[ 14 dicembre 2017]
Il saggio dello psicoanalista Massimo
Recalcati [nella foto] I tabù del mondo indaga il tabù nella psiche occidentale
contemporanea.
Oggi uscire da una lettura
stimolati, grondanti di domande e di visioni, non è esperienza comune. A
farcene dono è il saggio I tabù del mondo
(Einaudi, 2017) dello psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati. Un libro
bellissimo, che attraverso una galleria di editoriali pubblicati settimanalmente
sul quotidiano La Repubblica percorre le molteplici figure del tabù e del limite,
categorie meritevoli d’essere indagate in un occidente che crede di poterne
fare a meno. Esse sono, tra l’altro, straordinariamente utili per leggere in
profondità le dinamiche del presente. Reincontriamo così Caino, Ulisse, Antigone, Medea,
Amleto, Priapo, Don Giovanni e altre personalità mitiche o letterarie alle
prese con le loro personali epopee di scontro con la proibizione e la sua
possibile (inevitabile?) trasgressione. Riflettiamo inoltre su nuovi archetipi
come l’anoressica, il terrorista, il
turboconsumatore, non a caso definiti
da un unico tratto che finisce per coartare la loro possibilità di “divenire
umani” e li rinchiude nel limite assoluto di una rigida categoria, di una sola
dimensione dell’essere che divora ogni possibile divenire armonico della
personalità. Infine, ci confrontiamo con tabù inediti come quelli della gratitudine, del pensare, del pregare… e
li riconosciamo luoghi di un’intelligenza profonda della verità che sa fare i
conti con la sua fragilità, con la sua dipendenza dell’Altro.
Incontrare il limite, il valore, la
prescrizione, il tabù, affermatisi lungo il millenario percorso delle culture
per dirimere il dilagare incontrollato delle passioni, è per la psicoanalisi un
momento fondante dell’identità del singolo e delle culture stesse. La duplice
spinta a conformarsi o a sfidarlo è ciò che costituisce il proprium della nostra umanità (o almeno, di quella che ci ha
condotto fino a qui). Ma come afferma l’autore, il passo libertario inaugurale
dell’illuminismo, che intendeva dissolvere l’ombra repressiva dei tabù fondati
solo sulla fede sulla vita umana, forse si è rovesciato nel suo contrario. La liberazione da ogni forma di tabù sembra
istituire un inedito tabù che non può essere violato: quello della vita che
basta a se stessa, della vita che rifiuta ogni tabù e con esso ogni esperienza
del limite, della vita senza tabù. (…) Siamo
qui di fronte a un tratto fondamentale dell’angoscia ipermoderna che
l’esperienza epidemica del panico esprime benissimo: assenza di punti di
riferimento, caduta degli argini, vertigine, spalancamento di un vuoto senza
nome.
Recalcati si chiede, in maniera ironica
ma seriamente provocatoria, se non dovremmo per caso rivalutare il tabù, dal
momento che in esso si conserva qualcosa dell’esperienza dell’inviolabile: di
una dimensione, cioè, valoriale che riesce a qualificarsi come “non
negoziabile” poiché conserva qualcosa di un’antica magia. E ci ricorda, comeabbiamo già riportato in precedenza, che occorre provare a distinguere due versioni del tabù: da una
parte la sua forma semplicemente ideologico-superstiziosa che lo qualifica come
luogo di restringimento e oppressione della vita. Dall’altra, quella che lo descrive come segno che la vita non ci
appartiene del tutto, ma è qualcosa che
porta con sé la cifra – trascendente e impossibile da svelare - del mistero.
Muovendosi con invidiabile libertà
dentro e fuori dalle categorie della psicoanalisi lacaniana, Recalcati
c’insegna a non dar per scontata alcuna comoda sclerotizzazione del pensiero: i
“si dice”, i “si fa” che invisibilmente pilotano quelle che crediamo siano le
nostre scelte vengono fatti allegramente a pezzettini. L’idea attuale d’indecenza della famiglia naturale ne è
un esempio. Famiglia è ancora una parola decente che può essere pronunciata
senza provocare irritazione, fanatismi o allergie ideologiche? E’ ancora, cioè,
la matrice indispensabile della costruzione consapevole dell’umanità dei
singoli oppure è un tabù da sfatare? Recalcati ha il coraggio di dichiarare che
la vita umana non si accontenta di vivere biologicamente, ma esige di essere
umanamente riconosciuta come dotata di senso e di valore. Come mostra un
vecchio studio di René Spitz sui bambini inglesi orfani di guerra che dovettero
subire l’ospedalizzazione, la solerzia delle cure somministrate dalle
infermiere del reparto, votate a colmare i bisogni primari fisici dei bambini,
non fu sufficiente a salvarli. Depressione, anoressia, abulia, autismo,
marasma, decessi divennero i segnali evidenti del fatto che l’amore sarebbe
stato altrettanto necessario del cibo e delle cure. Dovremmo dunque ricordare
che la vita del bambino dev’essere raccolta e riconosciuta dal desiderio
dell’Altro, altrimenti resta
mutilata, votata all’insignificanza. La funzione insostituibile della famiglia
resta dunque quella di accogliere la vita
che viene alla luce del mondo, offrirle una cura capace di riconoscere la
particolarità del figlio, rispondere alla domanda angosciata del bambino
donando la propria presenza.
Rimanendo nell’area del privato,
primo elemento della società, stupisce l’originalità della visione di Recalcati
relativa al tabù della fedeltà, in tempi
che inneggiano al poliamore. Per lo
psicoanalista la diffusa incapacità di essere fedeli non solo in amore, ma in
generale a un qualunque patto di solidarietà, è oggi il frutto di un’incapacità
di accettare un limite al proprio desiderio, dunque di una soggezione quasi
assoluta allo strapotere dei propri impulsi, dei propri desideri. In questo
modo è impossibile anche solo immaginare, per gli innamorati, quella sconfitta
del tempo, delle sue proprietà corruttrici, che viene dallo scommettere
sull’eternità del loro desiderio l’uno per l’altra. La fedeltà, oggi, non è più
vista come poesia ed ebbrezza, (…) come ripetizione dello Stesso che rende
tutto Nuovo. Il nostro tempo non sa né pensare, né vivere l’erotica del legame
perché contrappone perversamente l’erotica al legame. Un po’ in tutto il
testo Recalcati ci ricorda quanto il vincolo del legame costituisca paradossalmente
una fonte di libertà verso dimensioni più piene dell’essere, della gioia, della
vita.
Tra gli espedienti del testo,
miracolosamente capace di far quasi sentire sulla pelle la coerente visione del
mondo che esprime, spicca la narrazione di storie. Leggendole, scopriamo come la storia sia tra le più raffinate forme
di comunicazione, sintetiche e sincretiche,
in grado di parlare contemporaneamente a diversi aspetti di noi. Il materiale
delle storie non è la teoria, la metafora, l’immagine, la lingua. Il materiale
delle storie siamo noi che leggiamo, con la nostra innata capacità d’identificazione
nei personaggi e con l’immersione quasi sensoriale che riusciamo a compiere nel
mondo rappresentato dall’autore. Grazie al meccanismo dello spostamento per primo identificato da
Freud, riusciamo cioè a pensarci meglio quando indossiamo metaforicamente i panni
degli altri, rispetto a quando tentiamo uno sguardo privo di mediazioni sugli
abissi della nostra coscienza. Sull’indagine che possiamo dedicare a noi stessi
vige spesso una censura. Come insegna l’impiego delle parabole da parte di
Gesù, nulla è più efficace di una storia per far vivere la verità teorica in
prima persona all’interlocutore, per fargliela scoprire autonomamente. E anche quando
ci illudiamo di sapere quanto occorre, le storie potenti ci costringono a
produrre nuovo pensiero.
Ne I Tabù del mondo torniamo ad apprendere la vita dal mito, filosofia
incarnata. Non solo: l’autore ci insegna a sostarci dentro, ci dà la chiave
teorica per un’autonoma elaborazione. Si tratta di un’operazione importante, dal
momento che ciò che oggi manca di più è la capacità di valorizzare le sin
troppo numerose esperienze che facciamo. Il regime dei consumi ci ha abituati a
riempirci di attività frenetiche, ma abbiamo perso per strada il piacere di pensarci
su, di elaborarle rendendole davvero oggetti
della nostra mente. Quante sono le volte in cui ricordiamo il fatto
essenziale che nostra vita ha soltanto il
senso che riusciamo a conferirle con il nostro pensiero? E il senso, la verità cui perveniamo non può che essere il frutto di un lavorìo,
di una fatica, di una sosta volta a elaborare i contenuti dell’esperienza, a
trasformarli nelle nostre parole.
Tra i meriti di questo libro va
annoverato il suo essere un fenomenale provocatore
di pensieri. Direi quasi che, pur appagando con teorie ben articolate il
lettore, ciò che è di maggiore interesse è la sua parte insàtura: ciò che l’autore
non dice e che si aspetta troviamo, concentrandoci o confrontandoci con
l’eterogeneo materiale del testo.
2 commenti:
Grazie Alessia
resto ammirato dalle cose che scrivi e dal modo in cui le scrivi. Un motivo in piu' per acquistare il libro di Recalcati. Spero non mancheranno mai altri tuoi brillanti interventi come questo nel Blog di Sollevazione.
Mauro P.
Sempre stimolanti gli articoli di Alessia, il precedente mi ha fatto scrivere un commento più lungo di ciò che commentava, se riesco a sintetizzarlo lo invierò.
Il metodo (nicciano) che organizza la mia osservazione e punto di vista è mettere in prospettiva i valori impliciti nel limite, morale o di altra natura, fosse anche il limite di velocità.
Se esiste un limite che rende grande qualcuno che lo osserva lo stesso limite deve rendere piccolo qualcun altro che lo sorpassa.
Ma deve esistere anche un limite che rende piccolo chi lo osserva e grande chi lo trasgredisce (virtuoso-onesto-integro vs libertino-decadente-postmoderno; conformista-reazionario vs ribelle-rivoluzionario).
Trascurando per il momento che i valori impliciti in "grande" e "piccolo" andrebbero anch'essi messi in relazione tra loro, individuando o stabilendo un criterio qualitativo o quantitativo.
Nel caso di un limite dettato da un'autorità dispotica o non eletta democraticamente (Troika, Nato, Vaticano, Il Cazzaro, Giggino) per me è giusto, cioè fa bene alla mia crescita, metterne in discussione la legittimità, o addirittura non rispettarlo.
Se invece è un limite dettato dall'interesse comune e trascritto da un'autorità legittimata dalla sovranità popolare allora è giusto prevedere una sanzione per il non rispetto di esso.
Osservato il metodo democratico a fini rappresentativi e il limite della sovranità nazionale solo dopo si possono affrontare i temi etici, dove le le istituzioni religiose o autorità morali, ontologicamente non democratiche, possono sì contribuire al dibattito, dal di fuori delle sedi istituzionali, tv pubblica inclusa, ma senza monopolizzarlo a fini strumentali e/o per conto delle Istituzioni Pubbliche o di una parte di esse.francesco
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