[ 16 ottobre 2010 ]
Il valore della manifestazione
non sta tanto nei suoi modesti obbiettivi
quanto in ciò che potrebbe mettere in movimento
«E’ ufficiale, il Partito Democratico, in quanto partito (perché, lo è?) non aderisce al corteo della FIOM. Difficile immaginare notizia più consolante. L’idea di trovarci, anche solo per poche ore, nel medesimo blocco con i sodali di Marchionne, ci procurava non poca angoscia. La non-adesione piddina è un’ulteriore conferma che andare a Roma il 16 ottobre non è solo necessario, ma un categorico dovere
Nata come mera risposta sindacal-democratica all’assedio a cui la FIOM è stata sottoposta dal più ampio fronte antioperaio mai visto, che lo abbia voluto o meno la direzione del sindacato dei metalmeccanici che l’ha indetta, la manifestazione è venuta assumendo un profilo anticapitalistico.
Ciò non grazie ai suoi contenuti dichiarati (il piagnisteo vittimistico sui diritti fa cascare le braccia) ma in virtù del movimento che è destinata a suscitare.
Essa è infatti la prima occasione fornita al mondo frantumato e polverizzato del lavoro salariato, per raccogliersi, unirsi e provare ad alzare la testa, da quando è sopraggiunta una crisi economica destinata ad incancrenirsi. La prateria è bagnata, e non sarà questa la scintilla che riuscirà ad incendiarla, ma è il primo serio tentativo, a cui senza dubbio ne seguiranno altri.
Siamo gli ultimi a farci qualche illusione sul gruppo dirigente della FIOM — a proposito di democrazia nei luoghi di lavoro: quand’è che la FIOM acconsentirà a rieleggere la RSU di Pomigliano? Rispetto all’enormità della crisi, ha infatti del penoso l’inadeguatezza della sua minimalistica piattaforma sindacale (che solo la protervia capitalistica può far sembrare radicale).
Ciò che qui va preso in considerazione è quindi il movimento di resistenza sociale e politica che questa manifestazione potrebbe contribuire a mettere in moto. La cosa va vista dai due lati: solo una sollevazione può riunificare ciò che trent’anni di reazione neoliberista ha frantumato, saldando in un nuovo tutt’uno il corpo smembrato del lavoro salariato, le molteplici figure in cui si è dissolta la classe proletaria. D’altra parte questo processo non potrà avvenire nell’angusto perimetro del sindacalismo (che in quanto tale è quasi sempre corporativo), poiché, malgrado la grande massa dei lavoratori oggi non ne sia consapevole (e anzi tema di prenderne coscienza), la crisi di sistema chiede risposte radicali, non solo in quanto alle forme di lotta ma in relazione alle misure politiche generali per uscirne.
Dal primo lato non nascondiamo il nostro ottimismo: un nuovo movimento proletario, quali che saranno le dolorose doglie è destinato a sorgere, a consolidarsi e a diventare protagonista della scena sociale. Un po’ meno lo siamo dal lato secondo, da quello della proposta politica complessiva, la quale solleva, a nostro modo di vedere, la questione della riconquista della sovranità monetaria e dell’abbandono dell’euro, dell’uscita dall’Unione Europea, dell’annullamento del debito pubblico, della nazionalizzazione del sistema bancario e delle aziende di rilevanza strategica, di un piano nazionale per il lavoro, di una politica che subordini le cieche e spietate leggi di mercato agli interessi della maggioranza della popolazione. Il problema, dunque, di chi debba governare questo paese che scivola lentamente ma inesorabilmente sul piano inclinato di una catastrofe sociale.
Siamo ben lungi dall’abbracciare una logica movimentistica o di ribellismo sociale, tuttavia è chiaro che solo una tenace Resistenza e una nuova generalizzata rivolta sociale potranno creare l’habitat nel quale possa prendere piede un nuovo blocco sociale anticapitalistico che non sia un’accozzaglia sgangherata, ma un fronte deciso a sfidare la classe dominante di speculatori e predatori capitalisti, i grandi monopoli e le grandi banche che muovono i politicanti come fantocci.
Quanto tempo ci vorrà? Poco o tanto non lo sappiamo. Indichiamo una tendenza. Intanto si prenda atto che il sommovimento non è in corso solo in Italia. Il grande successo dello sciopero generale del 12 ottobre in Francia, quello in Spagna di due settimane fa, la resistenza indomita dei lavoratori greci, indicano che siamo in presenza di un flusso a carattere europeo, quantomeno della parte mediterranea dell’Europa capitalistica. Si tratta di un moto che ove si consolidasse è destinato a crescere e a travolgere i fragili equilibri politici nazionali e a scardinare quest’Europa di predoni della finanza. L’Europa del futuro non passa per Strasburgo o Francoforte, ma per le strade di Parigi, Atene, Roma e Madrid».
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