[ 5 dicembre 2017 ]
Alla ricerca di un “sacro” possibile
Il saggio “La violenza e il sacro” dell’antropologo René Girard ci accompagna in una rilettura del complesso rapporto tra il sacro e la società
Il saggio “La violenza e il sacro” dell’antropologo René Girard ci accompagna in una rilettura del complesso rapporto tra il sacro e la società
Mi accosto al
pensiero dell’antropologo-filosofo René Girard, “grande irregolare” tra i
pensatori del Novecento, attratta dalla sua interpretazione potentemente
euristica della genesi e del destino delle società, che asserisce che queste
ultime nascano e si sviluppino soltanto grazie alla presenza del sacro. Un
“sacro” che è visto dall’autore nella specifica accezione di “violenza
fondatrice” della cultura, che approfondiremo più avanti.
Vengo ancora più sollecitata
dallo scoprire, leggendo il suo “La violenza e il sacro” pubblicato nel 1972,
che secondo Girard i valori, le norme, le credenze, le gerarchie, le
differenze, insomma tutti i pensieri su cui si regge la civiltà, non potrebbero
resistere alla fatale scoperta della loro “arbitrarietà” se non grazie alla
presenza del “religioso”.
Notoriamente le regole, le leggi, i principi sono
infatti dovuti al consenso tra uomini, a un “accordo”, dunque non sono necessariamente
fondati su “verità naturali”. Sono “arbitrari”, posti dall’esterno per rendere
possibile la vita comune. Da tempo immemore dunque, un dio collocato al di
fuori della ”città” ne garantisce l’intangibilità, previene le trasgressioni e
ne comanda esemplare punizione. Ristabilisce l’ordine anche in tempo di crisi,
scongiurando la definitiva scoperta dell’aleatorietà di tutti i principi.
Senza quel dio, a
detta di Girard la società imploderebbe a causa del dilagare della violenza al
suo interno; essa non sarebbe più contenibile, poiché nell’equivalenza
conclamata delle leggi, dunque nel livellamento delle gerarchie e delle
differenze condivise, ognuno si sentirebbe legittimato a far valere i “suoi”
principi, valori, diritti, a prevalere sull’altro ristabilendo così una
differenza a suo vantaggio.
Ma il sacro, che previene la violenza attraverso l’esercizio della “sua”
violenza, pretende sin dal principio vittime sacrificali, inizialmente umane
poi animali, infine ricordate in frammenti di ritualità violenta ancora
contenuti in feste e celebrazioni rituali. Chiederebbe la vita di creature come
il pharmakos, ancora presente nella
Grecia del V secolo A.C.: uno
storpio, un anomalo, un folle, un irregolare mantenuto dalla società e
destinato a essere ucciso non appena le sorti della stessa divengano impervie.
Come il pharmakon della medicina,
egli è il veleno, dunque anche l’antidoto che, espulso fuori dalla polis, la guarirà dello stesso male che
le ha provocato.
Anche Edipo è a suo modo un pharmakos, una vittima sacrificale, un capro espiatorio sul cui sacrificio si regge la salute dell’unanimità dei cittadini. Ecco perché, dopo l’Edipo re di Sofocle in cui viene condannato, nell’Edipo a Colono di Euripide egli diventa un eroe, cioè, a sua volta, “sacro”.
Anche Edipo è a suo modo un pharmakos, una vittima sacrificale, un capro espiatorio sul cui sacrificio si regge la salute dell’unanimità dei cittadini. Ecco perché, dopo l’Edipo re di Sofocle in cui viene condannato, nell’Edipo a Colono di Euripide egli diventa un eroe, cioè, a sua volta, “sacro”.
La tesi è
d’indubbio interesse in una società occidentale in crisi, che continuiamo a
definire correttamente “postmoderna” poiché caratterizzata dal relativismo dei
valori. In essa il cammino del pensiero critico ci ha insegnato a dubitare
delle antiche certezze, a mettere in discussione i nostri principi, a
chiedercene il motivo, a liberarci dal giogo d’imposizioni insopportabili.
Abbiamo condotto lotte per i diritti civili che hanno dimostrato la faziosità
di principi quali l’ineguaglianza tra i sessi e tanti altri. Ma oggi,
all’indomani del crollo di questi valori posti dall’esterno, ciascuno di noi è
tenuto alla faticosa impresa di costruzione di un’etica e di un sistema di
principi personale, se vuol regolare la sua condotta o educare i suoi figli.
Siamo cioè posti di fronte al compito “interminabile” dell’individuazione di
una collocazione originale (identità) rispetto alla “Babele dei principi”.
L’impresa è tanto ardua che parecchi soccombono, sperimentando quella che il
ficcante titolo di un saggio di Erich Fromm denominava “Fuga dalla libertà” e
che avviene nella patologia.
Nella migliore delle ipotesi, è ancora calzante la celebre asserzione tragicomica di Woody Allen “Dio è morto, Marx pure, e io non mi sento molto bene.”
Leggendo Girard ci
chiediamo allora se ci sia un modo alternativo a quello posto dalla presenza di
un principio “altro”, esterno, “sacro” per mantenere l’ordine nelle nostre
città. E ci poniamo criticamente, sebbene affascinati dalle vertiginose
suggestioni del testo, davanti alle sue tesi estreme, secondo le quali “la
violenza e il sacro coincidono”, poiché all’origine di ogni civiltà ci sarebbe
appunto il sacrificio violento, commesso arbitrariamente dall’unanimità dei
membri della stessa. Il rituale, che sposta all’esterno e colloca sul Dio la
responsabilità della violenza originaria e la ripete (misconoscendone la reale
provenienza) in quella attuale, mantiene l’ordine perché estroflette il male
portandolo dall’interno all’esterno della città. La sua ciclica ripetizione
consentirebbe una “catarsi” e garantirebbe di nuovo l’ordine anche in quei
periodi, che Girard denomina di “crisi sacrificale”, in cui gli uomini
cominciano a dubitare della trascendenza delle leggi. Periodi troppo simili al
nostro, come asserirà l’autore chiaramente nell’opera “Portando Clausewitz
all’estremo” (2008).
La teoresi di
Girard è utile non solo in un percorso di lettura e risignificazione dei miti,
dei riti, del linguaggio, dell’arte, della tragedia, del sistema giuridico,
delle scienze, ma anche nella riflessione quotidiana sui fattori che rendono
più fragile o viceversa rafforzano il nostro vivere in comune. Se è vero che,
come postula, quando il senso del sacro viene meno si afferma una “crisi
sacrificale” nella quale l’equivalenza dei valori determina il potenziale
dilagare della violenza, allora ci interroghiamo sulla nostra capacità attuale
di mantenere sui principi, sulle leggi, sulle consuetudini che informano il
nostro stile di vita, il giusto “senso del sacro”, il giusto “rispetto”, il giusto
“senso della trascendenza”.
Un tema attuale, in tempi tanto di “società
liquide” (Zygmunt Bauman) quanto di “nichilismo” (Umberto Galimberti) quanto
ancora di “evaporazione del padre”, dunque della “legge” (Massimo Recalcati). In
particolare Recalcati, nel saggio “I tabù
del mondo” da poco pubblicato da Einaudi (2017), focalizza come nell’Italia
di oggi si sia affermata una sorta di “allergia a ogni genere di tabù”, che nel
pensiero comune viene equiparata a un sentirsi uomini davvero liberi. La
libertà dal divieto, dal limite, dunque da quel “trascendente” che si oppone
all’onnipotenza del desiderio, è oggi una sorta di “folle comandamento” dai
contorni inquietanti anche da un punto di vista psicologico. Se da una parte,
ricorda Recalcati, il tabù (che io leggo come forma religiosa del limite) è “luogo di restringimento e di oppressione
della vita”, dall’altra esso è “ammonimento
e indice simbolico — memoria della Legge della parola —, segno che la vita non
ci appartiene mai come una semplice presenza di cui siamo proprietari, ma è
qualcosa che porta con sé la cifra — trascendente e impossibile da svelare — del mistero”.
Il limite
identifica, dà senso all’individuo in seno a un insieme di persone. La crisi
degli adolescenti di oggi, che nella mente sono privi di limiti e confini (“life is now”, dice uno slogan
pubblicitario di un’azienda di telefonia), e nella pratica sono limitati,
limitatissimi nelle tangibile inaccessibilità di mezzi per un’autorealizzazione
concreta, forse è in parte anche dovuta all’incapacità dei loro genitori di
“ammantare di sacro” le parole che esprimono i loro valori. Il dilagare di
psicopatologie depressive, ansiose, attacchi di panico o di nuove forme di
dipendenza è sotto gli occhi di tutti.
Infine, la
riflessione sul “sacro” e sulla “fiducia” nei propri modelli di pensiero e
teorici è un tema importante anche per lo psicoanalista, lo psicoterapeuta, lo
psichiatra, il medico. La studiosa di psicoanalisi Sandra Buechler, nel saggio “Valori clinici” (2008), così come lo
psicoanalista Giuseppe Battaglia, pongono tra questi valori la capacità di
infondere “speranza” nei propri pazienti. La speranza fa il paio con la
fiducia, con la “fede”: come può il clinico stesso aver fede in qualcosa,
foss’anche un modello teorico, in un momento storico che ci ha insegnato a
dubitare, a relativizzare, a porre tra parentesi
ogni costrutto? E come può
dunque trasferire questa flebile fiducia anche ai pazienti? Egli può soltanto ripartire
dall’esperienza che fa di sé, nel momento in cui l’efficacia e la forza delle
sue teorie vengono validate dalla prassi. L’esperienza che egli fa di sé con i
pazienti, nell’analisi personale, in quella didattica e nella supervisione gli mostra
costantemente quanta “verità” sia contenuta nel suo agire pratico e nelle
teorie che lo informano. E’ dunque su questa verità che può basarsi per
infondere fiducia, speranza, sensazione di un significato profondo del percorso
che lui e il suo paziente assieme stanno facendo. Se c’è un errore della visione di Girard, esso è probabilmente racchiuso nella sua teoresi del desiderio: per Girard il desiderio è esclusivamente mimetico, negli uomini. Essi non hanno possibilità d’accedere a un desiderio personale, dunque è come se non avessero un Sé, un’identità possibile. Nel linguaggio psicodinamico, gli uomini dipinti da Girard sarebbero considerati affetti da fragilità di natura narcisistica, dunque per forza destinati a competere per ottenere quel senso di “essere” cui non hanno alcun accesso. Il loro unico modo d’illudersi di essere” è appropriarsi dell’”essere” dell’altro, fare un “copiaincolla” del suo desiderio in meccanismo di falsificazione che vale, prima ancora che di fronte al mondo, di fronte a se stessi.
Il mondo della rivalità, dell’invidia, della competizione, dunque della violenza reciproca dipinti da Girard sono il frutto di questo suo errore interpretativo della psicologia degli uomini.
In realtà, un
soggetto “sufficientemente sano” ha accesso a desideri suoi, a una personalità
sua, dunque non ha alcun bisogno di appropriarsi di aspetti mutuati dalle
personalità altrui. Non è un “doppio
mostruoso” del suo maestro, dell’accudente, del padre o del fratello.
Pertanto egli può serenamente non “competere”, può permettersi persino di non
“avere”, per dirla con Erich Fromm, poiché gli basta il suo “essere”.
Erich Fromm |
Dentro ognuno di
noi c’è la possibilità dell’armonia, dell’appartenenza, del rinvenimento di
emozioni positive, dell’amore per l’altro e per la vita. Anche la quotidianità
in comune è biologicamente fondata, poiché da essa il soggetto trae
rassicurazione, senso di tutela e significato di sé nello scambio con l’Altro. Ma
condurla all’insegna dell’essere
richiede sforzo, fiducia, fede, rinuncia…
Tornando a Girard, forse occorrerebbe un ribaltamento del suo senso del sacro:
occorrerebbe, cioè, poter trovare in sé un po’ della magia di un “Sacro benefico”… Giungere a sentire che la nostra vita
in comune è tutelata da valori “non negoziabili” non perché arbitrariamente
posti da qualche ente esterno, ma perché in essi sentiamo pulsare “più vita”
che in qualunque altro luogo. Trovarli, trovarsi, è un compito in cui la psicoanalisi, la psicoterapia, un cammino
spirituale, ma anche la frequentazione delle opere di grandi pensatori e
romanzieri di ogni epoca possono essere di grande aiuto. Queste ultime,
sosteneva Jerome Bruner, sono infatti in grado di allargare smisuratamente le
possibilità del pensiero, grazie anche soltanto alle nuove categorie grazie
alle quali ri-vedere il mondo di cui ci fanno impagabile, meraviglioso dono.
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