[ 13 maggio 2017 ]
Ferdinando Pastore fa parte della direzione di Risorgimento Socialista, come del centro dirigente della Confederazione per la Liberazione Nazionale.
POPULISMI
Cosa è emerso dai risultati dei referendum svoltisi in Europa – da quello greco, per passare alla Brexit, fino ad arrivare a quello Costituzionale in Italia? Sicuramente l’avvento di un blocco sociale, composito ed eterogeneo, che ha iniziato a dare risposte politiche, composto da tutti i soggetti che restano schiacciati dalla libera circolazione di capitali, merci e persone. Salariati e lavoratori precari del settore privato, giovani disoccupati, agricoltori, liberi professionisti senza professioni, piccoli e medi imprenditori rappresentano la nuova classe sfruttata dal capitalismo globalizzato, la quale reagisce al sistema istituzionale ordo-liberista che ha accompagnato, in modo repressivo, la de-strutturazione al tessuto sociale delle nazioni: l’Unione Europea.
Questo blocco sociale non è ancora rappresentato, in maniera coerente, da un blocco politico, ma è fluttuante e divide i suoi voti tra una destra protezionistica e una nuova sinistra – che ha le espressioni più significative in Spagna e in Francia con il successo di Jean-Luc Mélenchon – che supera, definitivamente, la terza via Blairiana alla globalizzazione e individua nella lotta di classe nazionale il problema politico centrale per i nuovi ceti sfruttati. Entrambe le scelte del basso sono denominate dal blocco dominante, che ha i suoi epigoni politici nel PSE e nel PPE e in tutte le loro emanazioni nazionali, populiste.
Non si fa riferimento ad un populismo storico, bensì si cerca di derubricare queste nuove forze politiche nel terreno dell’avventurismo, con riferimento alle esperienze populiste del Sud-America, una evidente forzatura che mistifica la realtà dei fatti. Al contrario il sistema fondato sulle strutture sovra-nazionali ha avuto il compito di annientare tutti i soggetti che componevano il quadro costituzionale dei Paesi europei così come si era sviluppato dal secondo dopoguerra: Stato, partiti politici, sindacati, soggetti economici, cittadini sono stati trasformati in amplificatori della concorrenza economica e a loro sono state sottratte le prerogative che le Costituzioni gli attribuivano e che avevano lo scopo, esplicito, di salvaguardare la coesione sociale.
Se si prende per buona la definizione che Nicola Genga dà del populismo “l’appello a un popolo mitizzato da parte di un leader e la contestazione, dal basso, degli istituti di democrazia rappresentativa nelle loro forme storicamente determinate, una visione a-classista della società, la propensione al nazionalismo” sarà chiaro che proprio le strutture sovranazionali hanno interpretato queste mutazioni dall’alto.
Difatti tutte queste caratteristiche sono perfettamente compatibili con il sistema tecnocratico, che poggia le proprie basi su una legittimazione economica e non più sulla sovranità costituzionale e popolare. In questo modo il pilota automatico, gestito dai tecnocrati, ha prodotto uno svuotamento di significato della politica che non è più il luogo della formazione della decisione, ma che si riduce a sterile competizione sottoposta alle regole del marketing politico dove si annullano le componenti ideologiche e storiche per dettare un messaggio, seppur ideologicamente prefigurato in senso liberista, apparentemente neutro che si rivolge a un pubblico perlopiù indifferente ma ancora schierato, ingenuamente, tra destra e sinistra, categorie del tutto omogenee e compatibili con il sistema neo-liberale.
Così lo Stato nazionale è stato ridotto a protettorato e a passacarte delle multinazionali, le quali hanno i propri rappresentanti burocratici dentro le istituzioni sovranazionali e il manierismo politico si rivolge, proprio, direttamente al popolo, in una dimensione nella quale scompaiono la dialettica politica e gli interessi sociali che, in questo modo, sono nascosti e non rappresentati, con il conseguente smantellamento delle strutture democratiche (Parlamenti) e dei corpi intermedi (Partiti e Sindacati).
Il tutto per presentare come necessaria, inderogabile, una società proprio a-classista, nella quale solo l’individuo, continuamente sottoposto alla carneficina della competizione e immaginato come atomo slegato dalle condizioni socio-economiche, è degno di rappresentare bisogni politicamente rilevanti. Per di più questi bisogni sono artificiosamente esaltati dalle campagne di marketing, pubblicitarie, di propaganda le quali immaginano l’essere umano come uomo/impresa e lo inducono ad aderire sentimentalmente agli schemi della flessibilità lavorativa (il lavoro duraturo e stabile è definito privilegio parassitario) e della mobilità esistenziale.
Per rendere appetibile questo costrutto ideologico si fa richiamo a un vago e anti-storico nazionalismo europeo: l’Europa viene presentata come emblema di pace e di civiltà, e idealizzata a luogo sacrale, proprio utilizzando una retorica nazionalista. Di conseguenza le forze della destra protezionistica e quelle della nuova sinistra popolare sono costrette a richiamarsi alla mobilitazione del popolo, proprio per evidenziare la crisi degli strumenti della democrazia rappresentativa che non permettono più la partecipazione delle masse alla struttura dello Stato e alla formazione della decisione politica.
Questo richiamo però è accompagnato dalla difesa delle Costituzioni nazionali o dalla immissione nel dibattito della questione costituzionale. Jean-Luc Mélenchon ha difatti proposto una nuova assemblea costituente, mentre in Italia si fa richiamo alla corretta applicazione della Costituzione del 1948 come orizzonte ideale per il recupero della sovranità.
Il problema del populismo va dunque rovesciato, dato che le élite hanno prodotto un sistema tecnocratico e populista e contemporaneamente stigmatizzano come populisti tutti quei movimenti che incentrano la propria azione sul recupero di sovranità popolare e nazionale, colpevolizzando le classi popolari, le quali iniziano a rifiutarsi di votare per il blocco politico che si autodefinisce “responsabile” e che ha gestito i processi di trasformazione della società in senso ordo-liberista attraverso il sistema delle riforme dettate dalla mano invisibile del mercato e che ha provocato squilibri sociali, disoccupazione, precarietà e diseguaglianze ormai divenute insopportabili. Così coloro i quali si dipingono come moderati si trasformano in estremisti nel monento in cui affidano esclusivamente al libero mercato e alla concorrenza la funzione di ordinare la società, con uno spirito assolutistico e totalitario.
IL RICATTO ANTIFASCISTA
L’ulteriore elemento ricattatorio nei confronti dei ceti deboli è rappresentato, oltre alla minaccia di paradossali crisi distruttive sul piano sociale nel momento in cui si procedesse a un mutamento di indirizzo politico, dall’avvento di un ipotetico ritorno al fascismo che sembra essere ormai alle porte. Il ricatto è eseguito ogni qual volta una forza della destra protezionistica ha una qualche possibilità di vincere le elezioni in un determinato Paese ed è direttamente proporzionale al richiamo contrario, quello del pericolo di un ritorno al socialismo reale o a un sistema di inefficienza e di statalismo burocratico ogni qual volta una forza della sinistra popolare aumenta i propri consensi, e quando essa denuncia l’impossibilità di difendere il lavoro e di sconfiggere le diseguaglianze sociali senza una adeguata politica dello Stato che dovrebbe tornare a dirigere i processi economici anche facendo ricorso alla spesa in deficit coperta dalla sovranità monetaria. Il ricatto del fascismo è ovviamente de-contestualizzato storicamente, dato che non esiste alcuna forza politica che si richiama al fascismo storico (i casi sono sporadici e ininfluenti) e quindi a un sistema nel quale lo Stato, attraverso l’uso della forza, silenzia il conflitto tra capitale e lavoro in una dimensione corporativa.
Al contrario le stesse destre protezionistiche si presentano come partiti anch’essi neo-liberali ma che, al contempo, limiterebbero la circolazione dei capitali per proteggere l’industria nazionale. Anche il FN appare oggi più inquadrabile in una forza realmente neo-gaullista, e si affacciò sulla scena politica francese proprio nel momento in cui, alle elezioni europee del 1984, la sinistra francese abbandonò il Programme Commun, per trasformarsi in quella sinistra mercatista e mondialista che oggi è parte integrante del blocco neo-liberale.
In questo modo il FN si iniziò ad accreditare anche tra i ceti bassi della popolazione francese, ma soprattutto iniziò a svilupparsi come partito non più legato a una piccola comunità nostalgica. Con questo non si vuole dire che il FN non avesse all’interno preoccupanti indirizzi xenofobi, ma che il ricatto fascista, dopo l’ulteriore svolta Repubblicana compiuta da Marine Le Pen e una volta che anche i guallisti si sono covertiti al culto liberista, opera come mero stratagemma, utilizzato per il mantenimento dello status quo e con cui le élite si auto-legittimano per raffigurarsi come unico campo politico degno di governare seppur in un continuo stato d’eccezione di fronte ai molteplici pericoli populisti, descritti come continui salti nel buio. L’emergenzialità è congeniale, oltretutto, alla presentazione di ulteriori riforme sempre incentrate sulla privatizzazione dello Stato e sulla mercificazione del lavoro.
In tutta Europa le politiche di austerità, le crescenti diseguaglianze hanno portato alla crescita della consapevolezza delle classi schiacciate dalla globalizzazione dei mercati e all’affermarsi di forze politiche che si pongono in contrasto radicale con l’impianto ordo-liberista di Bruxelles. In Francia, durante il primo turno delle elezioni presidenziali hanno avuto un risultato significativo sia uno schieramento, guidato da Jean-Luc Mélenchon, che si richiama alla tradizione della sinistra popolare e sia la destra protezionistica di Marine Le Pen che ha conquistato l’accesso al ballottaggio. E proprio in Francia inzia a scricchiolare l’ordine neo-liberale dato che sembra meno pressante di un tempo il richiamo al pericolo fascista, diktat oppressivo e funzionale all’elezione di Macron, perfetto rappresentante delle élite finanziarie, ma che non sembra essere, al momento, in grado di riunire graniticamente quel che resta del Fronte Repubblicano.
IL CASO ITALIANO
Se in Europa inizia a trovarsi una corrispondenza tra blocco sociale schiacciato dal neo-liberismo e blocco politico che si rivolge alle classi sfruttate dallo stesso sistema, in Italia questo stesso blocco sociale che si è palesato con il Referendum Costituzionale e che conduce battaglie nei luoghi di lavoro (si pensi alla vertenza Alitalia ma anche alla battaglia dei tassisti contro le liberalizzazioni del mercato), non ha una rappresentanza politica. Se a destra i richiami alla sovranità monetaria e politica si riducono alla riproposizione di politiche neo-liberiste che guardano solo al mondo dell’impresa con scarsa capacità di diventare egemoni, la sinistra è proprio la parte politica che si rende più disponibile ad accettare i paradigmi ordo-liberisti che sono alla base della costruzione europea.
Quando si parla di sinistra non si fa riferimento al PD, che è partito centrale dello schieramento e che rappresenta il contenitore tendente alla stabilizzazione del sistema e che è responsabile, in via diretta, dello svuotamento della nostra Costituzione e della riduzione della sfera politica a mera competizione impolitica e che, insieme al M5S, si dota di strumenti realmente populistici (per esempio le primarie, ormai competizione che segue le regole dei talent show), bensì si vuole indicare tutto il variegato mondo che avrebbe l’ardire di collocarsi a sinistra del PD.
Ebbene questo schieramento è composto, per un verso, da una scissione, che in qualsiasi paese si considererebbe di destra, dallo stesso PD, effettuata da personaggi politici come D’Alema e Bersani, da sempre in prima linea nell’assecondare tutte le direttive dettate dalla tecnocrazia finanziaria, creatori, dagli anni 90, della linea rigorista in campo economico e ispiratori dei governi tecnici che si sono resi responsabili delle maggiori politiche di macelleria sociale e di distruzione dei principi sottostanti alla nostra Carta Costituzionale.
Ancora oggi questa parte politica rivendica, con orgoglio, le politiche di mercificazione e di precarizzazione nel mondo del lavoro, la svendita degli asset pubblici, le liberalizzazioni selvagge e addirittura la nascita del governo Monti, che contribuì a chiudere in maniera definitiva il sistema istituzionale italiano con la ricezione delle raccomandazioni neo-liberiste imposte dalla BCE e con l’instaurazione di una sorta di troika fatta in casa. Dall’altro lato è composta dalla cosiddetta sinistra radicale, che di radicale non ha nulla, la quale si è concentrata nella promozione dei diritti civili elevando il soggetto a unico elemento sociale e che ha rimosso la critica sociale. In questo modo, attraverso una sorta di anarchismo/libertario, ha contribuito alla definizione ordo-liberista dell’essere umano come imprenditore di se stesso, il quale deve assecondare i propri bisogni per raggiungere una liberazione meramente personale, sganciata dalle strutture collettive e dai bisogni reali connessi alle condizioni socio-economiche.
Questi due agglomerati hanno già delineato una futura alleanza elettorale, senza però che vi sia l’intendimento di rappresentare ciò che la sinistra popolare ha avuto il coraggio di affermare in Spagna e in Francia.
Al contrario i loro esponenti di spicco si sono affrettati nel dire che questa sarà una sinistra responsabile che dovrà essere forza di equilibrio del sistema politico. L’intendimento è proprio quello di deprimere e scoraggiare la nascita di una forza popolare che sappia porsi all’opposizione dell’odierno quadro istituzionale e che possa contrastare le prossime politiche di rigore che la UE continuerà a imporre e, soprattutto, che il dissenso, venga normalizzato o al massimo che continui ad essere canalizzato nel voto al M5S, il quale trasporta il malessere sociale sui canali impolitici della casta e dell’indignazione.
In più la classe dirigente di questa sinistra, contraddistinta da falsa coscienza, è atavicamente attratta da un ministerialismo che porta alla costruzione di cartelli elettorali funzionali esclusivamente alla sopravvivenza del loro management e al mantenimento del loro capitale. Non a caso essi si amano definire Ditta.
Ferdinando Pastore fa parte della direzione di Risorgimento Socialista, come del centro dirigente della Confederazione per la Liberazione Nazionale.
POPULISMI
Cosa è emerso dai risultati dei referendum svoltisi in Europa – da quello greco, per passare alla Brexit, fino ad arrivare a quello Costituzionale in Italia? Sicuramente l’avvento di un blocco sociale, composito ed eterogeneo, che ha iniziato a dare risposte politiche, composto da tutti i soggetti che restano schiacciati dalla libera circolazione di capitali, merci e persone. Salariati e lavoratori precari del settore privato, giovani disoccupati, agricoltori, liberi professionisti senza professioni, piccoli e medi imprenditori rappresentano la nuova classe sfruttata dal capitalismo globalizzato, la quale reagisce al sistema istituzionale ordo-liberista che ha accompagnato, in modo repressivo, la de-strutturazione al tessuto sociale delle nazioni: l’Unione Europea.
Questo blocco sociale non è ancora rappresentato, in maniera coerente, da un blocco politico, ma è fluttuante e divide i suoi voti tra una destra protezionistica e una nuova sinistra – che ha le espressioni più significative in Spagna e in Francia con il successo di Jean-Luc Mélenchon – che supera, definitivamente, la terza via Blairiana alla globalizzazione e individua nella lotta di classe nazionale il problema politico centrale per i nuovi ceti sfruttati. Entrambe le scelte del basso sono denominate dal blocco dominante, che ha i suoi epigoni politici nel PSE e nel PPE e in tutte le loro emanazioni nazionali, populiste.
Non si fa riferimento ad un populismo storico, bensì si cerca di derubricare queste nuove forze politiche nel terreno dell’avventurismo, con riferimento alle esperienze populiste del Sud-America, una evidente forzatura che mistifica la realtà dei fatti. Al contrario il sistema fondato sulle strutture sovra-nazionali ha avuto il compito di annientare tutti i soggetti che componevano il quadro costituzionale dei Paesi europei così come si era sviluppato dal secondo dopoguerra: Stato, partiti politici, sindacati, soggetti economici, cittadini sono stati trasformati in amplificatori della concorrenza economica e a loro sono state sottratte le prerogative che le Costituzioni gli attribuivano e che avevano lo scopo, esplicito, di salvaguardare la coesione sociale.
Se si prende per buona la definizione che Nicola Genga dà del populismo “l’appello a un popolo mitizzato da parte di un leader e la contestazione, dal basso, degli istituti di democrazia rappresentativa nelle loro forme storicamente determinate, una visione a-classista della società, la propensione al nazionalismo” sarà chiaro che proprio le strutture sovranazionali hanno interpretato queste mutazioni dall’alto.
Difatti tutte queste caratteristiche sono perfettamente compatibili con il sistema tecnocratico, che poggia le proprie basi su una legittimazione economica e non più sulla sovranità costituzionale e popolare. In questo modo il pilota automatico, gestito dai tecnocrati, ha prodotto uno svuotamento di significato della politica che non è più il luogo della formazione della decisione, ma che si riduce a sterile competizione sottoposta alle regole del marketing politico dove si annullano le componenti ideologiche e storiche per dettare un messaggio, seppur ideologicamente prefigurato in senso liberista, apparentemente neutro che si rivolge a un pubblico perlopiù indifferente ma ancora schierato, ingenuamente, tra destra e sinistra, categorie del tutto omogenee e compatibili con il sistema neo-liberale.
Così lo Stato nazionale è stato ridotto a protettorato e a passacarte delle multinazionali, le quali hanno i propri rappresentanti burocratici dentro le istituzioni sovranazionali e il manierismo politico si rivolge, proprio, direttamente al popolo, in una dimensione nella quale scompaiono la dialettica politica e gli interessi sociali che, in questo modo, sono nascosti e non rappresentati, con il conseguente smantellamento delle strutture democratiche (Parlamenti) e dei corpi intermedi (Partiti e Sindacati).
Il tutto per presentare come necessaria, inderogabile, una società proprio a-classista, nella quale solo l’individuo, continuamente sottoposto alla carneficina della competizione e immaginato come atomo slegato dalle condizioni socio-economiche, è degno di rappresentare bisogni politicamente rilevanti. Per di più questi bisogni sono artificiosamente esaltati dalle campagne di marketing, pubblicitarie, di propaganda le quali immaginano l’essere umano come uomo/impresa e lo inducono ad aderire sentimentalmente agli schemi della flessibilità lavorativa (il lavoro duraturo e stabile è definito privilegio parassitario) e della mobilità esistenziale.
Per rendere appetibile questo costrutto ideologico si fa richiamo a un vago e anti-storico nazionalismo europeo: l’Europa viene presentata come emblema di pace e di civiltà, e idealizzata a luogo sacrale, proprio utilizzando una retorica nazionalista. Di conseguenza le forze della destra protezionistica e quelle della nuova sinistra popolare sono costrette a richiamarsi alla mobilitazione del popolo, proprio per evidenziare la crisi degli strumenti della democrazia rappresentativa che non permettono più la partecipazione delle masse alla struttura dello Stato e alla formazione della decisione politica.
Questo richiamo però è accompagnato dalla difesa delle Costituzioni nazionali o dalla immissione nel dibattito della questione costituzionale. Jean-Luc Mélenchon ha difatti proposto una nuova assemblea costituente, mentre in Italia si fa richiamo alla corretta applicazione della Costituzione del 1948 come orizzonte ideale per il recupero della sovranità.
Il problema del populismo va dunque rovesciato, dato che le élite hanno prodotto un sistema tecnocratico e populista e contemporaneamente stigmatizzano come populisti tutti quei movimenti che incentrano la propria azione sul recupero di sovranità popolare e nazionale, colpevolizzando le classi popolari, le quali iniziano a rifiutarsi di votare per il blocco politico che si autodefinisce “responsabile” e che ha gestito i processi di trasformazione della società in senso ordo-liberista attraverso il sistema delle riforme dettate dalla mano invisibile del mercato e che ha provocato squilibri sociali, disoccupazione, precarietà e diseguaglianze ormai divenute insopportabili. Così coloro i quali si dipingono come moderati si trasformano in estremisti nel monento in cui affidano esclusivamente al libero mercato e alla concorrenza la funzione di ordinare la società, con uno spirito assolutistico e totalitario.
IL RICATTO ANTIFASCISTA
L’ulteriore elemento ricattatorio nei confronti dei ceti deboli è rappresentato, oltre alla minaccia di paradossali crisi distruttive sul piano sociale nel momento in cui si procedesse a un mutamento di indirizzo politico, dall’avvento di un ipotetico ritorno al fascismo che sembra essere ormai alle porte. Il ricatto è eseguito ogni qual volta una forza della destra protezionistica ha una qualche possibilità di vincere le elezioni in un determinato Paese ed è direttamente proporzionale al richiamo contrario, quello del pericolo di un ritorno al socialismo reale o a un sistema di inefficienza e di statalismo burocratico ogni qual volta una forza della sinistra popolare aumenta i propri consensi, e quando essa denuncia l’impossibilità di difendere il lavoro e di sconfiggere le diseguaglianze sociali senza una adeguata politica dello Stato che dovrebbe tornare a dirigere i processi economici anche facendo ricorso alla spesa in deficit coperta dalla sovranità monetaria. Il ricatto del fascismo è ovviamente de-contestualizzato storicamente, dato che non esiste alcuna forza politica che si richiama al fascismo storico (i casi sono sporadici e ininfluenti) e quindi a un sistema nel quale lo Stato, attraverso l’uso della forza, silenzia il conflitto tra capitale e lavoro in una dimensione corporativa.
Al contrario le stesse destre protezionistiche si presentano come partiti anch’essi neo-liberali ma che, al contempo, limiterebbero la circolazione dei capitali per proteggere l’industria nazionale. Anche il FN appare oggi più inquadrabile in una forza realmente neo-gaullista, e si affacciò sulla scena politica francese proprio nel momento in cui, alle elezioni europee del 1984, la sinistra francese abbandonò il Programme Commun, per trasformarsi in quella sinistra mercatista e mondialista che oggi è parte integrante del blocco neo-liberale.
In questo modo il FN si iniziò ad accreditare anche tra i ceti bassi della popolazione francese, ma soprattutto iniziò a svilupparsi come partito non più legato a una piccola comunità nostalgica. Con questo non si vuole dire che il FN non avesse all’interno preoccupanti indirizzi xenofobi, ma che il ricatto fascista, dopo l’ulteriore svolta Repubblicana compiuta da Marine Le Pen e una volta che anche i guallisti si sono covertiti al culto liberista, opera come mero stratagemma, utilizzato per il mantenimento dello status quo e con cui le élite si auto-legittimano per raffigurarsi come unico campo politico degno di governare seppur in un continuo stato d’eccezione di fronte ai molteplici pericoli populisti, descritti come continui salti nel buio. L’emergenzialità è congeniale, oltretutto, alla presentazione di ulteriori riforme sempre incentrate sulla privatizzazione dello Stato e sulla mercificazione del lavoro.
In tutta Europa le politiche di austerità, le crescenti diseguaglianze hanno portato alla crescita della consapevolezza delle classi schiacciate dalla globalizzazione dei mercati e all’affermarsi di forze politiche che si pongono in contrasto radicale con l’impianto ordo-liberista di Bruxelles. In Francia, durante il primo turno delle elezioni presidenziali hanno avuto un risultato significativo sia uno schieramento, guidato da Jean-Luc Mélenchon, che si richiama alla tradizione della sinistra popolare e sia la destra protezionistica di Marine Le Pen che ha conquistato l’accesso al ballottaggio. E proprio in Francia inzia a scricchiolare l’ordine neo-liberale dato che sembra meno pressante di un tempo il richiamo al pericolo fascista, diktat oppressivo e funzionale all’elezione di Macron, perfetto rappresentante delle élite finanziarie, ma che non sembra essere, al momento, in grado di riunire graniticamente quel che resta del Fronte Repubblicano.
IL CASO ITALIANO
Se in Europa inizia a trovarsi una corrispondenza tra blocco sociale schiacciato dal neo-liberismo e blocco politico che si rivolge alle classi sfruttate dallo stesso sistema, in Italia questo stesso blocco sociale che si è palesato con il Referendum Costituzionale e che conduce battaglie nei luoghi di lavoro (si pensi alla vertenza Alitalia ma anche alla battaglia dei tassisti contro le liberalizzazioni del mercato), non ha una rappresentanza politica. Se a destra i richiami alla sovranità monetaria e politica si riducono alla riproposizione di politiche neo-liberiste che guardano solo al mondo dell’impresa con scarsa capacità di diventare egemoni, la sinistra è proprio la parte politica che si rende più disponibile ad accettare i paradigmi ordo-liberisti che sono alla base della costruzione europea.
Quando si parla di sinistra non si fa riferimento al PD, che è partito centrale dello schieramento e che rappresenta il contenitore tendente alla stabilizzazione del sistema e che è responsabile, in via diretta, dello svuotamento della nostra Costituzione e della riduzione della sfera politica a mera competizione impolitica e che, insieme al M5S, si dota di strumenti realmente populistici (per esempio le primarie, ormai competizione che segue le regole dei talent show), bensì si vuole indicare tutto il variegato mondo che avrebbe l’ardire di collocarsi a sinistra del PD.
Ebbene questo schieramento è composto, per un verso, da una scissione, che in qualsiasi paese si considererebbe di destra, dallo stesso PD, effettuata da personaggi politici come D’Alema e Bersani, da sempre in prima linea nell’assecondare tutte le direttive dettate dalla tecnocrazia finanziaria, creatori, dagli anni 90, della linea rigorista in campo economico e ispiratori dei governi tecnici che si sono resi responsabili delle maggiori politiche di macelleria sociale e di distruzione dei principi sottostanti alla nostra Carta Costituzionale.
Ancora oggi questa parte politica rivendica, con orgoglio, le politiche di mercificazione e di precarizzazione nel mondo del lavoro, la svendita degli asset pubblici, le liberalizzazioni selvagge e addirittura la nascita del governo Monti, che contribuì a chiudere in maniera definitiva il sistema istituzionale italiano con la ricezione delle raccomandazioni neo-liberiste imposte dalla BCE e con l’instaurazione di una sorta di troika fatta in casa. Dall’altro lato è composta dalla cosiddetta sinistra radicale, che di radicale non ha nulla, la quale si è concentrata nella promozione dei diritti civili elevando il soggetto a unico elemento sociale e che ha rimosso la critica sociale. In questo modo, attraverso una sorta di anarchismo/libertario, ha contribuito alla definizione ordo-liberista dell’essere umano come imprenditore di se stesso, il quale deve assecondare i propri bisogni per raggiungere una liberazione meramente personale, sganciata dalle strutture collettive e dai bisogni reali connessi alle condizioni socio-economiche.
Questi due agglomerati hanno già delineato una futura alleanza elettorale, senza però che vi sia l’intendimento di rappresentare ciò che la sinistra popolare ha avuto il coraggio di affermare in Spagna e in Francia.
Al contrario i loro esponenti di spicco si sono affrettati nel dire che questa sarà una sinistra responsabile che dovrà essere forza di equilibrio del sistema politico. L’intendimento è proprio quello di deprimere e scoraggiare la nascita di una forza popolare che sappia porsi all’opposizione dell’odierno quadro istituzionale e che possa contrastare le prossime politiche di rigore che la UE continuerà a imporre e, soprattutto, che il dissenso, venga normalizzato o al massimo che continui ad essere canalizzato nel voto al M5S, il quale trasporta il malessere sociale sui canali impolitici della casta e dell’indignazione.
In più la classe dirigente di questa sinistra, contraddistinta da falsa coscienza, è atavicamente attratta da un ministerialismo che porta alla costruzione di cartelli elettorali funzionali esclusivamente alla sopravvivenza del loro management e al mantenimento del loro capitale. Non a caso essi si amano definire Ditta.
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