[ 22 ottobre 2010 ]
PER LA RICONVERSIONE ECOLOGICA DELL'INDUSTRIA DELL'AUTO (e non solo)
di Guido Viale*
Condividiamo l'idea di fondo che soggiace alla visione del Viale: riconvertire l'industria sulla base di nuovi e diversi criteri strategici, entro un diverso modello sociale e di vita. Scalfari e Asor Rosa hanno contestato questa visione come "utopistica", poiché, a loro dire, ciò implica una fuoriscuita dal sistema capitalistico. Ciò che ci lascia perplessi, nella risposta del Viale, è che egli, per sfuggire all'accusa di utopismo, rimuove il discorso della rottura sistemica, ipotizzando la possibilità che la "riconversione" e un diverso modello sociale siano possibili qui e ora, non contro il Capitale, bensì al suo fianco. Ci chiediamo: è più utopistico pensare di addomesticare il capitalismo o fuoriuscirne?
La riconversione ecologica del sistema produttivo e del modello di consumo dominanti è un'utopia, come sostiene Asor Rosa sul manifesto del 14.10? Sì, è un'utopia concreta, nel senso che aveva dato a questo termine Alex Langer: un progetto radicalmente alternativo allo stato di cose esistente, ma praticabile. Lo è perché prima o poi - più prima che poi, pochi decenni o pochi anni - il pianeta Terra entrerà in uno stato di sofferenza irreversibile e continuare con l'attuale regime produttivo sarà impossibile. Per la prima volta la questione ambientale si combina in modo incontestabile con quelle dell'occupazione; e con essa del reddito, dei consumi e dell'equità sociale. La vicenda della Fiat di Pomigliano e Termini Imerese rende tutto ciò evidente.
Il prodotto auto è inquinante, sia nell'utilizzo (contribuisce ad almeno il 14% delle emissioni climalteranti), sia nella produzione (dall'estrazione, trasporto e lavorazione di materie prime e risorse energetiche alla produzione e al montaggio di componenti: un impatto almeno equivalente), sia nell'infrastrutturazione (strade, viadotti, gallerie, svincoli, parcheggi, ma soprattutto assetti urbani impraticabili senza automobile: insieme si arriva vicino al 50% delle emissioni).
Il prodotto auto è inquinante, sia nell'utilizzo (contribuisce ad almeno il 14% delle emissioni climalteranti), sia nella produzione (dall'estrazione, trasporto e lavorazione di materie prime e risorse energetiche alla produzione e al montaggio di componenti: un impatto almeno equivalente), sia nell'infrastrutturazione (strade, viadotti, gallerie, svincoli, parcheggi, ma soprattutto assetti urbani impraticabili senza automobile: insieme si arriva vicino al 50% delle emissioni).
La capacità produttiva del settore è e resterà sovradimensionata: in Occidente e in Giappone la cosa è palese; nei paesi emergenti lo diventerà presto: i loro programmi di sviluppo del comparto e di motorizzazione della popolazione sono impraticabili. Infine, in questa industria la concorrenza è spietata: impegna non solo le imprese, ma anche gli Stati e i sindacati e, attraverso questi, i lavoratori; chiamati a schierarsi come soldati in difesa della propria impresa, in una guerra contro altre imprese, altri Stati, altri lavoratori. In questa competizione i contendenti sono destinati a cadere uno a uno. Per primi i più deboli, e la Fiat tra questi: non prima però di aver svenduto - se si segue il percorso proposto, volgarmente chiamato Bau (business as usual) - diritti, livelli salariali, salute, vita e famiglia. E portando allo sfacelo quanto resta della grande industria italiana. La manifestazione del 16 ha offerto un riferimento a tutti coloro che intendono opporsi a questa prospettiva. Il problema è collegare a questo "no" un'alternativa e un percorso per realizzarla.
Nell'industria dell'auto ci sono risorse tecniche e umane per avviare gradualmente produzioni diverse: soprattutto nel settore energetico, di assoluta priorità nella riconversione: impianti di microcogenerazione diffusa, turbine eoliche, microidrauliche e marine, pompe geotermiche, pannelli fotovoltaici e impianti solari termici e termodinamici. Il mercato di questi prodotti in parte si "paga da sé", con i risparmi che permette di realizzare; in parte è incentivato, e potrebbe esserlo molto di più se si rinunciasse a interventi "a perdere", come il nucleare e altre "grandi opere". Ma a guidare un processo del genere certamente non potrebbe essere l'attuale management della Fiat, tutto proiettato nella corsa verso il baratro della competizione in un settore senza avvenire. Di fronte al ricatto «o accettate questo diktat - e tutti quelli che verranno dopo - o si chiude» l'unica risposta plausibile è contrapporre un'alternativa praticabile: se l'azienda non è più in grado di garantire diritti e occupazione ai dipendenti, passi la mano: accollandosi, almeno in parte, i costi delle conversione.
Ma non sono solo l'auto e l'industria energetica a richiedere una riconversione. Agricoltura e industria alimentare, edilizia e assetti urbani, mobilità, gestione dei rifiuti, delle acque, del territorio, scuola, ricerca e formazione sono tutti ambiti in cui un cambio di rotta è urgente, mentre le condizioni di una conversione sono già in parte presenti in competenze e impianti oggi impegnati nelle produzioni da abbandonare: basta pensare al passaggio dalle "grandi opere" di ingegneria civile alla salvaguardia del territorio e alla ristrutturazione e messa in sicurezza di impianti ed edifici. In tutti i casi citati, il principio guida della riconversione dovrà essere la "riterritorializzazione" di produzioni e mercati attraverso una loro sempre più stretta prossimità: in agricoltura, nella generazione energetica, nel recupero di scarti e rifiuti, nel riassetto degli edifici e del territorio, nella formazione permanente. Un sistema in cui a circolare per il mondo siano soprattutto informazioni, saperi e culture - i bit - e sempre meno, anche per via dei costi e degli impatti del trasporto, risorse e beni fisici: gli atomi.
È questa l'unica vera alternativa alle "guerre commerciali"; dal mero protezionismo alla rincorsa delle valute, o alla gara a chi "esporta" di più. Ed è anche la risposta alla teoria dei «vasi comunicanti» di Scalfari ricordata da Asor Rosa. È giusto che le differenze tra salari, diritti e livelli di vita dei paesi industrializzati e dei paesi emergenti si vadano attenuando, come di fatto già avviene. Ma per rendere il processo graduale e meno traumatico per tutti occorre guidare ogni territorio - che è cosa differente da "ogni Stato" - verso la sicurezza alimentare, l'autosufficienza energetica, il rispetto dell'ambiente, la promozione sociale e culturale dei propri abitanti.
Chi farà tutto ciò? La road map deve partire da una constatazione: per guidare, o anche solo concepire e progettare, un percorso del genere ci vuole una nuova classe dirigente; quella attuale, sia di parte politica che industriale, non è assolutamente all'altezza, né in grado di attrezzarsi per esserlo: è imprigionata nel dogma tatcheriano secondo cui non ci sono alternative al liberismo e al dispotismo di impresa. Nella formazione di una nuova classe dirigente molte competenze potranno essere rilevate attingendo al personale oggi al comando; ma solo se un magnete sufficientemente forte riuscirà a staccarli, a pezzi e bocconi, dalla rete di complicità - e di irresponsabilità - che attualmente li lega. Lavorare perché si crei, dentro i rapporti di produzione e gli assetti politici attuali, una nuova e diversa classe dirigente non è compito da poco né di breve durata, mentre il tempo stringe.
Ma proprio per questo bisogna cominciare subito. Aiuta, nel definire una road map, il fatto che l'ambito privilegiato della riconversione sia il territorio. Certamente il processo che non potrà avere esiti positivi se non a livelli superiori: nazionali, continentali e planetari. Ma è sui territori, a partire dalle loro specificità sia geografiche e produttive che sociali, politiche e culturali, che le cose devono partire; i livelli sovraordinati potranno esserne investiti e coinvolti solo se i territori saranno in grado di esercitare su di essi pressioni adeguate. Per fortuna non siamo soli, né in Italia, né in Europa, né nel mondo. Molti altri sono al lavoro come noi, o come potremmo fare noi, e meglio di noi.
Una nuova classe dirigente ha bisogno di saperi, sia tecnici sia sociali (cioè conoscenza del proprio territorio e delle sue potenzialità); entrambi sono abbondantemente diffusi tra la popolazione tanto che comitati, associazioni, movimenti e organismi dell' "altra economia" sono cresciuti attraverso la valorizzazione delle rispettive conoscenze. Ha bisogno di una legittimazione, di finanziamenti e delle competenze presenti nelle amministrazioni locali; cose che si possono ottenere solo con una adeguata pressione dal basso. Ha bisogno di imprese e di imprenditori per mettere la loro esperienza al servizio di nuovi progetti; e questi possono in parte essere forniti - e formati - dal terzo settore; in parte dalle imprese messe alle strette dalla crisi. E ha bisogno, infine, di una sede in cui queste tre componenti possano aprire un confronto e provare a lavorare insieme alla definizione di specifici progetti di riconversione. È questa la sede privilegiata di selezione e formazione di una nuova e diversa classe dirigente. La Fiom potrebbe farsi promotrice di alcuni incontri in questo campo.
La vicenda Electrolux di Scandicci, riconvertita alla produzione di pannelli fotovoltaici grazie alla lotta dei lavoratori, all'appoggio di sindacati e Regione e all'impegno di molti Comuni toscani a installare gli impianti prodotti nei propri edifici (a costo zero grazie agli incentivi) è esemplare: di fronte alla prospettiva di un mercato di avviamento sicuro non è stato poi difficile trovare anche gli imprenditori che ne assumessero la gestione. Purtroppo i soggetti prescelti non sembrano all'altezza del compito, ma ciò denuncia soltanto la debolezza di un processo di selezione che avrebbe forse potuto essere più rigoroso se sottoposto a un controllo pubblico più trasparente. Sbagliando si impara. Un'altra esperienza - fallimentare - come quella del Forum rifiuti Campania, a cui ho partecipato direttamente, aveva dimostrato a suo tempo che di fronte a situazioni estreme la disponibilità a discutere e prospettare alternative matura anche in seno ad alcune imprese e alcune amministrazioni pubbliche. Certamente è mancato a quell'esperienza il sostegno dell'assessorato regionale, che pure l'aveva promossa e poi l'ha lasciata cadere malamente; ma non quello di molti sindaci e assessori volonterosi; ed era mancata in altri la capacità di valutare le potenzialità di una sede del genere: anche in vista di future scadenze, come quelle della Fiat di Pomigliano e del relativo indotto, che avrebbero potuto esserne coinvolte.
Nel dibattito su proprietà pubblica e privatizzazioni, Stato e mercato, si sta facendo strada una "terza via"; che non è quella di Tony Blair e Anthony Giddens, ma quella del controllo dal basso di beni e risorse da acquisire alla sfera dei beni comuni. Una sfera che non è un ambito definito una volta per tutte, bensì il risultato possibile, e sempre a rischio, di mobilitazioni, di lotte, e soprattutto di alternative progettuali. Il caso dell'Elettrolux allude alle straordinarie potenzialità che un controllo dal basso sui governi locali offre alla promozione di un mercato riterritorializzato e alla rilocalizzazione delle relative produzioni. Ma la legge che espropria definitivamente gli enti locali della possibilità di dotarsi di strumenti di intervento economico instaura un regime di predazione dove, in nome della concorrenza, l'unico soggetto a essere privato della libertà iniziativa - e della possibilità di lavorare alla riconversione produttiva del territorio - è il Municipio, l'amministrazione che potrebbe e dovrebbe rappresentare più direttamente le istanze e i bisogni dei cittadini. Il terzo passo della road map è sicuramente la lotta contro questo sopruso.
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