[ 10 maggio 2017]
Un leitmotiv ricorrente, nei peana che i media europei di regime (cioè tutti) hanno tributato alla vittoria di Macron, si riferisce alla sua età: il presidente giovane che, come il primo Obama e Renzi, promette di “rottamare” la vecchia politica e avviare radicali riforme in linea con i dettami del pensiero unico liberista, spazzando via le resistenze “corporative” dei sindacati e quel che resta del welfare, oltre a completare la trasformazione dello Stato in agente degli interessi della finanza globale.
Indubbiamente Macron è giovane, giovanissimo in quanto Presidente della Repubblica. Ma è davvero il presidente dei giovani? Sono davvero loro che ne hanno decretato la vittoria? In realtà, come ammette un articolo di Federico Fubini sul Corriere del 9 maggio, egli ha avuto la sua vera base elettorale negli ultrasettantenni, che lo hanno premiato con percentuali bulgare. Né la cosa deve stupire, ove si consideri che, dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso a oggi, la popolazione francese ha subito un rapido invecchiamento (l’età media è aumentata di cinque/sei anni), con una conseguente crescita del numero dei pensionati, categoria “europeista” per eccellenza, in quanto terrorizzata dall’idea che un’eventuale uscita dall’euro rischierebbe di falcidiarne i redditi.
E i giovani? Calcolare il loro tasso di adesione alle sirene liberiste del glaucopide Macron non è agevole in quanto, oltre ad analizzare come si sono distribuiti fra il vincitore e Marine Le Pen, occorrerebbe valutarne il contributo all’alta percentuale di astenuti e all’impressionante marea di schede bianche (12%). Ciò detto, è possibile ipotizzare che si siano divisi quasi a metà, in base a una netta discriminante di classe. Possibile che una quota così alta di giovani francesi abbia potuto riconoscersi in questo figlio delle élite, ex banchiere, beniamino di Hollande e dei media, in questo arrogante enfant gaté che esalta la meritocrazia proclamando che occorre riconoscere che ci sono quelli che hanno talento e quelli che ne sono privi, che occorre costruire “l’autorità di quelli che sanno”?
Possibile, perché come spiega in un’intervista a un sito spagnolo lo storico francese Emmanuel Todd, un’altra categoria cresciuta di numero, oltre ai vecchi, sono i cittadini con studi superiori (oggi al 25%) che, dice Todd, rappresentano una vera e propria “oligarchia di massa”, la quale si identifica, per usare le parole di Aldo Cazzullo in un articolo sul Corriere dell’8 maggio, con una Francia “giovane, digitalizzata, colta, fiera dei suoi primati”, ed è convinta che la globalizzazione sia “propizia alla terra della cultura e del lusso, delle start up e della moda, dell’industria aerospaziale e del saper vivere”.
E gli altri, quelli che hanno votato Mélenchon al primo turno e si sono astenuti o hanno votato scheda bianca al secondo, e quelli che hanno votato Marine Le Pen sia al primo che al secondo pur non essendo “fascisti” (se davvero un terzo dei francesi fossero tali, se non avessero compiuto quella scelta solo per esprimere la propria rabbia contro l’establishment liberista, ci sarebbe da rabbrividire)? Beh, è proprio quando si tratta di analizzare e descrivere questa metà che gli intellettuali – in particolare quelli di sinistra, ai quali spetterebbe più che ad altri il compito – si fanno afasici, balbettano, parlano genericamente di “esclusi”, di “perdenti della globalizzazione” (l’analisi delle classi subordinate e della loro composizione è arte che si perde nelle nebbie del tempo).
Ma soprattutto è qui che si rivela l’imbarazzo dell’intellettuale di sinistra “politicamente corretto” di fronte alla sfida populista (non solo quella di destra, ma anche le sue varianti di sinistra), ai suoi linguaggi “rozzi”, “semplificatori”, “demagogici”. Così, quando viene loro richiesto di spiegare le ragioni della vittoria della Brexit e di Trump, o dei più di dieci milioni di voti comunque raccolti dalla Le Pen, parlano di “vendetta” operaia contro un sinistra che non ha saputo rappresentarne gli interessi. È la parola che hanno usato, fra gli altri, Marco Revelli in una trasmissione televisiva condotta da Corrado Augias, e Bifo in alcuni suoi articoli. Parlare di vendetta implica un certo fastidio nei confronti di un atteggiamento considerato “reattivo”, “impolitico”, incapace di immaginare reali alternative. Eppure, senza ripartire da quel “grado zero” della rabbia polare, senza riconoscerne la forza e la potenzialità, queste sinistre “illuministe” non avranno altro futuro che continuare a celebrare la propria sostanziale – ancorché tormentata – accettazione dell’esistente.
Un leitmotiv ricorrente, nei peana che i media europei di regime (cioè tutti) hanno tributato alla vittoria di Macron, si riferisce alla sua età: il presidente giovane che, come il primo Obama e Renzi, promette di “rottamare” la vecchia politica e avviare radicali riforme in linea con i dettami del pensiero unico liberista, spazzando via le resistenze “corporative” dei sindacati e quel che resta del welfare, oltre a completare la trasformazione dello Stato in agente degli interessi della finanza globale.
Indubbiamente Macron è giovane, giovanissimo in quanto Presidente della Repubblica. Ma è davvero il presidente dei giovani? Sono davvero loro che ne hanno decretato la vittoria? In realtà, come ammette un articolo di Federico Fubini sul Corriere del 9 maggio, egli ha avuto la sua vera base elettorale negli ultrasettantenni, che lo hanno premiato con percentuali bulgare. Né la cosa deve stupire, ove si consideri che, dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso a oggi, la popolazione francese ha subito un rapido invecchiamento (l’età media è aumentata di cinque/sei anni), con una conseguente crescita del numero dei pensionati, categoria “europeista” per eccellenza, in quanto terrorizzata dall’idea che un’eventuale uscita dall’euro rischierebbe di falcidiarne i redditi.
E i giovani? Calcolare il loro tasso di adesione alle sirene liberiste del glaucopide Macron non è agevole in quanto, oltre ad analizzare come si sono distribuiti fra il vincitore e Marine Le Pen, occorrerebbe valutarne il contributo all’alta percentuale di astenuti e all’impressionante marea di schede bianche (12%). Ciò detto, è possibile ipotizzare che si siano divisi quasi a metà, in base a una netta discriminante di classe. Possibile che una quota così alta di giovani francesi abbia potuto riconoscersi in questo figlio delle élite, ex banchiere, beniamino di Hollande e dei media, in questo arrogante enfant gaté che esalta la meritocrazia proclamando che occorre riconoscere che ci sono quelli che hanno talento e quelli che ne sono privi, che occorre costruire “l’autorità di quelli che sanno”?
Possibile, perché come spiega in un’intervista a un sito spagnolo lo storico francese Emmanuel Todd, un’altra categoria cresciuta di numero, oltre ai vecchi, sono i cittadini con studi superiori (oggi al 25%) che, dice Todd, rappresentano una vera e propria “oligarchia di massa”, la quale si identifica, per usare le parole di Aldo Cazzullo in un articolo sul Corriere dell’8 maggio, con una Francia “giovane, digitalizzata, colta, fiera dei suoi primati”, ed è convinta che la globalizzazione sia “propizia alla terra della cultura e del lusso, delle start up e della moda, dell’industria aerospaziale e del saper vivere”.
E gli altri, quelli che hanno votato Mélenchon al primo turno e si sono astenuti o hanno votato scheda bianca al secondo, e quelli che hanno votato Marine Le Pen sia al primo che al secondo pur non essendo “fascisti” (se davvero un terzo dei francesi fossero tali, se non avessero compiuto quella scelta solo per esprimere la propria rabbia contro l’establishment liberista, ci sarebbe da rabbrividire)? Beh, è proprio quando si tratta di analizzare e descrivere questa metà che gli intellettuali – in particolare quelli di sinistra, ai quali spetterebbe più che ad altri il compito – si fanno afasici, balbettano, parlano genericamente di “esclusi”, di “perdenti della globalizzazione” (l’analisi delle classi subordinate e della loro composizione è arte che si perde nelle nebbie del tempo).
Ma soprattutto è qui che si rivela l’imbarazzo dell’intellettuale di sinistra “politicamente corretto” di fronte alla sfida populista (non solo quella di destra, ma anche le sue varianti di sinistra), ai suoi linguaggi “rozzi”, “semplificatori”, “demagogici”. Così, quando viene loro richiesto di spiegare le ragioni della vittoria della Brexit e di Trump, o dei più di dieci milioni di voti comunque raccolti dalla Le Pen, parlano di “vendetta” operaia contro un sinistra che non ha saputo rappresentarne gli interessi. È la parola che hanno usato, fra gli altri, Marco Revelli in una trasmissione televisiva condotta da Corrado Augias, e Bifo in alcuni suoi articoli. Parlare di vendetta implica un certo fastidio nei confronti di un atteggiamento considerato “reattivo”, “impolitico”, incapace di immaginare reali alternative. Eppure, senza ripartire da quel “grado zero” della rabbia polare, senza riconoscerne la forza e la potenzialità, queste sinistre “illuministe” non avranno altro futuro che continuare a celebrare la propria sostanziale – ancorché tormentata – accettazione dell’esistente.
* FONTE: MICROMEGA BLOG
1 commento:
Lucido e condivisibile,come sempre.
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