto delle enormi iniezioni di liquidità targate Fed, Bce, BoE (Bank of England), BOJ (Banca del Giappone), eccetera.
Ed è arrivato il crollo del prezzo del petrolio, che si è tirato dietro quello di tutte le materie prime. Notizie che avrebbero fatto la gioia dei capitalisti occidentali fin quando le economie più direttamente legate a questi prodotti contavano poco o nulla. Notizie invece assai terribili oggi, anche per i sofisticati apparati uditivi degli attuali padroni del vapore. Quelle economie oggi pesano eccome, basti pensare a paesi come la Russia, il Sudafrica, il Brasile, la stessa Arabia Saudita.
Breve digressione. E' stato proprio il regno dei Saud a dare il via alla guerra del petrolio, onde colpire avversari geopolitici (Russia, Iran, Venezuela), ma anche gli "amici" americani tuffatisi nella pericolosa scommessa dello shale oil. Risultato? I paesi produttori di materie prime (tutte, non solo il petrolio) sprofondano, mentre i produttori di beni di consumo vedono ridurre le proprie esportazioni verso le economie "estrattive". Ed anche le mitiche riserve finanziarie di Ryad cominciano ad accusare il colpo...
Ma il tracollo dei prezzi delle materie prime ha anche altre conseguenze in occidente: la crisi delle grandi compagnie minerarie, quella delle multinazionali del petrolio e del gas, ed infine quella ancora più acuta delle società attive nell'estrazione dello shale oil, con ricadute pesanti (anche se ancora da valutare appieno) sul sistema bancario americano.
C'è poi un altro aspetto. Il tracollo delle materie prime ha travolto le monete dei rispettivi paesi, con svalutazioni spesso assai pesanti. Svalutazioni certamente utili a ritrovare competitività, ma micidiali per le grandi compagnie indebitate in dollari od in euro. Emblematico il caso del gigante brasiliano Petrobras, che incassa in buona parte in real, dovendo però pagare nella valuta americana un debito di ben 94 miliardi di dollari.
A questo quadro, già piuttosto critico, si aggiungono il rallentamento della Cina e le conseguenze della guerra in corso in Medio Oriente. Ce n'è abbastanza per capire che l'economia mondiale sta andando verso un pesante rallentamento, che per alcune aree e diversi paesi significherà una nuova fase di recessione. Da qui i tonfi borsistici di questi giorni, con perdite generalizzate ed estese a tutti i continenti. Per restare all'Europa, e con riferimenti ai primi 20 giorni dell'anno, Francoforte ha perso il 12,58%, Madrid il 13,23%, Parigi l'11,04%, Atene il 16,62%, Milano il 16,11%.
Ma a Milano hanno pesato soprattutto le banche. Se dunque bisogna avere sempre un occhio rivolto alla situazione generale, l'altro andrà dedicato allo specifico del settore bancario italiano.
2. Le banche nella tempesta
Perché le banche italiane sono al centro della tempesta? Essenzialmente per tre motivi, che certo non scopriamo oggi: a) perché tra i lasciti di otto anni di crisi vi sono 360 miliardi di crediti deteriorati, tra i quali circa 200 di "sofferenze", b) perché non si è approntato per tempo - quando tutti gli altri paesi lo facevano - il paracadute della bad bank, c) perché si è supinamente accettata l'Unione bancaria, le cui regole (in specie il famigerato bail in) sono semplicemente catastrofiche ove applicate ad una situazione come quella italiana.
Se queste sono le cause di tanta debolezza, non dovrebbe essere difficile individuare i responsabili. Se quello della crisi è un soggetto impersonale, il capitalismo, in particolare nella sua attuale forma di capitalismo-casinò, i responsabili delle altre due cause del disastro hanno volti meno sfuggenti. Chi, se non la classe dirigente del paese (quella politica, ma non solo), è responsabile di non aver agito per tempo, gingillandosi con il ritornello del sistema bancario più sicuro del mondo? E chi sono i responsabili delle regole bancarie, se non (da un lato) le oligarchie euriste che l'hanno voluto e (dall'altro) il governo di Roma che l'ha subito?
In particolare, facciamoci una domanda. Senza il meccanismo del bail in avremmo avuto la tempesta di questi giorni? Chiunque segua anche solo distrattamente le vicende finanziarie sa benissimo che la risposta è NO, mille volte NO. Chiara quindi la responsabilità politica di chi l'ha accettato, con un atteggiamento tra lo sciagurato ed il fatalista.
E' la prospettiva del bail in a produrre la fuga dalle banche italiane, in modo particolare da quelle considerate più esposte. E quando si è agito come nel caso delle 4 banche "risolte" - così si dice adesso - a novembre, servono a ben poco le rassicurazioni dall'alto di "autorità" alle quali in ben pochi ormai credono. Ma il meccanismo del bail in appare ancora più micidiale, quasi ineluttabile per alcuni istituti, alla luce dell'assenza di una bad bank.
Su cosa sia il bail in, su quali sono i nodi irrisolti della bad bank, ho già scritto a sufficienza nell'articolo già citato. Adesso pare che Padoan abbia presentato una nuova proposta all'UE. Siccome la bad bank - che sia una o siano tante poco cambia - ha senso solo se prevede una garanzia pubblica, e siccome la UE di questa garanzia neppure vuol sentire parlare, ecco la trovata: la garanzia potrà essere richiesta da ogni singola banca, ma solo a pagamento. La Commissione europea forse non avrà più niente da eccepire, ma così congegnata la bad bankdel ministro dell'Economia servirà a poco o a niente.
E' esattamente quel che vogliono a Bruxelles, per non parlare di Berlino. In questi giorni qualcuno ha parlato di attacco all'Italia. E per la verità l'ha fatto anche un isospettabile come il presidente dell'Abi (Associazione bancaria italiana) Patuelli. Il duo Renzi-Padoan, che ora sta provando a ricucire con la cupola eurista, si è affrettato a dire che no, non c'è nessun attacco all'Italia, al massimo a qualche banca...
L'attacco invece c'è. Si approfitta del micidiale dispositivo del bail in per raggiungere tre scopi. Il primo, quello più evidente, consiste nel drastico taglio dei valori borsistici delle banche italiane, trasformate così in facili bocconi alla portata dei grandi predatori della finanza internazionale. Il secondo - non meno importante - sta nel movimento di capitali che si sta registrando dalle banche della periferia sud dell'eurozona verso quelle del centro eurista (Germania ed Olanda in primo luogo). Il terzo, quello meno appariscente, consiste nel portare un colpo non indifferente all'intera economia italiana. Ma come, diranno increduli i pochi fans dell'Europa ancora rimasti in circolazione, che non siamo forse tutti europei? Per costoro non vi saranno mai argomenti adeguati, data la nota cecità che li contraddistingue. In ogni caso all'unione europea (in minuscolo) non crede più nessuno nei palazzi del potere dell'UE, mentre ognuno persegue sempre più chiaramente i propri specifici interessi nazionali. Che spesso confliggono fra loro. Piaccia o non piaccia è così. Perché non prenderne atto?
3. E Renzi?
A dicembre abbiamo scritto che lo scontro tra il governo italiano e la Commissione Europea non è una semplice commedia. Una valutazione che ha trovato un puntuale riscontro nei fatti di questi giorni, con il durissimo scambio verbale tra Juncker e Renzi. Si dirà che sono solo parole, ma in politica le parole hanno il loro peso.
Sulle banche, però, Renzi appare sulla difensiva, come se i suoi obiettivi fossero in realtà altri. Nella già citata intervista di questa mattina, il capo del governo è apparso perfino penoso nella sua inesausta lode alle virtù del mercato. Nella sua visione sarà il mercato (con acquisizioni dall'Italia o dall'estero non importa) a risolvere il caso del Monte dei Paschi. Non solo, per Renzi quel che sta accadendo è addirittura un'opportunità. Leggiamo: "Gli eventi di queste ore agevoleranno fusioni, aggregazioni, acquisti. E' il mercato, bellezza. Vedrà che sarà uno scenario interessante. Ne sono certo". Che dire? Fede cieca o semplice speranza riposta nella sua abituale fortuna?
Probabilmente l'una e l'altra, ma ancor di più la convinzione che qualche operazione sia ormai alle porte. Sul caso Mps ieri circolava insistentemente la voce di un interessamento da parte di Ubi Banca, un istituto che però ha problemi non troppo diversi da quelli della banca senese. Due debolezze fanno una forza? Solitamente no. Certo Renzi ha in mente qualcosa di preciso, come traspare dalla sua risposta al direttore del Sole 24 Ore: "Il Monte dei Paschi oggi è a prezzi incredibili. Penso che la soluzione migliore sarà quella che il mercato deciderà. Mi piacerebbe tanto fosse italiana, ma chiunque verrà farà un ottimo affare".
Mai si era visto un appello così sfrontato alla svendita a prezzi stracciati di un'importante banca nazionale. Renzi alleato degli speculatori? Evidentemente sì, ma questa non è quella che si dice una notizia sorprendente.
Ora, al di là delle risibili "decisioni del mercato", è certamente possibile, e forse anche probabile, che un acquirente si faccia avanti. Ma tamponare temporaneamente un problema è cosa ben diversa dal risolverlo. Le banche in difficoltà sono molte, le ragioni della loro crisi sono strutturali: come accontentarsi allora di un tirare a campare di corto respiro? Evidentemente i decisori politici ritengono di non poter o di non dover fare qualcosa di più.
La retorica mercatista è in questo caso debole più che mai, ma a Renzi serve per coprire una difficoltà politica gigantesca. Anche un bambino capirebbe che tappare un buco senza affrontare i problemi che stanno a monte serve solo a prendere un po' di tempo. Il fatto è che la questione bancaria ci porta al cuore dello scontro tra l'Italia e l'Unione Europea.
Ho già detto che, a mio giudizio, questo scontro è reale visti i giganteschi interessi in gioco. Ed al centro della contesa c'è, insieme alla questione bancaria, quella delle regole di bilancio sintetizzate nel Fiscal compact. Probabilmente a Renzi questa seconda questione preme di più, viste le sue implicazioni in termini di consenso. Stando alle ultime voci l'UE chiede all'Italia due cose: di versare 300 milioni di euro per contribuire al finanziamento della Turchia per la gestione dei profughi provenienti dalla Siria, di rinunciare a due "clausole di flessibilità" sulle quattro richieste per far quadrare i conti della legge di stabilità.
Più esattamente, le due clausole che l'Europa non vuol concedere sarebbero quelle sui migranti (3,2 miliardi) e sulla sicurezza (2 miliardi). Se non si troverà una via d'uscita, Renzi sarà costretto ad una manovra correttiva in primavera, quando si terrà un importante turno elettorale amministrativo, ed a pochi mesi dal fondamentale referendum costituzionale d'autunno.
In realtà la questione bancaria è potenzialmente ben più esplosiva di un relativamente modesto aggiustamento di bilancio, ma qui Renzi sembra affidarsi allo Stellone, secondo la nota massima andreottiana secondo cui "tirare a campare è sempre meglio che tirare le cuoia".
4. Lo scontro con L'Unione Europea
Quel che è importante comprendere è che, al di là degli alti e bassi della polemica politica, le ragioni dello scontro di interessi tra Italia ed euro-Germania sono strutturali. Non si sfugge a questo nodo. Lo si potrà rimandare su questa o quella questione, magari per ragioni tattiche, talvolta per mero opportunismo, ma le ragioni di questo scontro sono destinate a ripresentarsi ogni volta in maniera più acuta.
Le vicende dell'ultimo mese vanno dunque viste in questo contesto. E si tratta di vicende assai istruttive. Da un lato la conferma dell'irriformabilità dell'Unione e delle sue politiche rigoriste, dall'altro il delinearsi sempre più netto di una "questione italiana". Un sintomo di questa polarizzazione sta nel fatto che in Italia l'europeismo acritico è ormai scomparso. Lo si potrà ritrovare magari in qualche editoriale di Scalfari, od in qualche memoria dell'uomo con il loden, ma sembrano passati secoli dall'epoca dei fasti della religione eurista.
Poco più di tre anni fa il parlamento italiano, quasi all'unanimità, approvava il fiscal compact e metteva in Costituzione il pareggio di bilancio, salvo poi evitare l'applicazione dell'uno e dell'altro. A proposito, a quando l'apertura di un processo per "attentato alla Costituzione"? In fondo sarebbe davvero divertente. Ma, scherzi a parte, sta anche qui la dimostrazione della follia della costruzione europea.
Solo che in quella follia c'è del metodo. Metodo tedesco, per la precisione. Ora, che molti buoi sono già scappati dalla stalla, che si è subito quasi un decennio di pesante recessione, qualche riflessione va facendosi strada negli ambienti più diversi. Anche, ne siamo certi, dentro quel blocco dominante che volle Monti e glorificò l'austerità. Anche perché era un'austerità per gli altri, per il popolo lavoratore. Ora che anche il loro mondo viene messo sotto pressione, come nel caso delle banche, si comincia cautamente ad ammettere che quella politica è stato un autentico disastro nazionale.
Sta qui una delle ragioni degli strappi anti-tedeschi di Renzi. Il fiorentino è certamente spinto dalla sua logica di potere. Sente che se dovesse piegarsi agli eurocrati come un Monti qualunque la sua carriera politica sarebbe finita. Ma sente anche la pressione di una parte dei centri del potere nazionale, che egli sa essergli amici, ma di quelle amicizie legate assai al portafoglio.
Lo scontro tra l'Italia e l'euro-Germania è dunque uno scontro reale, uno scontro il cui esito non può certo vederci indifferenti. Scriveva ieri sollevAzione:
"Sta di fatto che, almeno fino ad ora, Renzi tiene duro mentre gli euro-oligarchi, con dietro il governo tedesco, tenteranno di piegarlo, se necessario scatenandogli contro l'ira di Dio per mettere qualcun altro al suo posto. Un proconsole, un cane ubbidiente, un Quisling come furono Monti o Letta, affinché l'Italia sia nuovamente sottoposta ad un regime stringente di protettorato, con la cessione di nuove porzioni di sovranità politica ai poteri oligarchici euro-tedeschi. I sovranisti, in questo caso, potranno restarsene alla finestra?"
No, i sovranisti non potranno restare alla finestra. Se così facessero sarebbe la condanna alla loro irrilevanza politica. In situazioni come questa bisogna sempre capire qual è la contraddizione principale, che in questo caso è quella che oppone la maggioranza degli italiani - quello che definiamo popolo lavoratore - al dominio delle oligarchie finanziarie che hanno nell'euro e nei trattati europei la clava con cui esercitano il loro potere.
Ma per dare al sovranismo di sinistra forza e sostanza occorrono anche delle proposte alternative sui principali problemi del paese. Torniamo così alla questione delle banche.
5. Come affrontare la crisi bancaria?
Così concludevamo il già citato articolo di fine anno: "La vicenda di cui ci siamo occupati in questo articolo mostra anche un'altra necessità (oltre all'uscita dall'euro, ndr): quella di nazionalizzare il sistema bancario. Se c'è una cosa che la crisi ha dimostrato, ammesso ce ne fosse bisogno, è proprio l'odierna centralità della finanza. Certo, noi ci battiamo per una società che si sganci e si liberi dal dominio della finanza, ma proprio per raggiungere questo obiettivo - evitando nel contempo una catastrofica crisi sociale - non c'è altra strada che la nazionalizzazione delle banche. Del resto, se queste non possono essere fatte fallire pena disastrose conseguenze economiche, per quale motivo il costo (pubblico) del loro salvataggio dovrebbe andare a beneficio di ricchi privati? Le banche vengano dunque salvate (evitando il bail-in e mandando a quel paese l'UE), ma nello stesso tempo nazionalizzate. Questa è la posizione che dovrebbe assumere chiunque abbia a cuore le sorti del popolo lavoratore. Altre non ne vediamo".
C'è ben poco da aggiungere a queste parole, se non che esse trovano una discreta conferma negli eventi delle ultime settimane.
Che "nazionalizzazione" non sia esattamente una parolaccia lo ha scritto ieri perfino Luigi Zingales. Ma guarda un po'! Naturalmente quella che Zingales propone per le banche italiane non è una vera e propria nazionalizzazione, ma l'uomo è intelligente e comprende benissimo quanto il confine possa essere sottile.
In concreto, Zingales propone che lo Stato (magari attraverso la Cassa Depositi e Prestiti) ricapitalizzi le banche che non sono in grado di farlo con capitali privati, imponendo alle stesse regole rigide in materia di dividendi (da cancellare per tre anni) e di management (da "rottamare" in toto). Ovviamente per l'accademico padovano, che si basa all'ingrosso sul modello adottato negli Usa, lo Stato - divenuto così proprietario delle banche ricapitalizzate - dovrebbe ritrarsi da tale ruolo (per i liberisti come lui un'autentica bestemmia) non appena possibile.
Ma a Zingales certo non sfugge che un simile zig zag potrebbe anche rivelarsi meno agevole di quel che sembra. Ecco quel che scrive a proposito: "Obiezioni verranno anche da chi teme una nazionalizzazione del sistema bancario. Il rischio è serio. Ma c'è solo una cosa peggiore di una nazionalizzazione delle banche: una socializzazione delle perdite, quando i profitti rimangono privati. E' quello che accadrebbe con la bad bank progettata dal governo".
Può sembrare strano, ma in questo modo Zingales ci dà in un certo senso ragione quando abbiamo scritto che: "Le banche vengano dunque salvate (evitando il bail-in e mandando a quel paese l'UE), ma nello stesso tempo nazionalizzate". Egli ritiene infatti che il salvataggio delle banche non possa avvenire con la semplice e troppo comoda (per lorsignori) socializzazione delle perdite. Certo, in linea con la sua visione del mondo, Zingales vorrebbe scongiurare la nazionalizzazione - che per noi è invece un passo necessario (al di là della contingenza) per sganciarsi dai meccanismi del capitalismo-casinò -, ma non la considera neppure la soluzione peggiore. E questo significa molte cose, mostrando come la crisi economica stia iniziando ormai a produrre una vera crisi teorica, sui cui esiti non ci illudiamo di certo, ma che attesta assai bene la crisi di prospettiva del capitalismo contemporaneo.
6. Infine, Draghi
Stavamo chiudendo questo articolo quando è arrivato a reti unificate il messaggio di Draghi. E le sue parole hanno enormemente rafforzato il rimbalzo borsistico già in atto. Ma cosa ha detto di così importante il capo della setta eurista? Per la verità niente di speciale. Ha promesso nuove misure a marzo, e tanto è bastato. Ha ammesso le difficoltà, affermando che: "I rischi sono nuovamente aumentati". Uno scenario che egli si propone di affrontare con un senso di onnipotenza neppure tanto vago. Secondo l'articolo di Repubblica, che potete leggere QUI: "Non ci sono limiti a quanto possiamo", avrebbe detto. Boom!
I limiti ci sono eccome, come dimostrato dalla lontananza dagli obiettivi di inflazione alla base del quantitative easing (0,2% anziché il 2% atteso) dopo un anno di acquisto di titoli al ritmo di 60 miliardi al mese. I poteri saranno anche illimitati, ma i risultati appaiono in realtà piuttosto modesti.
Le parole di Draghi, che queste cose le sa assai meglio di noi, hanno ovviamente un altro obiettivo: rassicurare, al pari di tutti i "rassicuratori", spesso assai poco rassicuranti, elencati all'inizio. La sua è la rassicurazione del pusher nei confronti del drogato: non ti farò mancare la droga (in questo caso, droga finanziaria) di cui hai bisogno. Del resto, Lui per questo è pagato. Solo che gli effetti benefici della droga (anche quella finanziaria) hanno breve durata, mentre le conseguenze sono spesso letali. Ma l'orizzonte temporale degli stregoni al capezzale di un sistema che non vuol riprendersi è assai breve. E l'obiettivo è sempre il solito: prendere tempo. Ma il tempo non è mai illimitato, ed i rumori di guerra sempre più vicini di questo vorrebbero forse avvertirci.
Fonte: Campo Antimperialista
A proposito della crisi bancaria, del conflitto Renzi-Juncker e del gigantesco scontro di interessi in atto. In coda un breve commento sulle dichiarazioni di Draghi
«Le banche vengano dunque salvate (evitando il bail-in e mandando a quel paese l'UE), ma nello stesso tempo nazionalizzate»
Rassicurare. L'ordine di giornata è questo, e non potrebbe essere altrimenti. Crollano i valori borsistici delle banche italiane? Per Renzi e Padoan il sistema bancario italiano è il più solido d'Europa. Il Monte dei Paschi di Siena (Mps) perde oltre il 50% della propria capitalizzazione dall'inizio dell'anno? La soluzione "arriverà dal mercato", dice il presidente del consiglio in una mega intervista (prima, seconda e terza pagina) sul Sole 24 Ore di stamane.
Rassicurano ovviamente i banchieri - e cos'altro dovrebbero fare! -, rassicurano gli speculatori professionali (uno su tutti: il "leopoldino" Davide Serra: “ci pensiamo noi”) e rassicura perfino la Bce: la lettera alle banche sulle sofferenze? Una comunicazione di routine di ben poca rilevanza... Strano era sembrato a tutti il contrario...
Ma mentre lorsignori "rassicurano", segno evidente che non hanno al momento idee chiare sul da farsi, sarà bene fare mente locale sui cosiddetti "fondamentali". Oggi, come prevedibile, le borse europee hanno realizzato il più classico dei rimbalzi, e naturalmente chi più aveva perso nei giorni scorsi (vedi Mps e Carige) più è “rimbalzato”, senza però recuperare le perdite precedenti. Ma le borse sono solo un sintomo di una malattia che ha ben altre cause. E che richiederebbe ben altre medicine, esattamente quelle che non si trovano nelle farmacie del sistema neoliberista.
Cerchiamo perciò di risalire ai "fondamentali" per tentare di capire, pur tra tante incertezze, come potrà svilupparsi la situazione. Per farlo bisognerà però tener conto che i "fondamentali" non sono soltanto quelli di natura economica, ma pure quelli di matrice politica.
Molte cose le ho già scritte nell'articolo "Il 2016 di fuoco delle banche italiane", pubblicato il 30 dicembre 2015. Un pezzo che si apriva con questa frase: "Almeno per le banche, il 2016 non sarà un anno come gli altri". Previsione non difficile da farsi. Più complesso - ora che il fuoco arde con un'intensità mai vista - capire come finirà la partita.
Proviamo dunque a mettere un po' di ordine in una problematica che spesso porta ad oscillazioni estreme tra l'idea della "tempesta perfetta" e quella del "tutto va ben madama la Marchesa", con in mezzo gli inevitabili complotti degli ancor più inevitabili speculatori. Ovviamente i complotti esistono, e di certo esiste la speculazione. Quel che non sopportiamo è la ricorrente "scoperta" della sua esistenza nei momenti topici delle grandi crisi finanziarie. Come potrebbe non esistere, e non pesare alla grande, la speculazione in un sistema incentrato sulla finanza e basato sul più cieco credo mercatista?
Ma lasciamo perdere e andiamo al dunque, procedendo per punti.
1. La nuova fase della crisi sistemica globale
Si è mai ripreso veramente il sistema dalla crisi iniziata nel 2008? La risposta è no. Alcune aree del pianeta hanno risposto meglio, altre assai meno (evidente il caso europeo), ma in generale il sistema è rimasto in crisi. La prova più evidente di tutto ciò è che oggi, mentre le economie occidentali (quelle definite "mature") affannano, i cosiddetti "emergenti" sprofondano in una crisi valutaria e del debito di cui non si vede la fine. E' arrivata così la deflazione, a dispetto delle enormi iniezioni di liquidità targate Fed, Bce, BoE (Bank of England), BOJ (Banca del Giappone), eccetera.
Ed è arrivato il crollo del prezzo del petrolio, che si è tirato dietro quello di tutte le materie prime. Notizie che avrebbero fatto la gioia dei capitalisti occidentali fin quando le economie più direttamente legate a questi prodotti contavano poco o nulla. Notizie invece assai terribili oggi, anche per i sofisticati apparati uditivi degli attuali padroni del vapore. Quelle economie oggi pesano eccome, basti pensare a paesi come la Russia, il Sudafrica, il Brasile, la stessa Arabia Saudita.
Breve digressione. E' stato proprio il regno dei Saud a dare il via alla guerra del petrolio, onde colpire avversari geopolitici (Russia, Iran, Venezuela), ma anche gli "amici" americani tuffatisi nella pericolosa scommessa dello shale oil. Risultato? I paesi produttori di materie prime (tutte, non solo il petrolio) sprofondano, mentre i produttori di beni di consumo vedono ridurre le proprie esportazioni verso le economie "estrattive". Ed anche le mitiche riserve finanziarie di Ryad cominciano ad accusare il colpo...
Ma il tracollo dei prezzi delle materie prime ha anche altre conseguenze in occidente: la crisi delle grandi compagnie minerarie, quella delle multinazionali del petrolio e del gas, ed infine quella ancora più acuta delle società attive nell'estrazione dello shale oil, con ricadute pesanti (anche se ancora da valutare appieno) sul sistema bancario americano.
C'è poi un altro aspetto. Il tracollo delle materie prime ha travolto le monete dei rispettivi paesi, con svalutazioni spesso assai pesanti. Svalutazioni certamente utili a ritrovare competitività, ma micidiali per le grandi compagnie indebitate in dollari od in euro. Emblematico il caso del gigante brasiliano Petrobras, che incassa in buona parte in real, dovendo però pagare nella valuta americana un debito di ben 94 miliardi di dollari.
A questo quadro, già piuttosto critico, si aggiungono il rallentamento della Cina e le conseguenze della guerra in corso in Medio Oriente. Ce n'è abbastanza per capire che l'economia mondiale sta andando verso un pesante rallentamento, che per alcune aree e diversi paesi significherà una nuova fase di recessione. Da qui i tonfi borsistici di questi giorni, con perdite generalizzate ed estese a tutti i continenti. Per restare all'Europa, e con riferimenti ai primi 20 giorni dell'anno, Francoforte ha perso il 12,58%, Madrid il 13,23%, Parigi l'11,04%, Atene il 16,62%, Milano il 16,11%.
Ma a Milano hanno pesato soprattutto le banche. Se dunque bisogna avere sempre un occhio rivolto alla situazione generale, l'altro andrà dedicato allo specifico del settore bancario italiano.
2. Le banche nella tempesta
Perché le banche italiane sono al centro della tempesta? Essenzialmente per tre motivi, che certo non scopriamo oggi: a) perché tra i lasciti di otto anni di crisi vi sono 360 miliardi di crediti deteriorati, tra i quali circa 200 di "sofferenze", b) perché non si è approntato per tempo - quando tutti gli altri paesi lo facevano - il paracadute della bad bank, c) perché si è supinamente accettata l'Unione bancaria, le cui regole (in specie il famigerato bail in) sono semplicemente catastrofiche ove applicate ad una situazione come quella italiana.
Se queste sono le cause di tanta debolezza, non dovrebbe essere difficile individuare i responsabili. Se quello della crisi è un soggetto impersonale, il capitalismo, in particolare nella sua attuale forma di capitalismo-casinò, i responsabili delle altre due cause del disastro hanno volti meno sfuggenti. Chi, se non la classe dirigente del paese (quella politica, ma non solo), è responsabile di non aver agito per tempo, gingillandosi con il ritornello del sistema bancario più sicuro del mondo? E chi sono i responsabili delle regole bancarie, se non (da un lato) le oligarchie euriste che l'hanno voluto e (dall'altro) il governo di Roma che l'ha subito?
In particolare, facciamoci una domanda. Senza il meccanismo del bail in avremmo avuto la tempesta di questi giorni? Chiunque segua anche solo distrattamente le vicende finanziarie sa benissimo che la risposta è NO, mille volte NO. Chiara quindi la responsabilità politica di chi l'ha accettato, con un atteggiamento tra lo sciagurato ed il fatalista.
E' la prospettiva del bail in a produrre la fuga dalle banche italiane, in modo particolare da quelle considerate più esposte. E quando si è agito come nel caso delle 4 banche "risolte" - così si dice adesso - a novembre, servono a ben poco le rassicurazioni dall'alto di "autorità" alle quali in ben pochi ormai credono. Ma il meccanismo del bail in appare ancora più micidiale, quasi ineluttabile per alcuni istituti, alla luce dell'assenza di una bad bank.
Su cosa sia il bail in, su quali sono i nodi irrisolti della bad bank, ho già scritto a sufficienza nell'articolo già citato. Adesso pare che Padoan abbia presentato una nuova proposta all'UE. Siccome la bad bank - che sia una o siano tante poco cambia - ha senso solo se prevede una garanzia pubblica, e siccome la UE di questa garanzia neppure vuol sentire parlare, ecco la trovata: la garanzia potrà essere richiesta da ogni singola banca, ma solo a pagamento. La Commissione europea forse non avrà più niente da eccepire, ma così congegnata la bad bankdel ministro dell'Economia servirà a poco o a niente.
E' esattamente quel che vogliono a Bruxelles, per non parlare di Berlino. In questi giorni qualcuno ha parlato di attacco all'Italia. E per la verità l'ha fatto anche un isospettabile come il presidente dell'Abi (Associazione bancaria italiana) Patuelli. Il duo Renzi-Padoan, che ora sta provando a ricucire con la cupola eurista, si è affrettato a dire che no, non c'è nessun attacco all'Italia, al massimo a qualche banca...
L'attacco invece c'è. Si approfitta del micidiale dispositivo del bail in per raggiungere tre scopi. Il primo, quello più evidente, consiste nel drastico taglio dei valori borsistici delle banche italiane, trasformate così in facili bocconi alla portata dei grandi predatori della finanza internazionale. Il secondo - non meno importante - sta nel movimento di capitali che si sta registrando dalle banche della periferia sud dell'eurozona verso quelle del centro eurista (Germania ed Olanda in primo luogo). Il terzo, quello meno appariscente, consiste nel portare un colpo non indifferente all'intera economia italiana. Ma come, diranno increduli i pochi fans dell'Europa ancora rimasti in circolazione, che non siamo forse tutti europei? Per costoro non vi saranno mai argomenti adeguati, data la nota cecità che li contraddistingue. In ogni caso all'unione europea (in minuscolo) non crede più nessuno nei palazzi del potere dell'UE, mentre ognuno persegue sempre più chiaramente i propri specifici interessi nazionali. Che spesso confliggono fra loro. Piaccia o non piaccia è così. Perché non prenderne atto?
3. E Renzi?
A dicembre abbiamo scritto che lo scontro tra il governo italiano e la Commissione Europea non è una semplice commedia. Una valutazione che ha trovato un puntuale riscontro nei fatti di questi giorni, con il durissimo scambio verbale tra Juncker e Renzi. Si dirà che sono solo parole, ma in politica le parole hanno il loro peso.
Sulle banche, però, Renzi appare sulla difensiva, come se i suoi obiettivi fossero in realtà altri. Nella già citata intervista di questa mattina, il capo del governo è apparso perfino penoso nella sua inesausta lode alle virtù del mercato. Nella sua visione sarà il mercato (con acquisizioni dall'Italia o dall'estero non importa) a risolvere il caso del Monte dei Paschi. Non solo, per Renzi quel che sta accadendo è addirittura un'opportunità. Leggiamo: "Gli eventi di queste ore agevoleranno fusioni, aggregazioni, acquisti. E' il mercato, bellezza. Vedrà che sarà uno scenario interessante. Ne sono certo". Che dire? Fede cieca o semplice speranza riposta nella sua abituale fortuna?
Probabilmente l'una e l'altra, ma ancor di più la convinzione che qualche operazione sia ormai alle porte. Sul caso Mps ieri circolava insistentemente la voce di un interessamento da parte di Ubi Banca, un istituto che però ha problemi non troppo diversi da quelli della banca senese. Due debolezze fanno una forza? Solitamente no. Certo Renzi ha in mente qualcosa di preciso, come traspare dalla sua risposta al direttore del Sole 24 Ore: "Il Monte dei Paschi oggi è a prezzi incredibili. Penso che la soluzione migliore sarà quella che il mercato deciderà. Mi piacerebbe tanto fosse italiana, ma chiunque verrà farà un ottimo affare".
Mai si era visto un appello così sfrontato alla svendita a prezzi stracciati di un'importante banca nazionale. Renzi alleato degli speculatori? Evidentemente sì, ma questa non è quella che si dice una notizia sorprendente.
Ora, al di là delle risibili "decisioni del mercato", è certamente possibile, e forse anche probabile, che un acquirente si faccia avanti. Ma tamponare temporaneamente un problema è cosa ben diversa dal risolverlo. Le banche in difficoltà sono molte, le ragioni della loro crisi sono strutturali: come accontentarsi allora di un tirare a campare di corto respiro? Evidentemente i decisori politici ritengono di non poter o di non dover fare qualcosa di più.
La retorica mercatista è in questo caso debole più che mai, ma a Renzi serve per coprire una difficoltà politica gigantesca. Anche un bambino capirebbe che tappare un buco senza affrontare i problemi che stanno a monte serve solo a prendere un po' di tempo. Il fatto è che la questione bancaria ci porta al cuore dello scontro tra l'Italia e l'Unione Europea.
Ho già detto che, a mio giudizio, questo scontro è reale visti i giganteschi interessi in gioco. Ed al centro della contesa c'è, insieme alla questione bancaria, quella delle regole di bilancio sintetizzate nel Fiscal compact. Probabilmente a Renzi questa seconda questione preme di più, viste le sue implicazioni in termini di consenso. Stando alle ultime voci l'UE chiede all'Italia due cose: di versare 300 milioni di euro per contribuire al finanziamento della Turchia per la gestione dei profughi provenienti dalla Siria, di rinunciare a due "clausole di flessibilità" sulle quattro richieste per far quadrare i conti della legge di stabilità.
Più esattamente, le due clausole che l'Europa non vuol concedere sarebbero quelle sui migranti (3,2 miliardi) e sulla sicurezza (2 miliardi). Se non si troverà una via d'uscita, Renzi sarà costretto ad una manovra correttiva in primavera, quando si terrà un importante turno elettorale amministrativo, ed a pochi mesi dal fondamentale referendum costituzionale d'autunno.
In realtà la questione bancaria è potenzialmente ben più esplosiva di un relativamente modesto aggiustamento di bilancio, ma qui Renzi sembra affidarsi allo Stellone, secondo la nota massima andreottiana secondo cui "tirare a campare è sempre meglio che tirare le cuoia".
4. Lo scontro con L'Unione Europea
Quel che è importante comprendere è che, al di là degli alti e bassi della polemica politica, le ragioni dello scontro di interessi tra Italia ed euro-Germania sono strutturali. Non si sfugge a questo nodo. Lo si potrà rimandare su questa o quella questione, magari per ragioni tattiche, talvolta per mero opportunismo, ma le ragioni di questo scontro sono destinate a ripresentarsi ogni volta in maniera più acuta.
Le vicende dell'ultimo mese vanno dunque viste in questo contesto. E si tratta di vicende assai istruttive. Da un lato la conferma dell'irriformabilità dell'Unione e delle sue politiche rigoriste, dall'altro il delinearsi sempre più netto di una "questione italiana". Un sintomo di questa polarizzazione sta nel fatto che in Italia l'europeismo acritico è ormai scomparso. Lo si potrà ritrovare magari in qualche editoriale di Scalfari, od in qualche memoria dell'uomo con il loden, ma sembrano passati secoli dall'epoca dei fasti della religione eurista.
Poco più di tre anni fa il parlamento italiano, quasi all'unanimità, approvava il fiscal compact e metteva in Costituzione il pareggio di bilancio, salvo poi evitare l'applicazione dell'uno e dell'altro. A proposito, a quando l'apertura di un processo per "attentato alla Costituzione"? In fondo sarebbe davvero divertente. Ma, scherzi a parte, sta anche qui la dimostrazione della follia della costruzione europea.
Solo che in quella follia c'è del metodo. Metodo tedesco, per la precisione. Ora, che molti buoi sono già scappati dalla stalla, che si è subito quasi un decennio di pesante recessione, qualche riflessione va facendosi strada negli ambienti più diversi. Anche, ne siamo certi, dentro quel blocco dominante che volle Monti e glorificò l'austerità. Anche perché era un'austerità per gli altri, per il popolo lavoratore. Ora che anche il loro mondo viene messo sotto pressione, come nel caso delle banche, si comincia cautamente ad ammettere che quella politica è stato un autentico disastro nazionale.
Sta qui una delle ragioni degli strappi anti-tedeschi di Renzi. Il fiorentino è certamente spinto dalla sua logica di potere. Sente che se dovesse piegarsi agli eurocrati come un Monti qualunque la sua carriera politica sarebbe finita. Ma sente anche la pressione di una parte dei centri del potere nazionale, che egli sa essergli amici, ma di quelle amicizie legate assai al portafoglio.
Lo scontro tra l'Italia e l'euro-Germania è dunque uno scontro reale, uno scontro il cui esito non può certo vederci indifferenti. Scriveva ieri sollevAzione:
"Sta di fatto che, almeno fino ad ora, Renzi tiene duro mentre gli euro-oligarchi, con dietro il governo tedesco, tenteranno di piegarlo, se necessario scatenandogli contro l'ira di Dio per mettere qualcun altro al suo posto. Un proconsole, un cane ubbidiente, un Quisling come furono Monti o Letta, affinché l'Italia sia nuovamente sottoposta ad un regime stringente di protettorato, con la cessione di nuove porzioni di sovranità politica ai poteri oligarchici euro-tedeschi. I sovranisti, in questo caso, potranno restarsene alla finestra?"
No, i sovranisti non potranno restare alla finestra. Se così facessero sarebbe la condanna alla loro irrilevanza politica. In situazioni come questa bisogna sempre capire qual è la contraddizione principale, che in questo caso è quella che oppone la maggioranza degli italiani - quello che definiamo popolo lavoratore - al dominio delle oligarchie finanziarie che hanno nell'euro e nei trattati europei la clava con cui esercitano il loro potere.
Ma per dare al sovranismo di sinistra forza e sostanza occorrono anche delle proposte alternative sui principali problemi del paese. Torniamo così alla questione delle banche.
5. Come affrontare la crisi bancaria?
Così concludevamo il già citato articolo di fine anno: "La vicenda di cui ci siamo occupati in questo articolo mostra anche un'altra necessità (oltre all'uscita dall'euro, ndr): quella di nazionalizzare il sistema bancario. Se c'è una cosa che la crisi ha dimostrato, ammesso ce ne fosse bisogno, è proprio l'odierna centralità della finanza. Certo, noi ci battiamo per una società che si sganci e si liberi dal dominio della finanza, ma proprio per raggiungere questo obiettivo - evitando nel contempo una catastrofica crisi sociale - non c'è altra strada che la nazionalizzazione delle banche. Del resto, se queste non possono essere fatte fallire pena disastrose conseguenze economiche, per quale motivo il costo (pubblico) del loro salvataggio dovrebbe andare a beneficio di ricchi privati? Le banche vengano dunque salvate (evitando il bail-in e mandando a quel paese l'UE), ma nello stesso tempo nazionalizzate. Questa è la posizione che dovrebbe assumere chiunque abbia a cuore le sorti del popolo lavoratore. Altre non ne vediamo".
C'è ben poco da aggiungere a queste parole, se non che esse trovano una discreta conferma negli eventi delle ultime settimane.
Che "nazionalizzazione" non sia esattamente una parolaccia lo ha scritto ieri perfino Luigi Zingales. Ma guarda un po'! Naturalmente quella che Zingales propone per le banche italiane non è una vera e propria nazionalizzazione, ma l'uomo è intelligente e comprende benissimo quanto il confine possa essere sottile.
In concreto, Zingales propone che lo Stato (magari attraverso la Cassa Depositi e Prestiti) ricapitalizzi le banche che non sono in grado di farlo con capitali privati, imponendo alle stesse regole rigide in materia di dividendi (da cancellare per tre anni) e di management (da "rottamare" in toto). Ovviamente per l'accademico padovano, che si basa all'ingrosso sul modello adottato negli Usa, lo Stato - divenuto così proprietario delle banche ricapitalizzate - dovrebbe ritrarsi da tale ruolo (per i liberisti come lui un'autentica bestemmia) non appena possibile.
Ma a Zingales certo non sfugge che un simile zig zag potrebbe anche rivelarsi meno agevole di quel che sembra. Ecco quel che scrive a proposito: "Obiezioni verranno anche da chi teme una nazionalizzazione del sistema bancario. Il rischio è serio. Ma c'è solo una cosa peggiore di una nazionalizzazione delle banche: una socializzazione delle perdite, quando i profitti rimangono privati. E' quello che accadrebbe con la bad bank progettata dal governo".
Può sembrare strano, ma in questo modo Zingales ci dà in un certo senso ragione quando abbiamo scritto che: "Le banche vengano dunque salvate (evitando il bail-in e mandando a quel paese l'UE), ma nello stesso tempo nazionalizzate". Egli ritiene infatti che il salvataggio delle banche non possa avvenire con la semplice e troppo comoda (per lorsignori) socializzazione delle perdite. Certo, in linea con la sua visione del mondo, Zingales vorrebbe scongiurare la nazionalizzazione - che per noi è invece un passo necessario (al di là della contingenza) per sganciarsi dai meccanismi del capitalismo-casinò -, ma non la considera neppure la soluzione peggiore. E questo significa molte cose, mostrando come la crisi economica stia iniziando ormai a produrre una vera crisi teorica, sui cui esiti non ci illudiamo di certo, ma che attesta assai bene la crisi di prospettiva del capitalismo contemporaneo.
6. Infine, Draghi
Stavamo chiudendo questo articolo quando è arrivato a reti unificate il messaggio di Draghi. E le sue parole hanno enormemente rafforzato il rimbalzo borsistico già in atto. Ma cosa ha detto di così importante il capo della setta eurista? Per la verità niente di speciale. Ha promesso nuove misure a marzo, e tanto è bastato. Ha ammesso le difficoltà, affermando che: "I rischi sono nuovamente aumentati". Uno scenario che egli si propone di affrontare con un senso di onnipotenza neppure tanto vago. Secondo l'articolo di Repubblica, che potete leggere QUI: "Non ci sono limiti a quanto possiamo", avrebbe detto. Boom!
I limiti ci sono eccome, come dimostrato dalla lontananza dagli obiettivi di inflazione alla base del quantitative easing (0,2% anziché il 2% atteso) dopo un anno di acquisto di titoli al ritmo di 60 miliardi al mese. I poteri saranno anche illimitati, ma i risultati appaiono in realtà piuttosto modesti.
Le parole di Draghi, che queste cose le sa assai meglio di noi, hanno ovviamente un altro obiettivo: rassicurare, al pari di tutti i "rassicuratori", spesso assai poco rassicuranti, elencati all'inizio. La sua è la rassicurazione del pusher nei confronti del drogato: non ti farò mancare la droga (in questo caso, droga finanziaria) di cui hai bisogno. Del resto, Lui per questo è pagato. Solo che gli effetti benefici della droga (anche quella finanziaria) hanno breve durata, mentre le conseguenze sono spesso letali. Ma l'orizzonte temporale degli stregoni al capezzale di un sistema che non vuol riprendersi è assai breve. E l'obiettivo è sempre il solito: prendere tempo. Ma il tempo non è mai illimitato, ed i rumori di guerra sempre più vicini di questo vorrebbero forse avvertirci.
Fonte: Campo Antimperialista
1 commento:
Mazzei un Maestro.
Bel pezzo, l'ennesimo.
L'ultimo sulle sofferenze bancarie l'ho segnalato a Tiziana Ciprini (M5s).
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