[ 2 maggio 2017 ]
Qualche mese di commissariamento sotto l’egida del ministero dello Sviluppo, l’ennesimo prestito-ponte e poi la cessione o, peggio, la liquidazione degli attivi.
Qualunque sia la strada scelta per Alitalia, nella migliore delle ipotesi si tratterà di una svendita. A carico del contribuente peraltro, dato che dopo i 2 miliardi di cui lo Stato si è fatto carico nel 2008 (per tacere dei precedenti) arrivano nuove risorse per traghettare la compagnia verso lo smembramento. E a pagare, alla fine, è sempre pantalone anche la proprietà pubblica non é più tale da quasi 10 anni.
Si potrebbe liquidare così tutta la faccenda, non fosse per un piccolo particolare: Alitalia non è una società “qualsiasi”, per cui dopo il minimo sindacale del sostegno pubblico è lecito – in caso di oggettive difficoltà nel proseguire l’attività – lasciarla al proprio destino. Non la è perché dà lavoro, fra diretto e indotto, ad oltre 20mila persone. Non la è perché le ricadute positive (le cosiddette esternalità) dell’attività di una compagnia aerea sono talmente delicate ed al contempo economicamente rilevanti da non poter considerare Alitalia in sé e per sé, ma necessitando allo scopo di una visione d’insieme.
Ragioniamoci. Parigi e Londra cosa hanno da offrire dal punto di vista turistico e culturale? Molto, è vero, ma anche mettendole insieme non faranno un quinto di ciò che può offrire Roma. Eppure, la città eterna fa rispettivamente la metà dei turisti rispetto alla City e il 40% in meno rispetto alla capitale francese, che pure sconta un calo legato al terrorismo. Solo una questione di decoro urbano ed efficienza delle infrastrutture? Anche, ma la colpa non può essere scaricata esclusivamente sulle spalle delle ultime amministrazioni, da Alemanno alla Raggi passando per la parentesi Marino. Sarebbe comodo, ma porta fuori strada. Il problema, o uno dei tanti, sta in realtà più a monte. E ha a che fare con l’inaccessibilità internazionale dell’Italia, che non ha un hub aeroportuale paragonabile a quelli di altre grandi capitali europee. Risultato? Se un turista dell’altra parte del mondo deve far scalo a Parigi o Londra per arrivare a Roma, è più che probabile che per comodità resti nelle prime due.
A questo, fra le altre cose, ha portato la dissennata gestione di Alitalia. Etihad doveva rappresentare la svolta, con centinaia di milioni pronti per investire laddove la gestione precedente non aveva osato, vale a dire nelle rotte a lungo raggio. La flotta è stata sì potenziata, ma con soli tre nuovi aerei per voli intercontinentali, che dovevano essere rimpinguati dal nuovo piano industriale. Il quale parlava di 8 velivoli aggiuntivi, numero poi diventato 14 per un “errore di battitura” (testuali parole) sulle diapositive della presentazione. L’impressione è che la cifra fosse in realtà più vicina al primo numero, dato che i miliardi messi sul piatto per a ricapitalizzazione erano due e a voler essere generosi è dura scendere sotto i 250 milioni di euro per un Airbus 330 (o superiori) o un Boeing 777. Poi non c’è da meravigliarsi se i lavoratori votano contro, dato che le prese in giro fatte di promesse mirabolanti negli ultimi anni – ultima quella dopo l’ingresso di Etihad, che parlava di ritorno all’utile nel 2017 – ormai non si contano più.
Passata dunque la sbornia da privatizzazione con un risveglio brusco e finita alle ortiche anche l’opzione capitali stranieri (che solo in quanto tali sembrano debbano possedere virtù taumaturgiche che invece quelli nazionali non hanno), cosa resta? Resta che senza un intervento diretto dello Stato non solo lasciamo a casa 20mila persone – che in tempi di disoccupazione stabilmente ben oltre il 10% è un ulteriore colpo alla nostra economia – ma cediamo in mani straniere un’altra, l’ennesima realtà industriale italiana, senza alcuna garanzia sul futuro e rinunciamo contestualmente ad un asset che definire strategico è quasi riduttivo. Poi certo, va ripensata globalmente una strategia fino ad oggi fallimentare e che anche senza sindacati, raccomandazioni e clientelismi, tagliando tutti i rami secchi e pure con il prezzo del carburante a zero mai avrebbe pagato. Ma questo, come si suol dire, è un altro discorso.
* Fonte: il primato nazionale
Qualche mese di commissariamento sotto l’egida del ministero dello Sviluppo, l’ennesimo prestito-ponte e poi la cessione o, peggio, la liquidazione degli attivi.
Qualunque sia la strada scelta per Alitalia, nella migliore delle ipotesi si tratterà di una svendita. A carico del contribuente peraltro, dato che dopo i 2 miliardi di cui lo Stato si è fatto carico nel 2008 (per tacere dei precedenti) arrivano nuove risorse per traghettare la compagnia verso lo smembramento. E a pagare, alla fine, è sempre pantalone anche la proprietà pubblica non é più tale da quasi 10 anni.
Si potrebbe liquidare così tutta la faccenda, non fosse per un piccolo particolare: Alitalia non è una società “qualsiasi”, per cui dopo il minimo sindacale del sostegno pubblico è lecito – in caso di oggettive difficoltà nel proseguire l’attività – lasciarla al proprio destino. Non la è perché dà lavoro, fra diretto e indotto, ad oltre 20mila persone. Non la è perché le ricadute positive (le cosiddette esternalità) dell’attività di una compagnia aerea sono talmente delicate ed al contempo economicamente rilevanti da non poter considerare Alitalia in sé e per sé, ma necessitando allo scopo di una visione d’insieme.
Ragioniamoci. Parigi e Londra cosa hanno da offrire dal punto di vista turistico e culturale? Molto, è vero, ma anche mettendole insieme non faranno un quinto di ciò che può offrire Roma. Eppure, la città eterna fa rispettivamente la metà dei turisti rispetto alla City e il 40% in meno rispetto alla capitale francese, che pure sconta un calo legato al terrorismo. Solo una questione di decoro urbano ed efficienza delle infrastrutture? Anche, ma la colpa non può essere scaricata esclusivamente sulle spalle delle ultime amministrazioni, da Alemanno alla Raggi passando per la parentesi Marino. Sarebbe comodo, ma porta fuori strada. Il problema, o uno dei tanti, sta in realtà più a monte. E ha a che fare con l’inaccessibilità internazionale dell’Italia, che non ha un hub aeroportuale paragonabile a quelli di altre grandi capitali europee. Risultato? Se un turista dell’altra parte del mondo deve far scalo a Parigi o Londra per arrivare a Roma, è più che probabile che per comodità resti nelle prime due.
A questo, fra le altre cose, ha portato la dissennata gestione di Alitalia. Etihad doveva rappresentare la svolta, con centinaia di milioni pronti per investire laddove la gestione precedente non aveva osato, vale a dire nelle rotte a lungo raggio. La flotta è stata sì potenziata, ma con soli tre nuovi aerei per voli intercontinentali, che dovevano essere rimpinguati dal nuovo piano industriale. Il quale parlava di 8 velivoli aggiuntivi, numero poi diventato 14 per un “errore di battitura” (testuali parole) sulle diapositive della presentazione. L’impressione è che la cifra fosse in realtà più vicina al primo numero, dato che i miliardi messi sul piatto per a ricapitalizzazione erano due e a voler essere generosi è dura scendere sotto i 250 milioni di euro per un Airbus 330 (o superiori) o un Boeing 777. Poi non c’è da meravigliarsi se i lavoratori votano contro, dato che le prese in giro fatte di promesse mirabolanti negli ultimi anni – ultima quella dopo l’ingresso di Etihad, che parlava di ritorno all’utile nel 2017 – ormai non si contano più.
Passata dunque la sbornia da privatizzazione con un risveglio brusco e finita alle ortiche anche l’opzione capitali stranieri (che solo in quanto tali sembrano debbano possedere virtù taumaturgiche che invece quelli nazionali non hanno), cosa resta? Resta che senza un intervento diretto dello Stato non solo lasciamo a casa 20mila persone – che in tempi di disoccupazione stabilmente ben oltre il 10% è un ulteriore colpo alla nostra economia – ma cediamo in mani straniere un’altra, l’ennesima realtà industriale italiana, senza alcuna garanzia sul futuro e rinunciamo contestualmente ad un asset che definire strategico è quasi riduttivo. Poi certo, va ripensata globalmente una strategia fino ad oggi fallimentare e che anche senza sindacati, raccomandazioni e clientelismi, tagliando tutti i rami secchi e pure con il prezzo del carburante a zero mai avrebbe pagato. Ma questo, come si suol dire, è un altro discorso.
* Fonte: il primato nazionale
2 commenti:
Va rivisto il concetto di profitto in una azienda.
Il trasporto aereo NON E' REDDITIZIO, ma chiedetvi come mai Germania, Franzia, Giappone e altri paesi molto importanti si tengono sul groppone una costosissima compagnia di bandiera.
Evidentemente se da una parte il profitto economico dell'azienda non è "interessante" deve necessariamente esistere un profitto di altra natura che alla comunità conviene più di quello strettamente economico.
Questo concetto va compreso, elaborato ed esteso a tutte le attività economiche oltre certe dimensioni.
Si tratta di un argomento molto importante che i sindacati dovrebbero urgentemente imparare a presentare nelle discussioni PER FAR SI' CHE ARRVINO E SI DIFFONDANO ANCHE NELL'OPINIONE PUBBLICA.
Che i sindacati si prendano la massima cura dell'opinione pubblica nei confronti del caso Altalia.
Non l'hanno mai fatto e infatti sono stati sconfitti varie volte su tutta la linea.
Una bella lettera dal sito internet del PCL. La lettera è di un lavoratore al PCL, quindi ben libera dalla linea del partito, come si nota subito.
http://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=5478
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