[ 11 gennaio ]
I compagni del Partito Comunista Italiano ci chiedono di pubblicare la relazione di Bruno Steri alla prima riunione del loro gruppo di lavoro sull'Unione europea svoltasi il 19 novembre scorso. Cosa che facciamo volentieri.
«Cari compagni, in accordo col segretario, con la Presidente
del Comitato centrale e con il responsabile del dipartimento Esteri abbiamo
convenuto di rompere ogni indugio
e convocare una prima riunione che ponga
in cima all’agenda del partito la delicata tematica dell’Unione europea
e della sua moneta unica, sia sul piano di un ulteriore approfondimento
analitico sia su quello delle proposte operative. I due piani sono con ogni
evidenza strettamente correlati: non si può infatti operare un salto di qualità
sul terreno della concreta iniziativa senza un’articolata riflessione che coinvolga il corpo del partito
e il suo gruppo dirigente – Segreteria, Direzione, Comitato centrale – e che
precisi ulteriormente e con nettezza la posizione del PCI. Beninteso, non partiamo da zero. Nel
merito abbiamo già avuto modo di esprimerci con iniziative e importanti momenti
di discussione: ricordiamo in proposito, oltre alle specifiche indicazioni
contenute nelle nostre Tesi, l’incontro “Liberare i popoli” promosso a Roma da ricostruirepc, con l’autorevole partecipazione di politici ed economisti, la discussione e il pronunciamento
determinatisi in occasione
dell’Assemblea nazionale costituente di Bologna, la partecipazione del
segretario Mauro Alboresi al convegno internazionale tenutosi a Chianciano lo scorso settembre, la partecipazione del PCI al coordinamento di forze politiche e
sociali Eurostop. Ora l’obiettivo è quello di compiere insieme un altro passo
in avanti, così da porci in grado di organizzare per i primi mesi del prossimo
anno un incontro sul tema, con la presenza e il contributo di altri Partiti
Comunisti europei. Non può sfuggire l’importanza di una problematica
che campeggia, al pari della questione immigrazione, in primo piano sulla scena
politica. Certo, data la modestia delle forze oggi disponibili (dei comunisti e
della sinistra di classe in generale), non possiamo pretendere di dettare nel
merito l’agenda del governo italiano. Possiamo e dobbiamo però far crescere a
sinistra un orientamento intorno a questioni che gravano sulle condizioni di
vita delle classi subalterne e che risultano assolutamente discriminanti sul
piano della collocazione politica. Dopo la riunione di Bratislava,
l’establishment Ue si è dato appuntamento a Malta per il prossimo gennaio e,
successivamente, a Roma per il mese di marzo. E’ essenziale che, lungo tale
percorso,
si faccia sentire la voce dei comunisti.
Unione europea: a) i dati di un disastro
Provo quindi a fare il punto sul tema proponendovi una larga parte analitica, su cui non
penso possano sorgere grosse divergenze di interpretazione,
e una parte finale più complessa sul che fare: nella prima si tratta
prevalentemente di prendere in seria considerazione alcuni dati evidenziati
dalla letteratura economica non mainstream, mentre alla seconda compete
di offrire – alla luce della precedente –
elementi utili per la costruzione di un coerente orientamento politico.
La tesi centrale della prima parte è la seguente: il progetto di un’Unione
europea come comunità politicamente progressiva e socialmente solidale è
fallito in quanto esso ha viceversa proposto (e sin dall’inizio formalizzato in
Trattati) una società a misura degli interessi del grande capitale finanziario
e a discapito della stragrande maggioranza della popolazione.
Inoltre, come conseguenza della competizione tra capitali più forti e capitali
più deboli nonché a dispetto della
denominazione utilizzata
(“Unione”), non vi è stato alcun processo di integrazione tra Paesi membri, ma
al contrario l’ulteriore divaricazione di economie già in partenza diseguali.
A comprova di tali tesi, sono particolarmente significativi
i risultati di un’indagine Nomisma, la società di studi economici che ha avuto
Romano Prodi quale primo coordinatore dell’attività di ricerca. Il capo
economista di questo think tank Sergio De Nardis ha recentemente messo
in fila i dati del “potenziale manifatturiero” dell’Italia e in generale dei
Paesi dell’Eurozona a partire dall’introduzione della moneta unica: si tenga
presente che la produzione potenziale manifatturiera, ottenibile quando la
capacità produttiva è pienamente utilizzata, si esprime in intensità (il
potenziale di ogni singola impresa) e in estensione (il numero di imprese
operative). Ebbene, l’indagine evidenzia per il nostro Paese un “ridimensionamento
di base produttiva senza precedenti nella storia italiana, se si fa eccezione
per le distruzioni della Seconda guerra mondiale” (Nomisma 2015).
Focalizzando l’attenzione sul confronto tra Italia e Germania, “si vede che
il nostro Paese aveva all’inizio della moneta unica una capacità manifatturiera
per abitante superiore a quella dell’economia tedesca. Secondo questa misura,
dunque, l’Italia era più industrializzata della Germania in rapporto alla
popolazione. Tale vantaggio si è annullato a metà dello scorso decennio, per la
sostanziale stabilità del potenziale italiano e l’aumento di quello tedesco. A
partire dal 2007, con l’esplodere della crisi, il gap è divenuto negativo,
allargandosi sempre di più nel corso degli anni, principalmente a seguito della
caduta dell’industria italiana” (ibid.). Va sottolineato il fatto che la divaricazione si
approfondisce col deflagrare della crisi capitalistica, ma inizia il suo corso
ben prima, con l’introduzione dell’euro: “Una divergenza di andamenti tra le
economie è, in realtà, osservabile sin dalle origini della moneta unica”
(ibid.). In Italia, l’involuzione è ben visibile anche sotto il profilo del
calo del numero di imprese manifatturiere, che tra il 2002 e il 2007
diminuiscono di 7.700 unita all’anno (Ateco 2002) e, dal 2008 in
poi, di 10.600 l’anno (Ateco 2007). All’opposto, la Germania incrementa il
numero delle unità produttive e, tramite questo, la capacità di produzione.
Sono dati come quelli sopra menzionati che ad esempio hanno lasciato più che
perplesso il dirigente della Linke Oskar Lafontaine, facendogli dire: “A me,
osservatore tedesco, risulta molto difficile capire perché l’Italia ufficiale
assista più o meno passivamente alla perdita del 30% delle quote di mercato
delle sue industrie” (Lettera alla Sinistra, Micromega). Né può sorprendere il fatto che il
reddito pro capite degli italiani, fino al 1996 grosso modo in linea con quello
degli altri Paesi Ue, da quella data prenda inesorabilmente a scendere.
Ma soprattutto l’indagine di Nomisma mette in evidenza che
quel che vale per l’Italia vale in generale per i Paesi dell’area mediterranea
in contrapposizione ai Paesi del Nord Europa: si è cioè in presenza di un vero
e proprio “processo di polarizzazione geografica centro-periferia”. Il
potenziale manifatturiero infatti decade in Grecia, Portogallo, Spagna, Italia
e Francia (in misura sempre meno pronunciata dal primo verso l’ultimo); mentre
aumenta o si consolida in Germania, Olanda, Austria e Finlandia. Qui non c’è molto da interpretare, i
dati sono dati. E anche se questo tipo di notizie cadono nel più assordante
silenzio dei media ufficiali, non è difficile trovare ulteriori conferme
di tale drammatica situazione. Ad esempio, Emiliano Brancaccio non ha cessato
di sottolineare la progressiva accentuazione delle divergenze tra tassi di
insolvenza dei capitali dell’Eurozona: in Paesi come la Germania e l’Olanda, il
numero di imprese dichiarate insolventi ha continuato a calare,
mentre in Grecia, Spagna, Portogallo, Italia ha continuato a crescere. Ciò
ovviamente comporta conseguenze assai sgradevoli: “Al divario tra i dati
sulle insolvenze segue poi, logicamente, un’accelerazione dei processi di
acquisizione dei capitali deboli ad opera dei più forti (…) Stando alle
dinamiche in corso, in un arco di tempo non particolarmente esteso i Paesi
periferici dell’Unione potrebbero essere ridotti al rango di fornitori di
manodopera a buon mercato o, al più, di meri azionisti di minoranza di capitali
la cui testa pensante tenderà sempre più spesso a situarsi al centro del
continente” (Uscire dall’euro? C’è modo e modo, Micromega).
Nel merito, in un recente articolo pubblicato sul nostro sito,
il segretario della Fgci Francesco della Croce ha correttamente ricordato, a
proposito dell’impoverimento del nostro Paese, che non a caso per Antonio
Gramsci “la sovranità deve essere una funzione della produzione” (Un’altra
Europa è possibile, un’altra Ue no). Al contrario, l’evoluzione
sopra evidenziata mostra una tendenza in atto verso una sperequata
specializzazione per aree economiche all’interno di una stessa zona valutaria,
sulla cui base da un lato si va verso il monopolio manifatturiero (tedesco) e
dall’altro verso la desertificazione produttiva (in particolare del Mezzogiorno
d’Italia).
Unione
Europea: b) da big government a small government
Come si spiega un tale disastro? Parlare di “errori” è
improprio. Più utile è illustrare gli effetti di un orientamento funzionale al
grande capitale finanziario: effetti che sono stati sin dall’inizio socialmente
rovinosi nonché disgreganti dal punto di vista della tenuta della compagine
europea nel suo complesso. Quest’ultima si è trovata a dover fronteggiare gli squilibri causati dai differenziali
di competitività esistenti al suo interno e, in particolare, la divaricazione
nell’andamento delle bilance commerciali. La strada scelta per tentare un
riequilibrio è stata quella dell’abbattimento del costo del lavoro per unità di
prodotto, con l’obiettivo di incrementare la produttività dei Paesi
“periferici” e sanare i loro conti con l’estero. In sostanza si è addossato
l’onere sulle spalle dei Paesi debitori: ma il risultato è stata la distruzione
della domanda interna. Il caso
Grecia è a tal riguardo paradigmatico. La medicina somministrata si è rivelata
per il grosso della popolazione molto peggiore del male e le contraddizioni,
anziché affievolirsi, si sono accentuate: i salari reali sono crollati, i tagli
alla spesa pubblica hanno compresso l’erogazione di servizi essenziali; ma
anche i conti con l’estero sono peggiorati e il debito pubblico ha continuato a
lievitare. Gli unici a guadagnarci sono stati i creditori (in particolare,
banche tedesche e francesi), cui è ritornato il grosso dei cosiddetti “aiuti”
concessi alla Grecia dall’Ue in cambio dei tagli draconiani. Il dramma greco
rappresenta l’esito più estremo determinato da un medesimo orientamento di
politica economica, quello imposto da Bruxelles (e Berlino).
In effetti, non si può capire nulla di quel che si è
prodotto con la nascita dell’Unione europea e l’inaugurazione dell’euro se non
si fissano i contorni di quello che è stato un epocale cambio di paradigma.
Ricapitoliamo brevemente. Il 1° gennaio 1999 l’euro debutta ufficialmente sui
mercati finanziari e il 1° gennaio 2002 entra effettivamente in circolazione in
12 Paesi dell’Ue. Ma le regole che presiedono a tale nascita sono prescritte ai
singoli Paesi sin dal 1992, col Trattato di Maastricht:
limite massimo del deficit pubblico al 3% del Pil; limite massimo del debito
pubblico al 60% del Pil; limite massimo del tasso di inflazione all’1,5%
rispetto alla media del Pil dei tre Paesi a più bassa inflazione. Italia e
Belgio sono ammessi pur sforando il parametro del debito, la Grecia lo è anche
se sfora tutti i parametri. La Commissione europea vigila sul rispetto di tali
regole e sul rientro di chi le viola; la Banca Centrale Europea, in sintonia
con la sua mission, ha il
compito prioritario di controllare il tasso di inflazione. Questo evento ha
rappresentato l’epilogo di una svolta storica che ha cambiato i fondamenti su
cui era stata costruita la nostra Repubblica. L’Italia uscita dalla seconda
guerra mondiale, memore della grande crisi che aveva investito il mondo
capitalistico negli anni 30, avviò la ricostruzione materiale e morale del
Paese sulla base di una forte presenza pubblica nell’economia e della
promozione di una società socialmente più equilibrata. Come ricorda Vladimiro
Giacché nel suo Costituzione italiana contro Trattati europei, fu questo
il compromesso sociale che produsse l’avvento del Big Government, di un capitalismo interventista teso a stabilire la propria egemonia
sulla base dei principi della democrazia costituzionale e del riconoscimento
del diritto al lavoro. Non a caso fu questa la temperie storica in cui venne
alla luce la Costituzione italiana e in cui il Partito Comunista concepì la
prospettiva di una “democrazia progressiva”.
Con l’Unione europea è tornato lo Small Government,
lo Stato minimo e l’onnipresenza del mercato capitalistico (il laissez-faire,
il lasciar fare alle regole del mercato). Ma con ciò si è
compiuto il coronamento di un lungo processo di recupero di potere da parte
delle classi dominanti. Nel nostro Paese, un passaggio fondamentale di tale
involuzione è stato il divorzio tra Banca d’Italia e governo, promosso nel 1981
dall’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e dal governatore della
Banca d’Italia Carlo Azelio Ciampi. Da allora in poi la nostra banca centrale è
stata esentata dal compito di sostenere la spesa pubblica attraverso l’acquisto
di titoli del debito pubblico, lasciando così tale funzione al libero gioco del
mercato e dei privati. Non più calmierati, i tassi d’interesse hanno preso a
gonfiare il nostro debito che, nel giro di dieci anni, è passato
dal 58% al 120% del Pil. Detto per inciso, rievocare il suddetto momento
critico serve a demistificare la litania del taglio della spesa pubblica,
continuamente propinataci quale soluzione di tutti i problemi dai cantori
dell’ideologia dominante. Basterebbe guardare all’andamento del rapporto tra
spesa corrente primaria (spesa pubblica al netto degli interessi) e prodotto
interno lordo in Italia e in Germania, nei vent’anni successivi al 1980, per
vedere che non ci sono grandi differenze nell’incremento di spesa corrente
primaria dei due Paesi: la differenza sta appunto tutta nella spesa per
interessi (e poi, con la moneta unica, nella crescita piatta) a netto
svantaggio dell’economia italiana.
Unione europea: c) indipendenza della Bce,
centralizzazione della politica
economica e monetaria
Con il varo dell’Ue - con l’accentramento della politica
monetaria in capo ad un organismo indipendente quale è la Bce e con la
sottrazione delle politiche fiscali e di bilancio all’autonoma disponibilità
dei singoli governi - la dogmatica liberista è divenuta un imperativo scolpito
nei Trattati: è il trionfo di Friedrich von Hayek, economista liberista per
eccellenza, il quale per impedire il finanziamento dell’intervento pubblico
predicava precisamente lo sganciamento della creazione di moneta dal controllo
dei governi. Come è noto, i Trattati Ue vietano il finanziamento del debito dei
singoli Stati (art.125 TUE), impedendo quella che dovrebbe essere una normale
funzione di politica monetaria esercitata da una banca centrale: creare
liquidità per fornire allo Stato risorse da spendere in servizi essenziali
(politica industriale, sanità, istruzione ecc). Paradossalmente, in tempi di deflazione e con livelli
drammatici di disoccupazione , l’unico assillo formalmente concesso alla Banca
centrale europea è il contenimento dell’inflazione.
Nel nostro Paese, la creazione dell’Ue e il varo dell’euro
erano stati presentati come il passo necessario per tenere i tassi d’interesse
agganciati a quelli tedeschi e porre così un freno all’inarrestabile crescita
del debito pubblico (la cui vera causa abbiamo visto poco sopra). La
contropartita è stata la rinuncia alla propria sovranità monetaria, oltre
all’applicazione di rigorosi piani “di aggiustamento strutturale” (leggi:
contenimento della dinamica salariale e della spesa pubblica): ne sa qualcosa
la Cgil, che proprio nella prima metà degli anni 90 avviò la stagione
”concertativa” (pagando prezzi talmente pesanti da determinare le dimissioni
del suo segretario generale Bruno Trentin). La crisi sistemica in cui a
partire dal 2008 è precipitato il modo di produzione capitalistico ha poi
ulteriormente aggravato le condizioni di permanenza nell’Eurozona. Come è noto,
i parametri di Maastricht sono stati ulteriormente inaspriti da successivi
patti, che hanno ridotto a zero la tolleranza sul deficit pubblico e stabilito
una tempistica ultra-rigorosa per il rientro dal debito, oltre a un totale
potere di condizionamento da parte di Bruxelles e a più severe sanzioni in caso
di infrazione (vedi Fiscal Compact, Two Pack e Six Pack).
In ogni caso, quale fosse la stella polare dell’Unione
europea era ben chiaro sin dall’inizio. In una ben argomentata analisi, Sergio
Cesaratto (Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la
crisi più lunga e come uscirne) ha sottolineato come, col deflagrare della
crisi greca e da questa in poi, le politiche di Bruxelles abbiano unicamente
puntato a tutelare i creditori esteri: la cosiddetta austerity non è
affatto servita ad abbattere il debito pubblico bensì a consentire ai Paesi
debitori un avanzo commerciale (ovviamente ai danni dei consumi interni) così
da ripianare il debito estero. Tuttavia, determinando l’impoverimento dei
suddetti Paesi, ciò non è servito a mettere in sicurezza la solvibilità delle
loro economie e più in generale
del sistema euro come tale. Il campanello d’allarme suonato dai mercati è risuonato
all’interno della Bce: il divieto - esplicitato nei Trattati - di creare
liquidità a sostegno delle esigenze primarie dei singoli Stati, non ha infatti
impedito al governatore della Bce Mario Draghi un’interpretazione flessibile
dei medesimi, per correre ai
ripari quando un’ottusa applicazione del rigore monetario avrebbe potuto far
saltare il banco. Nonostante i mugugni dei più oltranzisti di Bruxelles e
Berlino, nel 2012 Draghi si è deciso a dichiarare la disponibilità della Bce a
intervenire con acquisto di titoli di stato dei Paesi in sofferenza (tra cui l’Italia), pur di arrestare l’allora
montante ondata speculativa e tentare di mettere in sicurezza la moneta unica e
la stessa Ue.
Un tale
(contrastato) approccio “flessibile” è proseguito negli anni successivi, con le
misure di quantitative easing (letteralmente: facilitazioni
quantitative) tese a fornire liquidità ad un sistema finanziario paralizzato e
ossigeno all’economia bloccata dalla crisi. Ciò non è servito a riavviare la
macchina (le aziende non chiedono soldi e non investono se non vedono
prospettive di profitto). In ogni caso, le provvidenze di Draghi non erano
gratuite. Infatti, il messaggio è stato ed è a tutt’oggi il seguente: la Bce fa il suo dovere in ambito
monetario, i governi devono fare il loro (i “compiti a casa”) in tema di
politiche fiscali e del lavoro. Detto fatto: da tale logica, ad esempio, sono
derivati il Jobs Act di
Renzi e la Loi du travail di Hollande, con la libertà di licenziare
senza giusta causa e l’attacco alla contrattazione collettiva di lavoro.
Inoltre, se è vero che Draghi ha utilizzato un’interpretazione riequilibratrice
delle regole monetarie dei Trattati, per aumentare la liquidità del sistema
finanziario e comprare sui mercati debito dei Paesi più fragili, va altresì
sottolineato che egli ha esercitato tale funzione con estrema (e
unidirezionale) discrezionalità. Le scelte degli ultimi anni sono lì a
dimostrarlo: nel 2011 la Bce nega liquidità all’Irlanda (il cui governo è
costretto ad accollarsi tutto l’onere finanziario triplicando il debito
pubblico); nella seconda metà del 2011 la nega all’Italia (lasciando agire il
panico generato dall’impennata dello spread, fino a spingere il governo Berlusconi alle dimissioni); nel
2013 minaccia di negarla a Cipro (forzando il governo cipriota a mettere nel
conto il prelievo forzoso dai conti correnti); e infine, last but not least,
la nega alla Grecia di Tsipras, con le note conseguenze.
Il potere di ricatto di una banca
centrale sottratta a qualsiasi controllo da parte di assemblee parlamentari
elette dal popolo esprime bene il vulnus inferto alle istituzioni
democratiche da questa Europa: da un’Unione europea insofferente ai
condizionamenti di libere elezioni e referendum e, di contro, affidata
all’inesorabile guida di un “pilota automatico”.
In definitiva, l’esperienza di questi anni ci obbliga a
prendere atto della strutturale contraddittorietà dell’impianto con cui ha
preso forma l’Unione europea: oggi
non possiamo non trarre le conseguenze politiche della sua
irriformabilità. E’ stato correttamente osservato che a quelli che continuano a
chiedere “più Europa” bisognerebbe rispondere che, a questo punto, il problema
non è “quanta Europa” ma “quale Europa”. E che sarebbe ora di cambiare
risolutamente strada.
Una questione nazionale
Prima di passare al “che fare”, conviene subito annotare che
le vicende sin qui esposte propongono oggettivamente il configurarsi di
una nuova questione nazionale. E
poiché sappiamo che ciò ha indotto in qualcuno anche a sinistra qualche
perplessità, è bene in proposito rendere esplicite alcune precisazioni:
ricordando innanzitutto che – banalmente – c’è una totale contrapposizione tra
l’approccio al tema di un Matteo Salvini e quello di un Antonio Gramsci, tra
chi cioè predica un regressivo ripiegamento nazionalistico e chi si propone di
costruire un’opposizione vincente al blocco di potere capitalistico
transnazionale, scegliendo di volta in volta nel conflitto di classe i terreni
di lotta più favorevoli alle classi popolari.
Sulla base di una tale consapevolezza, non può essere
trascurato il fatto che gli ultimi mesi hanno visto tutti noi strenuamente
impegnati nella difesa e, possibilmente, il rilancio della nostra Costituzione
del ’48, la Costituzione nata dalla resistenza al nazifascismo. Né può sfuggire
che questa Costituzione, oltre a subire l’attacco da parte della controriforma
renziana, è gravemente insidiata e purtroppo già sfigurata – nella sua lettera
e nella sua ispirazione profonda – proprio dalle prescrizioni dei Trattati Ue.
In effetti, assecondando i
suggerimenti della grande finanza internazionale (che aveva direttamente
auspicato la revisione di quelle costituzioni nazionali che in Europa
mantengono l’impaccio di un residuale spirito “socialisteggiante”),
il 20 aprile 2012 è stata approvata dal parlamento italiano una legge
costituzionale che modifica l’articolo 81, introducendo nella nostra
carta fondamentale il cosiddetto “pareggio di bilancio”. Non si tratta di un
dettaglio. Com’è noto, con tale norma si impedisce al governo in carica di
operare in deficit, imponendo viceversa un equilibrio meramente
contabile del bilancio pubblico. In tal modo – considerando qualunque impegno
di spesa che sfori la parità di bilancio alla stregua di una dissipazione,
indipendentemente dalla qualità della spesa medesima – è stato rimosso
un fondamento delle politiche riformiste che consentirono uno sviluppo
socialmente progressivo nel secondo dopoguerra dello scorso secolo. Il Partito
Democratico (tutto il Partito Democratico) ha votato un tale scempio, mandando
in soffitta oltre a Marx lo stesso Keynes e chiudendo esemplarmente la parabola
della sua involuzione.
Una possibile replica a quanto detto è quella di chi ricorda
che l’applicazione del pareggio di bilancio prevede comunque una certa
flessibilità nel caso di eventi eccezionali che richiedano spese straordinarie
o in considerazione di fasi economiche particolarmente critiche. Ciò è solo
formalmente vero, poiché nella sostanza è la Commissione europea ad avere
l’ultima parola sulla rilevazione della misura secondo cui una tale tolleranza
debba concretizzarsi: e disgraziatamente, per la definizione di tale misura, a
seconda dei sistemi di calcolo utilizzati si possono ottenere - e nel recente
passato sono stati ottenuti - risultati assai diversi (lasciando
inevitabilmente la porta aperta al dubbio che dietro gli esercizi contabili
partoriti dalla supervisione di Bruxelles possano celarsi decisioni
squisitamente politiche). Inoltre c’è da aggiungere che, particolarmente in economia,
nessun metodo d’indagine è del tutto neutro rispetto agli interessi di classe:
una tale implicazione si evidenzia clamorosamente nel caso dei controlli della
Commissione europea. Spetta
infatti a quest’ultima decidere
quale sia l’ “indebitamento strutturale” di un Paese, cioè il saldo di bilancio
al netto delle variazioni indotte dalle oscillazioni (negative) del ciclo
economico e che quindi non possono essere attribuite all’azione discrezionale
dei governi: in tal modo ci si propone di verificare l’effettiva virtuosità
contabile del governo in questione. Per il calcolo di tale parametro viene
utilizzato un “tasso di disoccupazione d’equilibrio”, con cui si intende il
livello minimo cui il tasso di disoccupazione può scendere, in quanto al di sotto
di esso si ingenererebbero dinamiche inflazionistiche. Ebbene, il tasso di
disoccupazione d’equilibrio al di sotto del quale secondo Bruxelles in Italia
non si dovrebbe scendere ha continuato a lievitare, passando dal 7,5% del 2011
all’11,4% del 2015. Con buona pace degli obiettivi di piena occupazione.
Dovrebbe bastare un simile micidiale dato per indurre un governo di sinistra a
porre un secco aut aut ai tecnocrati della Commissione e all’Ue in
quanto tale. Purtroppo per ora non è alle viste alcun governo di sinistra.
In compenso abbiamo una Corte Costituzionale che non esita a
porre il suo autorevole veto rispetto a provvedimenti promossi dal governo
sulla base degli indirizzi comunitari ma che violano il nostro dettato
costituzionale. E’ quello che ad esempio è accaduto nell’aprile 2015, quando
una sentenza della Corte ha dichiarato illegittimo il blocco della
rivalutazione delle pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento
minimo Inps per il biennio 2012-2013, contenuto nel decreto cosiddetto “Salva
Italia” già emanato nel 2011 dal governo Monti: nella circostanza, la Corte ha
riconosciuto la primazia dei diritti dei pensionati, tutelati dalla carta
costituzionale, rispetto alle esigenze contabili prescritte da Bruxelles e
disciplinatamente tramutate in legge dal governo italiano. Non serve aggiungere altro per
comprendere che Trattati Ue e Costituzione italiana vanno in rotta di
collisione sul piano dell’ispirazione di fondo, dei principi che sovrintendono
al vivere associato. Difendere la nostra Costituzione dal pervasivo attacco del
neoliberismo, preservandone la preminenza giuridica e di orientamento politico
generale,
è un modo giusto di ridare valore – il valore di una lotta progressiva – ad una
questione nazionale che, nella fattispecie, fa tutt’uno con la tenuta
degli assetti democratici.
Lavorare ad un’alternativa
E’ evidente che il tema della sovranità nazionale si
intreccia con quello del che fare, della ricerca di una percorribile linea di
rottura con questa Unione europea e di una realistica via d’uscita da quella
che è stata definita la “gabbia dell’euro”. All’indomani del fallimentare esito
del confronto tra la Ue e la Grecia di Alexis Tsipras, in effetti ha preso ad
allargarsi il numero di politici, intellettuali, economisti , convinti della
necessità di un superamento dell’attuale situazione. Nel testo già citato,
Oskar Lafontaine ha posto il problema in termini chiari e lapidari:
“ (Ci si
chiede) quali possibilità abbia un governo guidato da un partito di sinistra
, o un governo in cui un partito di sinistra sia coinvolto come partner di
minoranza, di portare avanti una politica di miglioramento della condizione
sociale di lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, e delle piccole e
medie imprese, nel quadro dell’Unione europea e dei trattati europei. La
risposta è chiara e brutale: non esistono possibilità per una politica tesa al
miglioramento della condizione sociale della popolazione, fintanto che la Bce,
al di fuori di ogni controllo democratico, è in grado di paralizzare il sistema
bancario di un Paese soggetto ai trattati europei “.
Finché i governi
dell’Europa mediterranea saranno
sottoposti alle regole dell’Unione europea e dei suoi Trattati, finché ad essi
sarà precluso il ricorso ai normali e autonomi strumenti di controllo
macroeconomico (politica dei tassi d’interesse, politica dei cambi, politica di
bilancio), sarà impossibile per essi sottrarsi ad un destino di impoverimento
industriale e di disoccupazione.
Dire questo non significa affatto cedere a pulsioni nazionalistiche: anzi, la
storia recente - e in particolare quella dell’Ue - insegna che il trasferimento
di tali funzioni ad autorità di livello sovranazionale apre la strada
all’approfondirsi delle contraddizioni di classe imposte dal neoliberismo e al
diffondersi - per contrasto - del nazionalismo reazionario.
Consegnati ad un contesto in cui l’esistenza di una moneta unica preclude ai
singoli Paesi la possibilità di svalutare una propria moneta (così da dare
ossigeno all’export) e in cui si impedisce il ricorso alla spesa pubblica per
investimenti, ai Paesi “periferici” non resta che stringere i cordoni della
politica salariale e del mercato del lavoro. Solo così infatti diventa
possibile reggere la “forte competizione” interna all’area, peraltro auspicata
con furore ideologico dai Trattati, e migliorare la produttività, rispondendo
alle politiche di dumping salariale praticate dai Paesi “centrali”,
Germania in testa (va infatti ricordato che il vertiginoso surplus tedesco dei
conti esteri ha potuto prendere il largo grazie alla (contro)riforma del
mercato del lavoro varata dall’allora primo ministro Schroeder e grazie ad una spinta moderazione
salariale, concretizzatasi tra il 1999 e il 2013 in una crescita dei salari
monetari equivalente alla metà della media di tutta la zona euro).
Occorre in definitiva
trarre le conseguenze politiche di una pesante constatazione: per le lavoratrici e i lavoratori, per
la sinistra, per i comunisti, l’Unione europea è un problema; e l’euro è al
cuore del problema. Tutte le consultazioni referendarie che nel corso di questi
anni hanno consentito di esprimersi in merito hanno confermato l’ostilità di
ampi settori popolari nei confronti di Bruxelles: hanno da subito cominciato
francesi e olandesi, lo hanno ribadito più recentemente greci e inglesi. Oggi è
incombente il pericolo che le destre imprimano un segno reazionario a tale
diffusa opposizione, ad esempio strumentalizzando il tema dell’immigrazione e
enfatizzando pulsioni di chiusura autarchica e xenofoba. La sinistra di classe
e, in essa, i comunisti non possono stare a guardare, lasciando senza una
sponda politica i genuini contenuti di classe dell’opposizione all’Ue e alle
sue politiche antipopolari. Ciò vale a maggior ragione in considerazione del
fatto che nel 2017 importanti scadenze elettorali metteranno alla prova le
scelte dei due Paesi “guida” dell’Unione, la Germania e la Francia: Paesi che
hanno visto lievitare in questi mesi
i consensi alle destre
anti-Ue. Mentre portiamo a termine la trascrizione della presente relazione, in
un altro Paese essenziale per la tenuta della compagine europea, l’Italia,
un’importante consultazione referendaria
ha sanzionato la crisi definitiva del suo governo: un governo inadeguato
anche sul fronte dei rapporti con l’Unione, capace di alzar la voce
propagandisticamente a Roma, ma nella sostanza del tutto
prono alle prescrizioni di Bruxelles e Berlino. Non sarà un caso se la tedesca
Angela Merkel è l’unica leader restata in sella, tra i Paesi maggiorenti
dell’Eurozona.
A sinistra c’è chi sostiene che si debba andare avanti
tenendo conto del quadro globale, senza tornare indietro ad una perdente
dimensione nazionale. In relazione alla questione dell’Unione europea e della
sua moneta unica, si può anche sostenere ciò (ed anche con qualche legittima
preoccupazione), ma bisogna sapere che se lo si fa senza aggiungere nulla sul
che fare, di fatto ci si consegna allo status quo. Dobbiamo invece evitare come la peste
una condizione di stallo: non si può esprimere un giudizio categorico e
negativo sull’irriformabilità dell’Unione europea e sul carattere strutturale
del suo impianto monetario, per le motivazioni esposte in questa relazione, e
poi non offrire alcuna ipotesi alternativa, conseguente e concreta. In politica
non esiste il vuoto: laddove si crea, qualcuno verrà ad occuparlo. Non vorremmo
che fossero le destre. Com’è noto, in questi anni abbiamo provato a “riformare”
l’Ue, opponendoci alle regole di Maastricht e dei Trattati,
per così dire ”dall’interno”. I
risultati sono sotto i nostri occhi: in particolare, va segnalato che oggi i
lavoratori europei, oltre a stare peggio di ieri, sono anche più divisi di ieri.
La ragione è che non ci siamo confrontati semplicemente con politiche
sbagliate: ci siamo trovati davanti ad un consapevole orientamento regressivo e
di classe, guidato dai “poteri forti” sovranazionali e insofferente ai lacci e
lacciuoli di una democrazia partecipata (financo quella imposta dal responso
elettorale: detto per inciso, in Italia è dal 2011 che non si vota più e che
lorsignori decidono dall’alto, di volta in volta, l’esecutivo di turno). Non si può continuare a disquisire di
Europa (magari riproponendo la rituale formula “No all’Europa della finanza, sì
all’Europa dei popoli”), senza cogliere l’emergenza politica in cui stiamo
precipitando e, con essa, l’urgenza dell’esplicitazione di una posizione
chiara. Ciò vale ancor più alla luce della vicenda greca (che ha mostrato tutti
i limiti dell’opzione “riformista”) e all’indomani della Brexit (che viceversa
ha reso palese il fatto che stare senza Unione - e senza euro - non comporta
alcuna “fine del mondo”).
Proposte
in costruzione
Una volta reputato irrealistico l’intento di riformare l’Ue,
ad esempio attraverso la rinegoziazione dei Trattati, nell’ambito della
sinistra di classe europea e di molti partiti comunisti si è preso atto della
necessità di pensare a un Piano B e sono state espresse proposte che mirano a
individuare un concreto cammino per uscire “a sinistra” dall’impasse.
Sono stati organizzati momenti di discussione comune. Su questa via anche in
Italia qualcosa si è mosso per immettersi
più organicamente sul terreno delle proposte compiute e del confronto
operativo.
E’ evidente che - sicuramente per il contesto italiano - un
primo ineludibile compito è quello di intensificare il lavoro propagandistico
al fine di contrastare il clima allarmistico (fondato su una presentazione
deficitaria dei dati reali) che circonda l’ipotesi di superamento della moneta
unica e di deflagrazione o rottura dell’Unione europea. Al punto in cui siamo,
sarebbe una scelta davvero avventuristica quella di rinunciare a far uscire
dalla clandestinità le suddette eventualità; e, come detto, non vi è dubbio che
l’evoluzione tutt’altro che drammatica del caso Brexit faciliti una tale opera
di controinformazione. Studi recenti hanno inteso demistificare le previsioni
di un distruttivo crollo del salario reale in caso di superamento dell’euro e
conseguente svalutazione della moneta, fornendo dati assai più articolati concernenti
9 casi di sganciamento da un regime di cambi fissi avvenuti negli ultimi venti
anni (Finlandia, Gran Bretagna, Italia e Svezia nel 1992; Repubblica Ceca e Sud
Corea nel 1997; Argentina e Turchia nel 2001; Messico). Ebbene, solo
in 2 casi (Argentina e Messico) su 9 si è registrato un forte calo, in altri 2
si è mantenuta una situazione stazionaria, nei rimanenti vi è stato un calo
modesto. In tutti i casi, tranne uno, il salario reale è comunque tornato nel
giro di cinque anni ai livelli precedenti. La conclusione è che, se non si può escludere un impatto
negativo sui salari e sulla distribuzione del reddito, è però “da ritenersi risibile l’idea, molto diffusa a
sinistra, secondo cui l’abbandono dell’euro comporterebbe inesorabilmente una svalutazione
di tale portata da generare un crollo verticale dei salari reali”. Un punto
resta tuttavia certo: “L’uscita da un regime di cambio fisso può avere o
meno un impatto negativo sul potere d’acquisto dei lavoratori e sulla
distribuzione del reddito nazionale a seconda che esistano meccanismi
istituzionali - scala mobile, contratti nazionali, prezzi amministrati ecc – in
grado di agganciare i salari alla dinamica dei prezzi e della produttività”
(Uscire dall’euro? C’è modo e modo) .
In definitiva, il prezzo di un uscita dall’euro può toccare
interessi diversi, a seconda che dall’euro si esca a destra o a sinistra: il
Partito Comunista Italiano deve cominciare a dire questo a chiare lettere alla
nostra gente.
Alcuni Partiti comunisti europei lo stanno facendo. Quelli dell’area “periferica”, in
particolare il Pc spagnolo e quello portoghese, hanno definito – ciascuno con
una sua propria e originale analisi – una linea di rottura dell’Ue e di uscita
dall’euro. Con tutti costoro va
approfondito il confronto. Così come va tenuto in attenta considerazione
l’appello di Oskar Lafontaine per la definizione di un Piano B di superamento
dell’euro e di ritorno ad un regime di cambi flessibili: un nuovo SME (Serpente
Monetario Europeo), con recupero della sovranità monetaria da parte dei singoli
Paesi e la possibilità di calibrare entro limiti determinati operazioni di
svalutazione e rivalutazione delle monete. Nell’intervento fatto nel corso della Conferenza “per un
Piano B in Europa” (Parigi, 23 gennaio 2016), Emiliano Brancaccio ha giudicato
positiva ma non sufficiente la suddetta proposta in quanto, “in una situazione
di perfetta mobilità di beni e soprattutto di capitali, un Paese che tenda ad
accumulare un deficit di partite correnti”, pur riacquistando la propria
sovranità monetaria e potendo svalutare la propria moneta, non riuscirebbe
comunque a perseguire politiche progressive di aumento dell’occupazione. Per questo, “il ritorno a una sorta di
SME dovrebbe essere combinato con la possibilità di imporre controlli di
capitali da e verso i Paesi che usino la deflazione per accumulare avanzi delle
partite correnti” (il riferimento alla Germania è qui implicito). In altre
parole, mentre le destre fanno della limitazione della libertà di movimento
delle persone una loro bandiera, le sinistre dovrebbero invece tornare ad
introdurre vincoli alla libera circolazione di capitali (e, se necessario, di
beni): nello specifico, ciò vorrebbe dire, oltre che mettere in discussione la
moneta unica, porre un freno alle sperequazioni del mercato unico europeo, ove
continua ad approfondirsi il solco tra capitali (e Paesi) più forti e capitali
(e Paesi) più deboli. In ciò consiste la proposta “International Social
Standard sulla moneta” presentata dallo stesso Brancaccio il 7 dicembre scorso
in occasione di una conferenza promossa dai parlamentari del GUE/NGL.
Nel nostro Paese, nonostante le incertezze e le difficoltà
della politica, non ha mancato di svilupparsi un dibattito che ha oltrepassato
la ristretta cerchia degli addetti ai lavori: ad esempio, è quello che è
successo attorno alle tesi di Sergio Cesaratto. Di tali tesi, nell’economia
della presente relazione, è sufficiente richiamare i seguenti punti: a) il
modello euro ha consentito alla Germania di guadagnare un incolmabile guadagno
di competitività rispetto agli altri membri dell’Eurozona; b) questa Europa a
trazione tedesca non è riformabile e le sue scelte non sono errori ma
l’espressione di un preciso orientamento, essendo costruita a tutela degli
interessi dei capitali forti e dei
Paesi creditori e come “strumento disciplinare delle classi lavoratrici, in
particolare dell’indisciplinato Sud, Francia inclusa”; c) una larga parte della
sinistra ha confuso internazionalismo con europeismo, impedendosi di comprendere
che l’euro è il compimento della globalizzazione capitalistica, lo strumento
con cui il capitale si sottrae al conflitto nell’unico luogo ove esso ha dato
prova di potersi esplicare: lo Stato nazionale; d) non a caso, “l’Ue svuota del
tutto lo Stato nazionale dei poteri monetari e fiscali, privando le classi
lavoratrici del loro terreno naturale di conflitto”; e) per tutto questo, non
c’è alternativa al puntare su un Italexit. Tra gli interlocutori di Cesaratto,
ci limitiamo qui a citare Ernesto Screpanti il quale, muovendo dalla medesima
analisi critica, ritiene tuttavia che l’eventuale “uscita dell’Italia
dall’Unione europea vada intesa come una mossa tattica volta ad
abbattere la dittatura ‘eurista’ e
creare le condizioni per far ripartire rapidamente il processo di unificazione
politica europea (dell’Europa del Sud, inclusa la Francia)”. Egli propone in
sostanza un processo di federazione del Sud Europa. Non proseguo oltre. Ma,
come si vede da questi rapidi riferimenti, anche in Italia c’è chi è
impegnato a dare risposte alla concreta urgenza del che fare. In sintesi, si è
ormai aperta una strada alternativa, ma c’è ancora una pluralità di voci sui
mezzi utili a percorrerla. Occorre confrontare le suddette proposte e porle nei
termini di un’operatività che sia all’altezza dell’urgenza politica e di una
più diffusa consapevolezza. Spetta
anche a noi, questo compito: cominciando con il programmare un incontro
con i Partiti comunisti che in Europa si attestano su un orientamento affine.
Chiudo con un’ultima ed essenziale precisazione. La presente
relazione ha focalizzato gli aspetti strutturali della questione, evidenziando
le contraddizioni “interne” alla compagine Ue ma tralasciando, sia nell’analisi
che nella proposta, elementi altrettanto dirimenti concernenti il contesto
globale. E’ infatti del tutto evidente che l’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Unione
europea e della moneta unica porta con sé un orientamento generale nel merito
dell’impegno antimperialista e delle relazioni internazionali: nella
fattispecie, un’azione decisa contro le pulsioni aggressive di un’Alleanza
atlantica egemonizzata dagli Stati Uniti e a favore della costruzione di un
mondo multipolare in cui sia
riconosciuto il ruolo progressivo dei cosiddetti Brics. Su questo essenziale
versante è peraltro già all’opera il nostro dipartimento Esteri, che certamente
continuerà – come ha sin qui fatto – a fornire un’informazione dettagliata
sulle iniziative del partito e il necessario approfondimento sulla prospettiva
immediata».
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