[ 2 dicembre 2017 ]
«De Magistris contesta il Fiscal compact tuttavia rifiuta il “sovranismo di sinistra” e ritiene si debba restare nella Ue per riformarla dall’interno — un’illusione drammaticamente liquidata dal disastro di Syriza»
E' appena uscito il libro “Demacrazia”, edito da Fandango, che ripercorre la storia del sindaco: dalle sue inchieste da pm al suo progetto politico nazionale. Sì, perché il Masaniello d'Italia pensa già al dopo Napoli ipotizzando una nuova forza anti Sistema ed alternativa sia a Renzi che al M5S e all'attuale sinistra di D'Alema e Grasso: “Il popolo è il mio partito”. Ma la proposta sarà traducibile al di fuori del contesto napoletano: quali sono le chance reali di raccogliere consenso nel resto del Paese?
Quando venne trasferito in Calabria, nel 1995, il pm Luigi de Magistris difficilmente avrebbe potuto immaginare che stava compiendo il primo passo di un percorso che lo ha convertito nel leader di una sorta di “zapatismo in salsa partenopea”. A usare tale definizione, e a raccontare le tappe fondamentali di questa mutazione, è Giacomo Russo Spena, autore di un libro nato da una serie di dialoghi con il carismatico sindaco di Napoli (Demacrazia, 177pp, Fandango editore).
La metamorfosi inizia quando de Magistris, “colpevole” di avere avviato un procedimento sull’uso illecito di fondi europei che coinvolge esponenti di spicco della nomenclatura, come l’allora Guardasigilli Clemente Mastella, si vede trasformare da accusatore in accusato, al punto che il CSM, nel gennaio del 2008, lo allontana da Catanzaro, sede di quella scomoda inchiesta. Disgustato, de Magistris prima si dimette da magistrato per iniziare la carriera politica, poi abbandona anche il Parlamento europeo – dove era stato eletto nelle liste dell’IDV – per candidarsi a sindaco di Napoli (2011).
Pur avendo potuto approfittare della crisi di consenso che penalizza i partiti tradizionali (PD in testa), la sua vittoria appare sorprendente, visto che le sole forze politiche che ne appoggiano ufficialmente la candidatura sono IDV, Rifondazione Comunista e i centri sociali. Ma la sua vittoria è frutto soprattutto della capacità di mobilitare il voto trasversale (soprattutto giovanile) dei napoletani delusi dalla politica, e il modo in cui ci riesce ne mette da subito in luce lo stile populista: batte le periferie girando in scooter e improvvisando comizi volanti che conclude cantando Bella ciao; impersona il ruolo dell’outsider solo contro tutti; fa discorsi di sinistra ma fuori dai canoni ideologici e linguistici delle sinistre tradizionali, raccogliendo consenso in tutti gli strati sociali.
Segue la breve stagione che lo vede schierato con altri primi cittadini atipici nel cosiddetto “partito dei sindaci”, dal quale prende però ben presto le distanze perché la sua opposizione nei confronti delle politiche renziane ha un piglio decisamente più antagonista. Ma non rompe solo con loro: si allontana anche da Grillo e Di Pietro, che agli inizi della sua avventura politica lo avevano sostenuto. Sempre più isolato, sospeso da sindaco dopo la condanna per abuso d’ufficio nel 2014, sembrerebbe destinato a uscire di scena. Invece tiene duro, fa “il sindaco di strada” conservando il sostegno dei cittadini napoletani, i quali, dopo la sua assoluzione nel processo di appello, gli affidano un secondo mandato con percentuali bulgare. Infine, dopo l’impegno nella campagna referendaria del 2016 contro le riforme costituzionali volute da Renzi, inizia la fase attuale, che coincide con la costruzione di DemA (che sta per Democrazia e Autonomia, oltre a evocare il nome del leader), formazione politica con cui si candida apertamente a conquistare il governo del Paese.
De Magistris può essere realmente definito populista? L’interrogativo è lecito, considerato l’uso improprio che i media fanno del termine — divenuto ormai un concetto passepartout che serve solo a “bollare”, senza distinzioni ideologiche, tutti i movimenti che si oppongono alle politiche neoliberiste. Ebbene, dobbiamo riconoscere, raccogliendo gli spunti di analisi che emergono dal libro di Giacomo Russo Spena, che il sindaco di Napoli rappresenta effettivamente un modello quasi archetipico di politico populista.
Vediamo gli elementi che giustificano tale affermazione: 1) la centralità attribuita alla questione morale: con le quattro parole d’ordine onestà, autonomia, coraggio e passione civica viene evocato un sentimento condiviso da una maggioranza sempre più ampia di cittadini, vale a dire il rifiuto dei vecchi partiti politici, identificati con una casta corrotta e inaffidabile; 2) l’interclassismo: pur schierandosi dalla parte del popolo, dei poveri e degli esclusi, de Magistris rivendica la capacità di ottenere il consenso di tutti gli strati sociali, dai centri sociali alla borghesia illuminata; 3) la demagogia iperdemocraticista, come certificano affermazioni come “il partito è il popolo”, “fare di Napoli una città stato autogestita dal popolo”, “la fase più avanzata della democrazia è l’anarchia”; 4) l’adozione di obiettivi politici di sinistra evitando tuttavia rigorosamente di autodefinirsi come sinistra; 5) la personalizzazione della politica: dalla scelta di DemA come sigla di partito, alla cura con cui gestisce personalmente i suoi profili social.
Non meno significative le critiche rivolte sia agli ex alleati del M5S, accusati di istituzionalizzazione e imborghesimento (Di Maio che va alla riunione degli industriali a Cernobbio, il legalismo formale, la retorica sulla democrazia diretta dietro cui si nasconde la realtà del “partito azienda” gestito da Casaleggio e Associati; la svolta destrorsa sul tema dell’immigrazione); sia a MDP, espressione di una sinistra “politicista” che non affonda radici nel popolo. Senza dimenticare le tensioni con l’ex amico e collega Ingroia, responsabile della deludente esperienza di Cambiare si può.
L’interrogativo di fondo, tuttavia, è se il progetto di de Magistris/Masaniello sia traducibile al di fuori del contesto napoletano: quali sono le chance reali di raccogliere consenso nel resto del Paese? La decisione di non presentarsi alle prossime elezioni politiche (senza concedere il proprio endorsement ad altri partiti o movimenti), rinviando l’esordio di DemA alle europee del 2019, testimonia della consapevolezza in merito alla difficoltà dell’impresa. De Magistris sa che una fetta importante del suo potenziale elettorato oggi guarda al M5S ma, convinto che questa formazione sia destinata a subire in tempi brevi gli effetti delle proprie contraddizioni, si siede sulla riva del fiume ad aspettare che passi il cadavere del suo competitor e, nel frattempo, affila le armi per un esordio in grande stile (dice di non essere interessato alla costruzione di un’ennesima forza minoritaria).
A mio parere, tuttavia, le vere difficoltà di questo progetto stanno altrove: sono, cioè, quelle tipiche delle “rivoluzioni” populiste che aspirano a conciliare l’attacco al sistema con la pretesa di governarlo. Per esempio: de Magistris ritiene legittimi gli atti di chi si riappropria di spazi pubblici e beni comuni sottratti alla sovranità e al godimento popolari — atti che, pur se in conflitto con la legalità formale, considera legittimati dal fatto che obbediscono a principi costituzionali (Giacomo Russo Spena parla di “sovversivismo istituzionale” e “disobbedienza costituzionale”). Ma come si concilia tale atteggiamento con la pretesa di garantire il “buon governo” del sistema esistente (senza distruggerlo!).
Ancora: il programma politico di DemA, prevede, fra le altre cose, l’abolizione del Fiscal Compact e delle politiche europee di austerità, investimenti pubblici che garantiscano la piena occupazione e la messa in sicurezza dei territori, lotta alla disuguaglianza, ecc. Tuttavia rifiuta il “sovranismo di sinistra” e ritiene si debba restare nella Ue per riformarla dall’interno (un’illusione drammaticamente liquidata dal disastro di Syriza).
Per farla breve: i populismi di sinistra rappresentano oggi un fondamentale momento di rottura nei confronti dell’egemonia neoliberista ma, se restano impigliati nei sogni di restaurazione socialdemocratica, senza evolvere verso posizioni coerentemente anticapitaliste, sono condannati a farsi riassorbire. De Magistris dice di voler fare una Podemos italiana, ma Podemos, nell’ultima assemblea del movimento che si è tenuta qualche mese fa a Vistalegre, ha non a caso compiuto i primi passi verso l’evoluzione appena evocata.
* Fonte: Micromega
«De Magistris contesta il Fiscal compact tuttavia rifiuta il “sovranismo di sinistra” e ritiene si debba restare nella Ue per riformarla dall’interno — un’illusione drammaticamente liquidata dal disastro di Syriza»
E' appena uscito il libro “Demacrazia”, edito da Fandango, che ripercorre la storia del sindaco: dalle sue inchieste da pm al suo progetto politico nazionale. Sì, perché il Masaniello d'Italia pensa già al dopo Napoli ipotizzando una nuova forza anti Sistema ed alternativa sia a Renzi che al M5S e all'attuale sinistra di D'Alema e Grasso: “Il popolo è il mio partito”. Ma la proposta sarà traducibile al di fuori del contesto napoletano: quali sono le chance reali di raccogliere consenso nel resto del Paese?
Quando venne trasferito in Calabria, nel 1995, il pm Luigi de Magistris difficilmente avrebbe potuto immaginare che stava compiendo il primo passo di un percorso che lo ha convertito nel leader di una sorta di “zapatismo in salsa partenopea”. A usare tale definizione, e a raccontare le tappe fondamentali di questa mutazione, è Giacomo Russo Spena, autore di un libro nato da una serie di dialoghi con il carismatico sindaco di Napoli (Demacrazia, 177pp, Fandango editore).
La metamorfosi inizia quando de Magistris, “colpevole” di avere avviato un procedimento sull’uso illecito di fondi europei che coinvolge esponenti di spicco della nomenclatura, come l’allora Guardasigilli Clemente Mastella, si vede trasformare da accusatore in accusato, al punto che il CSM, nel gennaio del 2008, lo allontana da Catanzaro, sede di quella scomoda inchiesta. Disgustato, de Magistris prima si dimette da magistrato per iniziare la carriera politica, poi abbandona anche il Parlamento europeo – dove era stato eletto nelle liste dell’IDV – per candidarsi a sindaco di Napoli (2011).
Pur avendo potuto approfittare della crisi di consenso che penalizza i partiti tradizionali (PD in testa), la sua vittoria appare sorprendente, visto che le sole forze politiche che ne appoggiano ufficialmente la candidatura sono IDV, Rifondazione Comunista e i centri sociali. Ma la sua vittoria è frutto soprattutto della capacità di mobilitare il voto trasversale (soprattutto giovanile) dei napoletani delusi dalla politica, e il modo in cui ci riesce ne mette da subito in luce lo stile populista: batte le periferie girando in scooter e improvvisando comizi volanti che conclude cantando Bella ciao; impersona il ruolo dell’outsider solo contro tutti; fa discorsi di sinistra ma fuori dai canoni ideologici e linguistici delle sinistre tradizionali, raccogliendo consenso in tutti gli strati sociali.
Segue la breve stagione che lo vede schierato con altri primi cittadini atipici nel cosiddetto “partito dei sindaci”, dal quale prende però ben presto le distanze perché la sua opposizione nei confronti delle politiche renziane ha un piglio decisamente più antagonista. Ma non rompe solo con loro: si allontana anche da Grillo e Di Pietro, che agli inizi della sua avventura politica lo avevano sostenuto. Sempre più isolato, sospeso da sindaco dopo la condanna per abuso d’ufficio nel 2014, sembrerebbe destinato a uscire di scena. Invece tiene duro, fa “il sindaco di strada” conservando il sostegno dei cittadini napoletani, i quali, dopo la sua assoluzione nel processo di appello, gli affidano un secondo mandato con percentuali bulgare. Infine, dopo l’impegno nella campagna referendaria del 2016 contro le riforme costituzionali volute da Renzi, inizia la fase attuale, che coincide con la costruzione di DemA (che sta per Democrazia e Autonomia, oltre a evocare il nome del leader), formazione politica con cui si candida apertamente a conquistare il governo del Paese.
De Magistris può essere realmente definito populista? L’interrogativo è lecito, considerato l’uso improprio che i media fanno del termine — divenuto ormai un concetto passepartout che serve solo a “bollare”, senza distinzioni ideologiche, tutti i movimenti che si oppongono alle politiche neoliberiste. Ebbene, dobbiamo riconoscere, raccogliendo gli spunti di analisi che emergono dal libro di Giacomo Russo Spena, che il sindaco di Napoli rappresenta effettivamente un modello quasi archetipico di politico populista.
Vediamo gli elementi che giustificano tale affermazione: 1) la centralità attribuita alla questione morale: con le quattro parole d’ordine onestà, autonomia, coraggio e passione civica viene evocato un sentimento condiviso da una maggioranza sempre più ampia di cittadini, vale a dire il rifiuto dei vecchi partiti politici, identificati con una casta corrotta e inaffidabile; 2) l’interclassismo: pur schierandosi dalla parte del popolo, dei poveri e degli esclusi, de Magistris rivendica la capacità di ottenere il consenso di tutti gli strati sociali, dai centri sociali alla borghesia illuminata; 3) la demagogia iperdemocraticista, come certificano affermazioni come “il partito è il popolo”, “fare di Napoli una città stato autogestita dal popolo”, “la fase più avanzata della democrazia è l’anarchia”; 4) l’adozione di obiettivi politici di sinistra evitando tuttavia rigorosamente di autodefinirsi come sinistra; 5) la personalizzazione della politica: dalla scelta di DemA come sigla di partito, alla cura con cui gestisce personalmente i suoi profili social.
Non meno significative le critiche rivolte sia agli ex alleati del M5S, accusati di istituzionalizzazione e imborghesimento (Di Maio che va alla riunione degli industriali a Cernobbio, il legalismo formale, la retorica sulla democrazia diretta dietro cui si nasconde la realtà del “partito azienda” gestito da Casaleggio e Associati; la svolta destrorsa sul tema dell’immigrazione); sia a MDP, espressione di una sinistra “politicista” che non affonda radici nel popolo. Senza dimenticare le tensioni con l’ex amico e collega Ingroia, responsabile della deludente esperienza di Cambiare si può.
L’interrogativo di fondo, tuttavia, è se il progetto di de Magistris/Masaniello sia traducibile al di fuori del contesto napoletano: quali sono le chance reali di raccogliere consenso nel resto del Paese? La decisione di non presentarsi alle prossime elezioni politiche (senza concedere il proprio endorsement ad altri partiti o movimenti), rinviando l’esordio di DemA alle europee del 2019, testimonia della consapevolezza in merito alla difficoltà dell’impresa. De Magistris sa che una fetta importante del suo potenziale elettorato oggi guarda al M5S ma, convinto che questa formazione sia destinata a subire in tempi brevi gli effetti delle proprie contraddizioni, si siede sulla riva del fiume ad aspettare che passi il cadavere del suo competitor e, nel frattempo, affila le armi per un esordio in grande stile (dice di non essere interessato alla costruzione di un’ennesima forza minoritaria).
A mio parere, tuttavia, le vere difficoltà di questo progetto stanno altrove: sono, cioè, quelle tipiche delle “rivoluzioni” populiste che aspirano a conciliare l’attacco al sistema con la pretesa di governarlo. Per esempio: de Magistris ritiene legittimi gli atti di chi si riappropria di spazi pubblici e beni comuni sottratti alla sovranità e al godimento popolari — atti che, pur se in conflitto con la legalità formale, considera legittimati dal fatto che obbediscono a principi costituzionali (Giacomo Russo Spena parla di “sovversivismo istituzionale” e “disobbedienza costituzionale”). Ma come si concilia tale atteggiamento con la pretesa di garantire il “buon governo” del sistema esistente (senza distruggerlo!).
Ancora: il programma politico di DemA, prevede, fra le altre cose, l’abolizione del Fiscal Compact e delle politiche europee di austerità, investimenti pubblici che garantiscano la piena occupazione e la messa in sicurezza dei territori, lotta alla disuguaglianza, ecc. Tuttavia rifiuta il “sovranismo di sinistra” e ritiene si debba restare nella Ue per riformarla dall’interno (un’illusione drammaticamente liquidata dal disastro di Syriza).
Per farla breve: i populismi di sinistra rappresentano oggi un fondamentale momento di rottura nei confronti dell’egemonia neoliberista ma, se restano impigliati nei sogni di restaurazione socialdemocratica, senza evolvere verso posizioni coerentemente anticapitaliste, sono condannati a farsi riassorbire. De Magistris dice di voler fare una Podemos italiana, ma Podemos, nell’ultima assemblea del movimento che si è tenuta qualche mese fa a Vistalegre, ha non a caso compiuto i primi passi verso l’evoluzione appena evocata.
* Fonte: Micromega
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