[ 18 gennaio ]
Come volevasi dimostrare i nodi stanno venendo al pettine. Prima le banche, adesso la richiesta europea di una manovra correttiva da 3,4 miliardi. Poi arriverà il conto più grosso: rimanda, rimanda, non si sa bene come il governo vorrà disinnescare per il 2018 la "clausola di salvaguardia" sottoscritta con l'UE, la bellezza di 19,5 miliardi annui da ricavare da un maxi-aumento dell'IVA dal 22 al 25%.
Il recupero di due decimali di pil sul deficit 2017 (dal 2,4% previsto dal governo, al 2,2% chiesto dalla Commissione) a Bruxelles lo chiamano apertamente il "conto di Renzi". Un conto che gli eurocrati avevano lasciato in sospeso solo per favorire il "sì" al referendum. Poi, passata la festa (che peraltro per lorsignori festa non è stata), gabbato lo Santo. Ed il conto è arrivato.
Ora il governo fotocopia di Gentiloni non sa come venirne a capo. Dire troppo platealmente "signorsì" equivarrebbe ad una clamorosa figuraccia sia per l'attuale esecutivo che per quello precedente. Sarebbe come ammettere il trucchetto di aver abbellito la Legge di bilancio solo a scopo propagandistico. D'altra parte dire invece "signornò" non appare affatto più semplice. Primo, perché ci vorrebbe almeno un briciolo di quel coraggio che notoriamente chi non ce l'ha (guardate la faccia di Gentiloni e valutate...) non può darselo. Secondo, perché in quel caso a Bruxelles sembrano decisi ad avviare la cosiddetta "procedura d'infrazione", per poi arrivare magari ad una bella multa all'Italia.
Insomma, le furbate di Renzi, fatte di rinvii, clausole straordinarie, "riforme" vendute come miracolose, sgomitate per strappare qualche zerovirgola, sono davvero arrivate al capolinea. E questo per due motivi: all'interno la fragorosa sconfitta del disegno controriformatore sancita dal voto del 4 dicembre; all'esterno la necessità della dirigenza eurista (tedesca in particolare) di mostrare il ghigno di chi niente concede in vista delle elezioni dell'autunno prossimo in Germania.
Fin qui la partita sul "conto di Renzi", che se non altro ci parla una volta di più dell'irresponsabilità e dell'avventurismo del soggetto in questione. Ma c'è ovviamente qualcosa di più. E questo qualcosa di più si chiama euro.
Il fatto è che austerità, stagnazione, moneta unica e sopraffazione da parte dei padroni tedeschi sono tutte facce dello stesso problema.
In assenza di un'unica politica fiscale e di bilancio, l'euro non può reggere senza che si raggiunga almeno la convergenza dei debiti. Lo strumento all'uopo pensato è il fiscal compact. Ma il fiscal compact proprio non funziona, perché l'ulteriore scellerata austerità che richiederebbe fa a pugni con l'esigenza di provare almeno ad uscire dalla stagnazione. Tutto ciò è fin troppo evidente, e l'Unione Europea è ormai diventato il luogo dove si trattano i modi per svicolare alle regole che essa stessa si è data (la famosa "flessibilità"). Il problema è che gli interessi si fanno sempre più divergenti. Ad un blocco tedesco che punta alla disciplina di bilancio costi quel che costi, si contrappongono sempre più chiaramente gli interessi dei paesi dell'area mediterranea che questa disciplina non possono accettarla, pena la completa distruzione delle proprie economie.
In questo quadro il caso italiano è senza dubbio quello decisivo. E la risposta alla richiesta della nuova manovra da 3,4 miliardi sarà una sorta di cartina di tornasole su quel che bolle in pentola nel sempre più manifesto processo di disgregazione dell'Unione Europea.
Alla lettera ufficiale della Commissione arrivata ieri al Ministero dell'Economia (ma la notizia è nota da giorni) non c'è ancora risposta. Gentiloni avrebbe espresso un certo "disappunto", mentre Padoan ha detto che "la priorità rimane la crescita". E' chiaro come il governo proverà ad attenuare il problema, cercando di rimandare il tutto ad impegni più rigorosi nel DEF di aprile, senza quindi mettere ora mano (entro febbraio, sembrerebbe chiedere Bruxelles) ad un decreto legge con nuovi tagli e/o maggiori tasse.
Vedremo. Quel che è certo è lo smarrimento che si coglie nella classe dirigente italiana. E pensare che i due decimali di pil in questione sono pressoché niente rispetto ad altri tre problemi che si annunciano all'orizzonte: 1. gli interventi pubblici per fare fronte alla crisi bancaria (non c'è solo Mps); 2. il prossimo rapporto europeo sul debito, che potrebbe portare ad un'altra "procedura d'infrazione"; 3. l'enorme lascito della "clausola di salvaguardia" per il 2018, con in ballo (come già detto all'inizio) un aumento dell'IVA di 19,5 miliardi annui.
Insomma, se il "conto di Renzi" è arrivato, facendo definitivamente giustizia delle stupidaggini del Bomba, quello dell'euro —che il Paese paga da quando vi è entrato— sta giungendo alle sue conseguenze ultime e letali.
Il tempo stavolta stringe davvero: o la rapida uscita dalla gabbia europea; o il commissariamento sine die del nostro Paese, al servizio di quali interessi è cosa nota.
Chi ne è consapevole agisca di conseguenza.
Come volevasi dimostrare i nodi stanno venendo al pettine. Prima le banche, adesso la richiesta europea di una manovra correttiva da 3,4 miliardi. Poi arriverà il conto più grosso: rimanda, rimanda, non si sa bene come il governo vorrà disinnescare per il 2018 la "clausola di salvaguardia" sottoscritta con l'UE, la bellezza di 19,5 miliardi annui da ricavare da un maxi-aumento dell'IVA dal 22 al 25%.
Il recupero di due decimali di pil sul deficit 2017 (dal 2,4% previsto dal governo, al 2,2% chiesto dalla Commissione) a Bruxelles lo chiamano apertamente il "conto di Renzi". Un conto che gli eurocrati avevano lasciato in sospeso solo per favorire il "sì" al referendum. Poi, passata la festa (che peraltro per lorsignori festa non è stata), gabbato lo Santo. Ed il conto è arrivato.
Ora il governo fotocopia di Gentiloni non sa come venirne a capo. Dire troppo platealmente "signorsì" equivarrebbe ad una clamorosa figuraccia sia per l'attuale esecutivo che per quello precedente. Sarebbe come ammettere il trucchetto di aver abbellito la Legge di bilancio solo a scopo propagandistico. D'altra parte dire invece "signornò" non appare affatto più semplice. Primo, perché ci vorrebbe almeno un briciolo di quel coraggio che notoriamente chi non ce l'ha (guardate la faccia di Gentiloni e valutate...) non può darselo. Secondo, perché in quel caso a Bruxelles sembrano decisi ad avviare la cosiddetta "procedura d'infrazione", per poi arrivare magari ad una bella multa all'Italia.
Insomma, le furbate di Renzi, fatte di rinvii, clausole straordinarie, "riforme" vendute come miracolose, sgomitate per strappare qualche zerovirgola, sono davvero arrivate al capolinea. E questo per due motivi: all'interno la fragorosa sconfitta del disegno controriformatore sancita dal voto del 4 dicembre; all'esterno la necessità della dirigenza eurista (tedesca in particolare) di mostrare il ghigno di chi niente concede in vista delle elezioni dell'autunno prossimo in Germania.
Fin qui la partita sul "conto di Renzi", che se non altro ci parla una volta di più dell'irresponsabilità e dell'avventurismo del soggetto in questione. Ma c'è ovviamente qualcosa di più. E questo qualcosa di più si chiama euro.
Il fatto è che austerità, stagnazione, moneta unica e sopraffazione da parte dei padroni tedeschi sono tutte facce dello stesso problema.
In assenza di un'unica politica fiscale e di bilancio, l'euro non può reggere senza che si raggiunga almeno la convergenza dei debiti. Lo strumento all'uopo pensato è il fiscal compact. Ma il fiscal compact proprio non funziona, perché l'ulteriore scellerata austerità che richiederebbe fa a pugni con l'esigenza di provare almeno ad uscire dalla stagnazione. Tutto ciò è fin troppo evidente, e l'Unione Europea è ormai diventato il luogo dove si trattano i modi per svicolare alle regole che essa stessa si è data (la famosa "flessibilità"). Il problema è che gli interessi si fanno sempre più divergenti. Ad un blocco tedesco che punta alla disciplina di bilancio costi quel che costi, si contrappongono sempre più chiaramente gli interessi dei paesi dell'area mediterranea che questa disciplina non possono accettarla, pena la completa distruzione delle proprie economie.
In questo quadro il caso italiano è senza dubbio quello decisivo. E la risposta alla richiesta della nuova manovra da 3,4 miliardi sarà una sorta di cartina di tornasole su quel che bolle in pentola nel sempre più manifesto processo di disgregazione dell'Unione Europea.
Alla lettera ufficiale della Commissione arrivata ieri al Ministero dell'Economia (ma la notizia è nota da giorni) non c'è ancora risposta. Gentiloni avrebbe espresso un certo "disappunto", mentre Padoan ha detto che "la priorità rimane la crescita". E' chiaro come il governo proverà ad attenuare il problema, cercando di rimandare il tutto ad impegni più rigorosi nel DEF di aprile, senza quindi mettere ora mano (entro febbraio, sembrerebbe chiedere Bruxelles) ad un decreto legge con nuovi tagli e/o maggiori tasse.
Vedremo. Quel che è certo è lo smarrimento che si coglie nella classe dirigente italiana. E pensare che i due decimali di pil in questione sono pressoché niente rispetto ad altri tre problemi che si annunciano all'orizzonte: 1. gli interventi pubblici per fare fronte alla crisi bancaria (non c'è solo Mps); 2. il prossimo rapporto europeo sul debito, che potrebbe portare ad un'altra "procedura d'infrazione"; 3. l'enorme lascito della "clausola di salvaguardia" per il 2018, con in ballo (come già detto all'inizio) un aumento dell'IVA di 19,5 miliardi annui.
Insomma, se il "conto di Renzi" è arrivato, facendo definitivamente giustizia delle stupidaggini del Bomba, quello dell'euro —che il Paese paga da quando vi è entrato— sta giungendo alle sue conseguenze ultime e letali.
Il tempo stavolta stringe davvero: o la rapida uscita dalla gabbia europea; o il commissariamento sine die del nostro Paese, al servizio di quali interessi è cosa nota.
Chi ne è consapevole agisca di conseguenza.
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