[ 11 gennaio ]
Il mondo, com'è evidente, è pieno di complessità. Questa aumenta nelle fasi di transizione, o di passaggio da un'epoca all'altra —come quella, appunto, che l'umanità sta attraversando. Molti sono gli attori, grandi e piccoli, che si agitano sulla scena mondiale.
Comprendere la complessità, tanto più in momenti di passaggio è, per la ragione, ardua impresa, tanto più perché consolidati schemi interpretativi si dimostrano insufficienti e c'è bisogno di nuovi paradigmi.
Complessità è percepita come caos, ed il caos evoca l'ignoto. Davanti all'ignoto i "semplici" si ricorrono a spiegazioni di brutale semplificazione che sono consolatori ma nulla spiegano. E' il caso del "complottismo", delle varie teorie sulla "cospirazione".
Il mondo, com'è evidente, è pieno di complessità. Questa aumenta nelle fasi di transizione, o di passaggio da un'epoca all'altra —come quella, appunto, che l'umanità sta attraversando. Molti sono gli attori, grandi e piccoli, che si agitano sulla scena mondiale.
Comprendere la complessità, tanto più in momenti di passaggio è, per la ragione, ardua impresa, tanto più perché consolidati schemi interpretativi si dimostrano insufficienti e c'è bisogno di nuovi paradigmi.
Complessità è percepita come caos, ed il caos evoca l'ignoto. Davanti all'ignoto i "semplici" si ricorrono a spiegazioni di brutale semplificazione che sono consolatori ma nulla spiegano. E' il caso del "complottismo", delle varie teorie sulla "cospirazione".
IL CALIFFATO, OVVERO
L’ARROCCO SUNNITA IN SIRAQ
di Giovanni
Parigi
Lo Stato Islamico
affonda le radici nell’insorgenza antiamericana conseguente alla liquidazione
del regime baatista. Le scelte di Mālikī, che hanno favorito gli sciiti a danno
dei sunniti, hanno contribuito al successo di al-Baġdādī. Il nesso con i
sunniti siriani.
«Ecco, la scintilla è stata
accesa in Iraq e, a Dio piacendo, le sue fiamme
Arderanno sinchè non
bruceranno le armate crociate a Dābiq».
Abū Mu‘ṣa al-Zārqawi,
11/9/2004
1. ‘IZZAT
IBRĀHĪM AL-DŪRĪ ERA IL RE DI FIORI nel celebre mazzo di carte dei most-wanted dagli americani. Nella foto
appariva sornione, quasi sorridente sotto i suoi celeberrimi baffoni rossi,
mentre faceva un saluto militare all’inglese.
Al-Dūrī era
certamente una figura poliedrica. Nato vicino a Tikrit, condivideva con Saddam
lo stesso ambiente tribale. Diventato generale dell’Esercito, era anche
vicepresidente del Comando del Consiglio rivoluzionario iracheno, organo
apicale del partito Ba‘ṯ. Tra i vari incarichi, dopo la prima guerra del Golfo
ebbe anche il delicato compito di guidare la Ḥamla al-Īmāniyya, ovvero la
campagna per il Ritorno alla Fede. Infatti il regime, scosso alle fondamenta da
Desert Storm e dalle seguenti rivolte sciite e curde, per rinsaldare le file
giocò la carta del patronaggio religioso sunnita, avviando una politica di
reislamizzazione della società e delle istituzioni. In altri termini, con la
campagna della Fede fu concessa maggior libertà religiosa ai sunniti. Nel
frattempo il regime reprimeva violentemente la popolazione sciita, colpendone
duramente anche il clero.
Caduto il
regime, al-Dūrī sfruttò contatti, armi e denaro messi da parte e trasformò la
confraternita sufi cui apparteneva in una milizia antiamericana, l’Armata degli
uomini dell’ordine Naqšbandī. Molto carismatico, al seguito della esecuzione di
Saddam, nel 2007 fu nominato leader del partito Ba‘ṯ ormai clandestino.
IZZAT IBRĀHĪM AL-DŪRĪ |
Durante gli anni
dell’embargo, al- Dūrī era stato anche al vertice dei traffici illeciti e di
contrabbando condotti dal regime, tanto da essere il mediatore di fiducia in
quelli condotti dai figli di Saddam e dal figlio del presidente siriano Ḥāfiẓ
al-Asad. In particolare, avrebbe fatto fortuna sovrintendendo al contrabbando
di petrolio tra i due paesi durante gli anni dell’embargo. Inoltre, questa
posizione gli avrebbe permesso di stringere legami non solo con le bande
criminali attive nel settore, ma anche con le tribù siriane e irachene a
cavallo tra i due paesi. Durante la sua latitanza, si rifugiò in Siria coperto
da connivenze politiche e tribali. Infatti, dopo la caduta del regime in Siria
avevano trovato rifugio migliaia di irachene compromessi col regime del ra’īs.
La frontiera tracciata cento anni fa da Sykes e Picot tra i due paesi non aveva
tagliato i profondi vincoli tribali, di religione e di cultura delle
popolazioni arabe sunnite dell’Est siriano e dell’Ovest iracheno. Dal lato
siriano le province di Ḥasaka, Dayr al-Zawr, e parte di Ḥimṣ e Raqqa, da quello
iracheno Anbār, Ninive, Ṣalāḥ al-Dīn e parte di Diyālā costituiscono un blocco
omogeneo di popolazione sunnita, di origine rurale e cultura beduina, dove si
intrecciano legami tribali, economici e storici. Le conseguenze inaspettate
dellle «primavere arabe» hanno poi cementato ulteriormente l’identità di
quest’area, definita con azzeccato neologismo Siraq: sia a Bagdad che a Damasco
il conflitto era settario e vedeva il potere centrale opprimere i sunniti.
2. Le radici
dello Stato Islamico (Is) risalgono all’arrivo in Iraq di Abū Mu‘ṣab al-Zarqāwī
e all’inizio delle operazioni terroristiche del suo gruppo Ğamā‘at al-Tawḥīd wa
’l Ğihād. Affiliatosi ad al-Qā‘ida nel 2004, rinominò il suo movimento
al-Qā‘ida in Iraq e a suon di attentati e decapitazioni cercò di scatenare la
guerra civile tra sciiti e sunniti iracheni, sinché non fu ucciso nel 2006.
L’insuccesso di al-Zarqāwī fu principalmente causato dal fatto di non essere
riuscito a ibridare la sua organizzazione con la società locale, così rimanendo
sempre un corpo estraneo. Tant’è che al momento della sua morte, complice la
brutalità degli attacchi contro la popolazione, il gruppo islamista era
isolato.
Abū Mu‘ṣab al-Zarqāwi |
È in queste
circostanze che, nel 2007, gli americani vanno alla riscossa: la New Way
Forward annunciata da Bush e guidata da Petraeus vede l’arrivo di nuove truppe
Usa, che si concentrano sul rapporto e sulla protezione della popolazione.
Questo cambio di strategia comporta che le milizie tribali che componevano
l’insorgenza sunnita cambino casacca, complice anche il soldo, o meglio, il
dollaro americano. In tal modo i gruppi armati delle province sunnite diventano
filogovernativi ed entrano nel Movimento del risveglio sunnita, la Saḥwa.
L’insorgenza è ai minimi termini. Nel frattempo, il progressivo inserimento dei
partiti sunniti nell’arco parlamentare sembra aprire la strada a una soluzione
politica della crisi. Al-Mālikī, eletto primo ministro nel 2006, con le
pressioni iraniane e le armi riesce poi a sedare le milizie del mercuriale
Muqtadā al-Ṣadr, cooptandolo nel gioco politico. A questo punto, a opporsi al
governo rimangono solo disarticolate bande di jihadisti irriducibili e
nostalgici baatisti, che in buona parte finiscono uccisi o ad affollare le carceri
irachene. Dunque, nonostante le ambigue politiche del governo, la comunità
sunnita e i suoi politici sembrano aver trovato un ruolo nello Stato e
un’alternativa alla lotta armata.
In realtà,
quando le truppe americane lasciano l’Iraq alla fine del 2011, l’equilibrio del
paese è solo apparente. Infatti al-Mālikī, liberatosi degli americani ma non
degli iraniani e delle pressioni del blocco sciita che lo sostiene, pencola tra
tentazioni autocratiche e una pericolosa politica settaria. Partiti e movimenti
sunniti sono indeboliti e soppressi, i politici sono spesso uccisi o
incarcerati, mentre le province sunnite ricevono ben pochi fondi e investimenti
dallo Stato centrale. Le province sunnite ricevono ben pochi fondi e
investimenti dallo Stato centrale. La comunità sunnita si ritrova di nuovo
emarginata, ripudiata da uno Stato che de
facto è controllato da milizie sciite e politici filo-iraniani. La Saḥwa,
simbolo dell’orgoglio sunnita, scompare: il governo di Maliki smette di pagare
le milizie tribali, senza peraltro averle mai definitivamente
istituzionalizzate o incluse nelle forze di sicurezza.
Dunque è col
prematuro ritiro americano che il vento della guerra civile ricomincia a
soffiare sulle braci irachene solo che ora il Medio Oriente è completamente
stravolto dalla «primavera araba». A soli due mesi di distanza dal ritiro da
Baghdad dell’ultimo marine, in
Tunisia, Yemen, Libia ed Egitto le rivolte portano al crollo dei regimi. È però
la guerra civile siriana a costituire il contraccolpo più forte e
destabilizzante per l’Iraq.
All’inizio, il
quadro è chiaro: «al-Ša‘b yurīd isqāṭ
al-niẓām», ovvero «il popolo
vuole la caduta del regime». Solo che poi le cose si complicano. Innanzitutto i
moderati filo-occidentali si rivelano fragili militarmente e inconsistenti
politicamente; secondariamente il regime ottiene l’appoggio iraniano e di Ḥizbullāh,
per poi oggi essere salvato per la collottola dall’intervento russo; terzo, ben
presto entrano nell’arena siriana anche i qaidisti. E sono proprio i jihadisti
a cambiare le regole del gioco. Infatti col loro intervento da rivolta popolare
la tentata rivoluzione siriana si trasforma nella ennesima guerra settaria
medioorientale. Complice di questa deriva è anche il regime stesso. Infatti,
l’azzardo - peraltro riuscito –
con cui al-Asad si è salvato è stato quello di giocare in attacco contro
l’opposizione moderata, indebolendola, e di limitarsi a giocare in difesa
contro le forze jihadiste. Scomodando Sergio Leone, potremmo dire che il
Brutto, ovvero il regime, fa fuori il Bello, ovvero l’opposizione
filo-occidentale, per costringere la comunità internazionale a dover scegliere
tra lui e il Cattivo, ovvero i jihadisti. E questa scelta, per l’Occidente, è
praticamente obbligata.
La guerra civile
siriana sin dall’inizio rappresenta un’opportunità strategica irrinunciabile
per i movimenti jihadisti, in quanto offre le condizioni per il jihād e per la nascita di un emirato:
popolazione sunnita in rivolta, territori fuori controllo, armi. Soprattutto
però c’è un nemico empio, il regime dei nuṣayrī,[1]
con i suoi alleati rāfida,[2] contro cui lanciare il jihād. Il network di al-Qā‘ida si attiva
ed è inevitabile che sia proprio dall’Iraq che arrivi il primo emiro, Abū
Muhammad al-Ğawlanī, che fonda Ğabhat al-Nuṣra. In breve, questa milizia si
impone come principale forza jihadista e comincia a inglobare numerose altre
milizie minori nonché ad attrarre i primi foreign
fighters. Nel 2013 quando i rapporti tra al-Qā‘ida e l’Is precipitano,
al-Ğawlanī si schiera con al-Ẓawāhirī e al-Nuṣra si pone in conflitto aperto
con lo Stato Islamico. Ma è ormai tardi: di lì a poco l’Is gli ruberà la scena.
E agli inizi del 2014 gli strapperà con le armi Raqqa, futura capitale del
«califfato».
Miliziani sciiti iracheni |
3. A questo
punto torniamo all’ineffabile ‘Izzat al-Dūrī e alle affollate carceri irachene.
Dopo la morte di al-Zarqāwī, il movimento jihadista iracheno – sotto pressione
e sulla difensiva – è più volte decapitato. Dopo Ayyūb al-Maṣrī e Abū ‘Umar
al-Baġdādī, entrambi uccisi, nel 2010 viene eletto Abū Bakr al-Baġdādī, ovvero
il futuro «califfo». È sunnita, è iracheno e ha un dottorato in studi islamici,
ma soprattutto è un jihadista della prima ora e per questo è stato anche in
carcere a Camp Bucca, prigioniero degli americani. Ed è proprio il carcere a
fungere da perverso moltiplicatore di forze per i jihadisti iracheni. Questi in
cella si trovano fianco a fianco con gli altri grandi protagonisti della
insorgenza, ovvero gli ex baatisti. Anche se con diverse accezioni, sono
accomunati dal medesimo nemico e dalla medesima religione, sono legati da
trasversali vincoli tribali e affratellati dalla vita di clandestinità e di
carcere. Dunque il carcere funge da catalizzatore tra le principali componenti
dell’insorgenza: nazionalisti, baatisti e islamisti.
Per quanto
ambigui e conflittuali, i primi legami tra islamisti e baatisti erano iniziati
a metà degli anni Novanta, con la campagna per il Ritorno alla Fede, guidata da
al-Dūrī. Poi, con l’attacco americano nel 2003, il regime fa appello a tutte le
sue risorse. Si intensificano i contatti tra il network delle due anime della
insorgenza irachena, ovvero la rete clandestina baatista composta soprattutto
dalle milizie dei Fidā’iyyū Ṣaddām, e gli islamisti, a cominciare dai salafiti
di Ansar al-Islam. Il tutto sotto l’egida di al-Dūrī, primula rossa della
resistenza antigovernativa. [3]
Lo scopo degli ex baatisti era di manipolare e sfruttare gli islamisti,
trasformandoli in una sorta di «cavallo di Troia» con cui far deragliare il
processo di riconciliazione nazionale avviato da Washington.
Sta di fatto
che, con la campagna per la Fede, il «contrabbandiere di Stato» aveva celebrato
il matrimonio tra le élite Ba‘ṯ e gli islamisti sunniti. I figli di questo
insano connubio nasceranno quasi un decennio dopo nelle carceri. E sono proprio
i salafiti-baatisti che oggi costituiscono la leadership dell’Is.
Dunque, ex
sostenitori di Saddam e jihadisti diventano le due facce della stessa diabolica
moneta, che però fa fatica a circolare nel paese apparentemente pacificato dal surge e dalla Ṣaḥwa. Col ritiro americano, le cose cambiano: le carceri si
svuotano, la Ṣaḥwa è smobilitata, il governo emargina i sunniti e il golem
salafita-baatista alza la testa. La dote portata dai baatisti ai movimenti
armati islamisti è infatti ricchissima, ma tre elementi sono essenziali: la
rete di connivenze maturata in più di trent’anni di dittatura, l’expertise
militare, amministrativa, finanziaria e logistica portata dagli ex quadri e
funzionari del regime, oltre all’appoggio di quei clan tribali sunniti che per
decenni erano stati reclutati in blocco nelle unità più fedeli al regime. È
proprio tra ex ufficiali della Guardia repubblicana speciale, come l’ex tenente
colonnello Abū Muslim al-Turkmānī, o alti ufficiali dell’Istiḫbārāt [4]
come Abū Ayman al-‘Irāqī o generali dell’Esercito come Abū ‘Alī al-Anbārī,
tutti radicalizzati in carcere, che lo Stato Islamico recluta i suoi leader più
abili. Per inciso, il ruolo di numero due dell’Is è stato rivestito da due ex
saddamisti come al-Turkmānī - poi ucciso – e al-Anbārī. Il ruolo dei baatisti è
però fortissimo anche tra i governatori, gli emiri e i membri della šūrā [5]
dello Stato Islamico; ad esempio, i governatori del «califfato» a Mosul e a
Tikrīt sono due ex generali di Saddam.
C’è però un
ulteriore passaggio da evidenziare. Molti degli appartenenti al deposto regime
passati allo Stato Islamico sono di tribù che gli erano tradizionalmente
fedeli, come i Ğubūrī e i Dulaymī. Inoltre, molti degli ufficiali baatisti
erano al contempo anche sceicchi di queste tribù. A questo punto, è evidente
che l’Is è «Iraqi-friendly»,
riuscendo dove al-Zarqāwī aveva fallito. Il movimento è «glocal»: attira
volontari stranieri, ma non è percepito come alieno dalla popolazione, poiché
vertici e quadri intermedi sono quasi tutti iracheni. Secondariamente, l’Is
parte sin dalla nascita con un discreto supporto popolare, quello dei clan
sunniti da cui provengono sceicchi ed ex militari legati al movimento.
La leadership
irachena e i legami con alcuni clan non spiegano come nell’estate del 2014 l’Is
travolga ogni resistenza e arrivi a controllare un territorio che si estende
quasi dalla periferia di Baghdad ad alcune zone di Aleppo, compresa Mosul, la
seconda città dell’Iraq.
Se cerchiamo
un’immagine simbolo di questo successo dobbiamo guardare a quanto avvenuto
l’anno prima: è quella delle tendopoli di protesta contro il governo comparse
nelle città sunnite. I manifestanti chiedevano due cose, ovvero la lotta alla
corruzione e un miglioramento delle condizioni dei sunniti, in termini di
servizi pubblici, rappresentanza politica e ruolo nelle Forze armate e di
sicurezza. Mālikī rispose con le armi e ci furono anche dei morti. Questa
chiusura costò cara non solo al premier, ma a tutto il paese. Mālikī aveva
tradito ogni aspettativa sunnita, scardinando il fragile equilibrio ereditato
dagli americani e portando il paese ad una crisi etnica e settaria. Se in politica
interna aveva represso ed emarginato i sunniti, a livello internazionale non
era riuscito a mantenere un equilibrio tra le pressioni iraniane e le
aspettative dei paesi arabi del Golfo, sbilanciandosi troppo verso Teheran.
Inoltre, Mālikī era arrivato a porsi in rotta di collisione con l’ayatollah
Sistani, autorevole e limpido interprete dell’animo profondo del paese, che lo
«scomunicò» con una fatwā.
In questo
contesto, fu facile per l’Is conquistare in pochi anni il favore delle
popolazioni sunnite di Iraq e Siria, e in pochi mesi quasi un terzo dell’Iraq,
dopo aver già sotto controllo quasi metà Siria. Così il Siraq sunnita e tribale
è diventato il cuore di tenebra mediorientale dove si è annidato lo Stato
Islamico. E non è affatto un caso che le zone irachene cadute in mano
all’organizzazione in larga parte coincidano, se non eccedano, quelle del
Triangolo sunnita, roccaforte di Saddam. Era poi naturale che l’Is riuscisse a
saldare questo triangolo con le contigue province sunnite siriane, dove correligionari
e abnā’ al-‛ašiīra [6]
erano in guerra con un regime empio, oppressivo e filoiraniano.
Peraltro, a
favorire lo Stato Islamico sono state anche due macrodinamiche in atto in tutto
il Medio Oriente: la crescente radicalizzazione religiosa e le polarizzazioni
politiche conseguenti al confronto strategico tra il blocco sunnita, guidato
dall’Arabia Saudita, e quello sciita, guidato dell’Iran.
In altri
termini, lo Stato Islamico ha riempito il vuoto di istituzioni statali
delegittimate se non apertamente ostili, e ha fornito ai sunniti l’unica
alternativa politica al momento esistente. Non a caso, l’Is cerca di
presentarsi come un modello di governo antitetico alla corruzione e
all’inefficienza di Baghdad e di Damasco.
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4. L’attuale
premier iracheno al-‛Ibadī ha mangiato la foglia. E ha fatto delle riforme e
della lotta alla corruzione i suoi cavalli di battaglia. Sinora ha attuato
misure più che altro simboliche, come la riduzione degli stipendi ai politici o
la riduzione dei ministeri; inoltre sono stati spiccati mandati di arresto per
corruzione contro un ministro e si parla di eliminare la Zona verde, vista come
una torre d’avorio dalla popolazione.
Il paese ha
bisogno di riforme ben più incisive – e controverse – a partire
dall’approvazione della legge sulla Guardia nazionale e dalla revisione di
quella sulla debaatificazione, più altre misure per ricomporre la frattura
settaria, riconciliarsi coi curdi e debellare l’Is.
Il problema è
che al-‛Ibadī non ha la forza politica per imporle, perché ciò significherebbe
rivedere i rapporti settari e indebolire partiti e movimenti sciiti, ovvero gli
stessi che formalmente lo appoggiano. In particolare i politici sciiti – al- Mālikī
in testa – temono che i tentativi di al-‛Ibadī di riequilibrare gli assetti del
potere portino alla liquidazione delle milizie sciite, longa manus dei vari partiti. Gli sforzi di al-‛Ibadī sono
concentrati sul rafforzamento delle Forze armate. In tale direzione trova un
forte appoggio occidentale, inviso all’Iran. In altri termini, mentre il
premier punta sull’esercito per rafforzare lo Stato e dare spazio anche ai
sunniti, partiti e movimenti filoiraniani come la Organizzazione Badr e la Ahl
al-Ḥaqq premono per dare riconoscimento istituzionale alle milizie sciite dell’Ḥašd
ša‛bī, addestrate dai pasdaran iraniani.
Lo scorso 2
novembre, accusandolo di aver travalicato i limiti costituzionali con alcune
sue iniziative, il parlamento ha revocato il mandato di al-‛Ibadī per
l’attuazione delle promesse riforme. Peraltro, il confronto tra al-‛Ibadī e i
partiti sciiti intransigenti è fortemente polarizzato soprattutto sul piano
della politica estera. I rappresentanti sciiti, infatti, dopo la recente
creazione di un centro di intelligence congiunto tra Iran, Iraq e Russia,
premono per una sempre maggiore influenza di Mosca in Iraq. In definitiva il
rischio è che al-‛Ibadī, sebbene abbia il supporto dell’ayatollah al-Sistānī,
di buona parte della popolazione e degli Stati Uniti, finisca per essere
isolato politicamente, e non riesca ad attuare alcuna riforma. E senza riforme,
ovvero senza l’alternativa di una uscita di sicurezza, i sunniti continueranno
a precipitare nel tetro tunnel dello Stato Islamico.
In conclusione,
il vero game changer nell’attuale
scenario mesopotamico sono ancora una volta le comunità sunnite, forse le
uniche ad avere la capacità per sconfiggere l’Is. Ma per questo occorre
offrirgli un incentivo politico e un aiuto militare. Dopotutto, il «califfato»
è nato in Iraq ed è in Iraq che deve morire.
* Fonte: Limes
NOTE
[1] Termine dispregiativo con cui vengono
chiamatigli alauiti.
[2] Termine dispregiativo, a valenza
religiosa, con cui vengono chiamati gli sciiti.
[3] Sfruttando la rete di resistenza
preparata da Saddam alla vigilia dell’attacco americano, ‘Izzat al-Dūrī divenne
uno dei principali pupari della insurgency;
addirittura pare abbia fornito appoggi anche a Ğabhat al-Nuṣra in Siria, mentre
la sua milizia Naqšbandī si unì allo Stato Islamico nella conquista di Tikrīt.
[4] Servizio segreto del regime di Saddam.
[5] Organo consultivo dello Stato Islamico
[6] «Figli della (stessa) tribù», termine
che indica i legami tibali.
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