[ 27 ottobre 2010 ]
Si può essere comunisti senza essere marxisti?
di Piemme
«Occorre toccare il fondo. Occorre che a forza di mangiare merda venga il vomito. Solo allora rinascerà il comunismo, non solo come senso morale, ma come dimensione esistenziale e politica.»
Ovviamente sì. Lo stesso Marx si considerava comunista anni prima che scolpisse anche solo l'abbozzo della sua costruzione teorica.
Il comunismo è vecchio quanto la storia della divisione sociale in ricchi e poveri, ha accompagnato insomma l'ingiustizia, sin dagli albori di quest'ultima. Ne ritroviamo le tracce indelebili e inconfondibili in ogni civiltà, da quella cinese a quella greca, da quella ebraica a quella incas.
Il comunismo, prima ancora che idea sociale, è un sentimento, una modalità dello spirito che cerca la sua propria pienezza nella dimensione esistenziale. Quand'è che uno riconosce a sé stesso di essere un comunista? Come se ne accorge? Quando ha letto e condiviso il Manifesto di Marx! Macché! Uno si rende conto di essere comunista quando davanti al sopruso per cui il più forte schiaccia e umilia il più debole, non si limita a difenderlo o a condividerne le pene (qui saremmo fermi alla moralità del Cristo), ma è letteralmente sopraffatto dal desiderio di porre fine a quella pena, di liberarlo dalla catene. Una moralità che rispetto a quella cristiana è quindi raddoppiata.
Una dimensione quindi, prepolitica. Una dimensione morale, assiologica e antropologica.
Lo strepitoso successo del marxismo è stato dovuto al fatto che, su questi fondamenti morali indistruttibili ci ha costruito sopra una grande narrazione ideologica, una narrazione dalla forza travolgente poiché parlava il linguaggio della modernità, si rivestiva dei panni della scienza.
Per questo dico che si illude chi ritenga il comunismo morto assieme alla pretesa scientificità della teoria marxista.
Toccato l'apogeo è infatti al tramonto anche l'altra grande narrazione, quella per cui il capitalismo sia il migliore dei mondi possibili e che assicuri un progresso ininterrotto. Che la Scienza e la Tecnica avrebbero aperto all'uomo lo stadio dell'infinito progresso e della felicità. Sono sempre più numerosi quelli che ritengono che il benessere non si calcoli in PIL e cornucopia di cose, e che i bisogni indotti dalla iper-tecnologica società capitalistica siano bisogni il più delle volte degeneri, antropologicamente corruttori, talmente invasivi da essere come un cancro in metastasi che sviluppatosi su un tessuto buono finisce per divorarlo.
Si capisce quindi come i comunisti siano sempre meno, perché vivono un habitat ostile e refrattario, perché le persone sono in larga parte malate, ammorbate dalla stupidità, dalla superficialità e dall'egoismo. Occorre toccare il fondo. Occorre che a forza di mangiare merda venga il vomito. Solo allora rinascerà il comunismo, non solo come senso morale, ma come dimensione esistenziale e politica.
2 commenti:
Condivido. però bisognerebbe chiedersi come mai, prima di Lenin (p.b.s.l.), ogni ribellione comunistica, da Spartaco ai gesuiti del Paraguay, da Gracco Babeuf a Thomas Muntzer, dalla Società di GIutizia e Concordia (Boxers) ai diggers inglesi, sia sempre (SEMPRE) fallita.
La risposta marxista è nota, e duplice. Solo il capitalismo avrebbe gettato le premesse economico-sociali- tecniche obiettive (forze produttive; ecc.) per edificare una società egualitaria non fondata sulla penuria ma sul benessere. E solo il proletariato, la nuova classe di schiavi, possiederebbe, a differenza dei suoi precursori (vedi Engels: Thomas Munzer e la guerra dei contadini; Marx:i Grundrisse; Lenin : L'Imperialismo) la capacità di fondare una società socialista.
La prima tesi è forse giusta, la seconda si è rivelata errata.
Il Partito di Lenin, appunto, e non solo quello per la verità, nel '900, hanno aperto delle brecce, più in virtù della debolezza del nemico e della forza soggettiva rivoluzionaria, che grazie alla missione ontologica della classe operaia.
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