Varsavia, dicembre inoltrato.
Altro che “dormitorio”! Il distretto
semiperiferico di Wilanów è zona residenziale di lusso: condomini nuovi di
zecca con giardini interni e caseggiati ancora in costruzione dominano ampi
viali, che si intersecano ad angolo retto. Il traffico è discreto, tutto tace.
Negli appartamenti il livello delle finiture è di prim’ordine: le maniglie che
ti restavano in mano e le porte refrattarie a chiudersi sono solamente un
ricordo, il ricordo di un’epoca aborrita e rimossa. Inutile puntualizzare che i
garage rigurgitano di BMW e suv orientali. Se poi dagli attici si scende in
strada, complice un ascensore rapidissimo, le sorprese continuano: i negozi
sono innumerevoli, quelli di specialità italiane espongono vini di nicchia (il
Pignolo e lo Schioppettino, due pregevoli friulani che è raro trovare a
Trieste!) e Sassicaia da 240 euro. C’è chi può permetterselo, evidentemente:
non certo un dipendente pubblico italiano in viaggio, che pure guadagna molto
di più del lavoratore polacco medio[1].
In questa Nowa Huta del regime capitalista
non mancano tuttavia le ombre: una è quella gigantesca del centro commerciale
(l’ennesimo) che sorgerà di fronte all’antica reggia di Jan Sobieski,
nascondendola alla vista. Sono in molti a storcere giustamente il naso, ma è un
segno dei tempi: ecco a voi la nuova “Europa” – quella delle lobby e della
libera circolazione dei capitali – che sommerge e divora la vecchia. Gli
stucchi del palazzo barocco, le effigi del grande sovrano circondato dai suoi
ministri e la memoria degli ussari alati non incutono alcun rispetto alla
plebaglia arricchita che misura ogni cosa col metro della produttività e del
profitto.
Cantieri ovunque insomma, come da noi 40-50 anni fa (e in Spagna
a fine secolo scorso), per il resto sembra di essere a casa: biondi ragazzini
si ingobbiscono sullo smartphone rischiando di incespicare mentre
camminano, donne vestite all’ultima moda sorseggiano un caffè al bar
all’angolo. Contro l’orizzonte di questa borghesissima Varsavia si staglia la
cupola fluorescente di un’immensa chiesa inaugurata nel 2014: mi par di
intendere che si tratti di una specie di ex voto, una preghiera un
tantino pretenziosa (ma tutt’altro che sgradevole alla vista) innalzata a un
Dio che, da parte sua, ha il gravoso compito di proteggere la Polonia dalle
brame russe. Visto che nei secoli trascorsi l’Altissimo si è spesso distratto,
i polacchi hanno pensato bene di offrire la corona regale al Figliolo, che per
il momento (a differenza di quanto avvenne nel deserto due millenni fa) non ha
rifiutato né accettato. Singolare però che i più devoti fra i cattolici abbiano
scelto, certo del tutto inconsciamente, di imitare il Nemico…
Il boom economico si appoggia
sull’edilizia, dunque – quella privata, perché per realizzare le infrastrutture
si aspettano i soldi di Bruxelles, da cambiare in sonanti zloty. Se non altro,
però, la Polonia non è più un Paese a segmenti: dalla capitale si irradiano
comode autostrade verso i quattro punti cardinali. Contrariamente alle
aspettative, non fa manco freddo: il termometro danza intorno allo zero, come
sul Carso, e i pochi fiocchi di neve si liquefano in una pioggia insistente e
fastidiosa.
Uno sguardo, per quanto attento, non basta
però a cogliere l’essenza di un Paese che muta velocemente: aiutano molto le
conversazioni con persone amiche e con altre che possono diventarlo. Bisogna
scendere sotto la superficie delle cose, scansare i giudizi stereotipati e le
frasi di rito: una ragazza intelligente, nata in giorni di instabilità politica
e sociale, ammette senza reticenze che il comunismo ha avuto parecchi meriti,
tra cui quello di aprire ai figli di contadini miserabili le porte delle
università. A sera discorro con un professore di scienze politiche, che traduce
il suo nome pieno di consonanti in un desueto Cristoforo: è stato addetto
culturale a Roma e si esprime in un italiano pressoché perfetto. Parliamo di
Garibaldi e di Craxi, dell’eterna ingerenza delle grandi potenze nella vita di
quelle piccole; alla fine la discussione (s)cade sul governo Renzi. Gli regalo
una copia del mio saggio, magari la leggerà.
L’incontro clou, organizzato per tempo, è
quello con i dirigenti di RAZEM (=Insieme), la nuova sinistra che
dichiaratamente s’ispira agli spagnoli di Podemos. Ho letto
un’intervista al suo leader, il quarantenne Zandberg: mi sono piaciuti alcuni
giudizi sferzanti sull’Unione Europea e sui postcomunisti, che anche qui come
in Italia si son dimostrati i più servili esecutori delle politiche neoliberiste;
confido in un proficuo scambio di idee. La sede del neonato partito è in
un’anonima via del centro di Varsavia, a poche decine di metri da quel
parlamento che in questa stessa settimana sarà lungamente assediato da una
folla di manifestanti ostili al PiS (il partito nazionalclericale al governo)
in nome della difesa della libertà di stampa. Un format di successo, e perciò
esportabile anche qui? L’impressione, a vedere le immagini in tv, è che i
cittadini siano convinti della giustezza della loro causa; con il PiS del
Kaczynski superstite, Jaroslaw, sta però la Polonia profonda, quella che
sopravvive in cittadine avvilite dall’incuria o trae sostentamento dai campi e
da lavori sottopagati.
Entriamo in quello che sembra un bivacco
alpino, non fosse per i computer accesi ovunque: regna un disordine “creativo”,
c’è persino un militante che – alle 2 del pomeriggio – si riposa in un sacco a
pelo. Tutti giovani, però, come in Spagna e in Slovenia: la nuova
sinistra europea ha un volto trentenne. Faccio un triste raffronto con le
nostre assemblee, popolate da ammirevoli vecchi compagni, poi mi dico che anche
SeL iniziò come questi qua, esibendo i ragazzini delle Fabbriche di Nichi –
sappiamo com’è andata a finire, grandi chiacchiere sui diritti civili e strameritata
irrilevanza. RAZEM, comunque, alle prime elezioni cui ha partecipato ha
raggiunto un lusinghiero 3,5%, sfiorando l’ingresso al Sejm: è un fenomeno che
merita attenzione e rispetto, insomma.
Ci accoglie Maciej Konieczny, il numero due
del partito. Ha radi capelli brizzolati e occhi vivaci: gli do qualche anno più
di me, pur immaginando che ne abbia di meno. Nel corso
dell’intervista/conversazione (ovviamente in inglese) sarà raggiunto da un
altro compagno, di nome Radosław, dall’eloquio scoppiettante e più vicino ai
venti che ai trenta. Com’è la situazione in Polonia? - esordisco. Konieczny si
premura di sfatare un mito: la Chiesa, pur potente, non domina affatto la
società polacca, anche se il governo cerca di ingraziarsela accordando
privilegi, proprietà ed esenzioni. Dinanzi alle esortazioni di Papa Francesco i
prelati fanno orecchie di mercante: dei rifugiati non si parla per nulla (la
popolazione in ogni caso non li vuole, sottolinea), i generici appelli alla
giustizia sociale non si traducono in una critica al neoliberismo “che non
si sente minacciato in Polonia”. Esiste ancora lo Stato sociale? – mi
informo. I due esponenti di RAZEM, alternandosi, precisano che la sanità
pubblica ancora esiste, ma è in costanti difficoltà finanziarie, per effetto dei
tagli a ripetizione (ne sappiamo qualcosa anche noi). Il problema vero è
l’assenza di sostegni ai disoccupati, cui si aggiunge l’invecchiamento della
popolazione (solita questione delle pensioni). Chi un lavoro ce l’ha non sta
granché meglio. I “contratti spazzatura” impazzano, condannando all’indigenza
milioni di persone, e i ritmi lavorativi sono davvero insostenibili: la media è
42-43 ore a settimana, soltanto i greci (ma non erano fannulloni?) se la
passano peggio. I sindacati[2],
poi, sono presenti solo nel pubblico impiego: il lavoratore privato che vi
aderisce rischia l’immediata perdita del lavoro grazie a riforme modellate sul Jobs
act renziano. E’ vero che il tasso di disoccupazione è contenuto? Certo,
rispondono, ma la componente-salari rispetto al GDP è percentualmente molto più
bassa che nell’Europa occidentale: siamo a livelli di sfruttamento paragonabili
a quelli di Russia o Messico. Il salario minimo esiste, ma 2.000 zloty (=476
euro ca.) lordi al mese sono sinonimo di miseria.
Perché stravince il PiS allora? Perché in
queste condizioni i suoi premi a chi fa figli ecc. rappresentano un “huge
benefit”, ammette Maciej. E gli altri partiti? Manca una sinistra (a parte
loro): gli ex comunisti del SLD sono nient’altro che una forza neoliberale ed
europeista, Piattaforma Civica (Tusk, oggi Schetyna: nome di cattivo augurio,
direi) si occupa a tempo perso di diritti civili. Hanno provato, quelli di
Platforma Obywatelska, a sostenere i diritti degli immigrati, ma vista
l’ostilità della popolazione hanno subito fatto marcia indietro. Oggidì le
opposizioni, indebolite, provano a creare un fronte comune: ne è espressione il
KOD che, in nome della lotta contro l’autoritarismo, mobilita la classe media
politicizzata in difesa dello status quo (sociale)[3].
Udito che il PiS mescola “un grande cambiamento di prospettiva con visioni
autoritarie”, domando provocatoriamente: chi è peggio, il PiS o PO? Per me
senz’altro PO, i miei interlocutori sono di opposto avviso (lo sospettavo):
Piattaforma è, se non altro, un movimento democratico.
A questo punto non resta che parlare di
Unione Europea: provo a esplicitare il mio punto di vista, che scoprirò non
essere il loro. Non condividono affatto quello che definiscono l’antieuropeismo
delle sinistre occidentali: per loro l’UE è ancora una “forza progressiva”,
anche se infettata dal neoliberismo, e in ogni caso è preferibile languire in
un’Europa (mal) dominata dai tedeschi che essere alla mercé, come Polonia, di
una Germania autonoma e di una Russia straripante. In ossequio alla logica del
“male minore”, esprimono preoccupazione per la Brexit e addirittura per
il trionfo del NO al referendum di dicembre: “non è stata una vittoria della
destra?”, mi chiedono. Ribatto con un secco no: la vera destra da temere in
Italia, oggi, è l’oligarchia che sta dietro le politiche (non solo) renziane,
non qualche sparuto drappello fascisteggiante.
In ogni caso l’agenda europea non ci piace,
ammettono, ma la UE “si può cambiare dall’interno”. “Come?”,
chiedo con una punta di ironia. Lottando per l’affermarsi di governi di
sinistra in tutta Europa… mi viene in mente una battuta di Abatantuono in
Mediterraneo, ma rinuncio a tradurla. Loro in ogni caso con il SLD rifiutano
qualsiasi contatto. Giusto, commento… ma a motivare la loro chiusura nei
confronti del partito ex comunista non è la sua adesione acritica al
neoliberismo, bensì il passato filo-sovietico. Come a dire: ci importa di
quello che eravate, non di quello che siete… Nessuno stupore, dunque, per il
fatto che la nostra lettura della crisi ucraina sia agli antipodi. Chi è più
deleterio per voi tra Putin e Soros?, provoco. La risposta è secca: Putin.
Secca, ma evidentemente sbagliata.
Tocca però considerare due aspetti. Il
primo è che per i polacchi la Russia è un vicino storicamente scomodo, una
minaccia incombente – anche se la loro mi pare una vera ossessione:
sembrano essere tutti convinti che il primo pensiero di Vladimir Putin, al
risveglio, sia come e quando invadere la Polonia. Il secondo è di ordine
geografico: come evidenziato da Paolo Rumiz nel suo Come cavalli che dormono
in piedi, il Paese affacciato sul Baltico è una sterminata pianura, priva a
oriente e a occidente di catene montuose che fungano da barriere naturali. Ecco
allora che affidarsi alla NATO (più che alla sua marionetta politica, la UE)
può apparire una scelta assennata. Non comprendono l’ovvio, che cioè la
presenza di truppe e missili americani al confine russo rappresenta non un
deterrente, bensì un’intollerabile provocazione, e nemmeno che gli Stati Uniti
perseguono esclusivamente i propri obiettivi, considerando la Polonia alla
stregua di una pedina (sacrificabile). “Ma è possibile un accomodamento con
la Russia?” Konieczny sorride senza allegria: sì, se ci si sottomette a
loro.
Ferma restando l’importanza delle
divergenze, colgo alcuni elementi positivi: la collaborazione con altre forze
europee dall’ispirazione simile (ad esempio la promettente Združena Levica
slovena di Luka Mesec) e la presenza capillare degli attivisti nelle piazze,
che ha favorito mobilitazioni come la Black protest delle donne polacche
contro la legge oscurantista sull’aborto. “A differenza del KOD noi ci
sforziamo di mobilitare gli esclusi”, assicura l’esponente di RAZEM, in
particolare le donne, “molto meno conservatrici degli uomini, qui in Polonia”.
D’altra parte – soggiunge, e ha l’aria di essere una frecciata – fare politica
consiste nel provare a cambiare il mondo, non nel limitarsi a interpretarlo
(Marx docet).
Ringrazio i compagni di RAZEM per la
disponibilità, e uscendo mi ripeto che la coscienza degli umani è il prodotto
delle loro condizioni materiali, non viceversa: è normale che il polacco,
circondato da potenze agguerrite, presti spasmodica attenzione alla propria
sicurezza nazionale, così come non mi risulta incomprensibile quest’allergia
all’autoritarismo, figlia di quarant’anni di regime e di un approdo molto più
recente del nostro alla “democrazia” (formale), che quassù – a differenza che
da noi - si è fin da subito presentata nei panni neoliberisti.
Varsavia non è più come ottant’anni fa
baricentrica rispetto al Paese: il temuto confine orientale è a meno di 200 km.
L’auto (a GPL) scivola su un’autostrada sgombra alla volta di Mielnik, che fu
città reale al tempo degli Jagelloni e – distrutta durante la guerra – si
presenta oggi coma un invitante paese di campagna, “colonizzato” da abitanti
della capitale che vi trascorrono le vacanze. Prima di giungere a destinazione,
facciamo una sosta in un’anonima cittadina, stretta intorno a una piazza
quadrata: presumo che la Polonia autentica assomigli molto di più a questo
borgo dalle poche attrattive che non agli sfavillanti quartieri della capitale.
Mielnik infine, mentre già annotta (con un’ora di anticipo
rispetto alle mie parti): le rovine di un castello e di una chiesa tardo
medievale; tantissime casette di legno costruite a incastro, vecchie e nuove
(queste ultime molto più spaziose delle prime). In una veniamo accolti dal
nostro ospite. Piotr non ha nulla del “villico”: ha studiato all’Università di
Mosca prima di rendersi conto che la sua passione per la fotografia poteva
diventare una professione di notevole successo. Ora è in pensione, e divide il
suo tempo tra Varsavia e questa bella regione orientale chiamata Podlaskie.
Familiarizzo subito con lui: parla un buon inglese, che
mantiene in esercizio traducendo in polacco libri di argomento bellico – il
fatto che sia appassionato di aerei da caccia me lo rende subito simpatico.
Inoltre non è affetto da russofobia, anzi: ride di gusto della leggenda
complottistica che vuole l’incidente aereo di Smolensk provocato da Putin, che
agli occhi della maggioranza dei polacchi è un Belzebù alquanto più cattivo. Se
proprio tocca evocare un demone, meglio l’ironico Voland de Il maestro e
Margherita – Bulgakov è tra gli scrittori preferiti di Piotr, ma ovunque
dagli scaffali spuntano titoli importanti.
L’indomani ci conduce nella vicina
Niemiròw, un incantevole paesello tutto in legno (a parte la chiesa): cammino
lungo strade innevate, ammirando l’immensità dei campi che risalgono placidi le
basse colline, respirando l’aria fresca dei boschi di conifere. Raggiungiamo la
frontiera bielorussa, dominio del diffamato (ma non da Piotr) Lukashenko: ai
nostri piedi il nastro argenteo del fiume Bug, che se non sbaglio è il
protagonista di un’indimenticabile pagina di Guerra e pace. C’è ancora tempo
per girare attorno a una chiesa ortodossa lignea, dipinta di azzurro, e per
visitare un monastero egualmente ortodosso: sono attratto dal gran numero di
croci, una delle quali fu portata da una nipote di Bulgakov a salvezza
dell’anima del celebre congiunto. Non ne aveva bisogno, penso, lo scrittore che
seppe descrivere con incomparabile umanità le angosce di Pilato. Cosa sono
queste croci? Ex voto, come la monumentale basilica di Kaczynski:
ringraziamenti a un Dio che in questo paesaggio incontaminato, rilassante
sospetto debba sentirsi più a suo agio che fra i grattacieli.
La sera ceniamo con alcuni artisti polacchi e – sorpresa! -
trovo persone con idee non troppo dissimili dalle mie. Una bionda signora di
mezza età sfoggia volentieri il suo italiano, appreso in quindici anni
trascorsi a Roma come governante: intona una canzone di Gino Paoli, ma poi
riconosce con passione l’irriformabilità dell’Unione Europea, negazione
dell’Europa stessa e meccanismo di sfruttamento ai danni di chi non appartiene
all’élite. Mentre ci versiamo una vòdka Piotr pronuncia alcune frasi che mi
restano impresse: “è vero, ai tempi del comunismo dovevo riconsegnare il mio
passaporto, ad ogni rientro in patria. Ma ero più libero allora, perché la mia
mente era libera. Adesso non è più così: il sistema condiziona le nostre menti,
ci insegna cosa pensare e desiderare. Vale soprattutto per i giovani, che
vogliono mantenere nell’ignoranza” – docili, e chini sui loro stupidi smartphone.
Un simposio, gente di ogni età che discute
e si accalora: a mio modesto avviso, l’Europa è anzitutto questo.
NOTE
[1]
Nelle industrie medie e grandi il salario
medio si aggira sui 4.200 zloty, pari a circa 1.000 euro (lordi) al mese.
[2]
Che raggruppano il 12% dei lavoratori.
[3]
C’è poi il partito della rockstar Kukiz,
“populista e contro la status quo”, cioè – come da noi – fustigatore
della partitocrazia e dei privilegi della “casta” politica…
3 commenti:
Posso fare un commento caustico e un pò sarcastico?
Ma Fragiacomo, che scrive che 42-43 ore settimanali sono ritmi da incubo (equivalenti a 8 ore e mezza al giorno) che lavoro fa? così per curiosità....
In Italia si lavora molto di più...almeno nel privato.
Resoconto interessante e di indubbia qualità letteraria. Nello De Bellis
Bah! L'articolo non mi convince, o comunque chi lo scrive non è uno di sinistra o si è dimenticato una parte della riflessione, quella sull'euro e l'unione europea. La Polonia è membro della Ue, ma non ha ancora adottato l'euro, e, stando ai sondaggi, non pare che la moneta nuova goda delle simpatie dei polacchi. Ad ogni modo, la Polonia si sta adeguando al sistema occidentale di vita, è in corso il boom economico e le cose sembrano prospere, ma la strada intrapresa non promette niente di buono, se non un momentaneo benessere per alcuni.
Mai è successo che ogni volta che mi sia recato in Polonia, non mi sia imbattutto in qualcuno che mi dicesse che stavano molto meglio quando stavano peggio...
Riccardo
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