[ 21 dicembre ]
Il significato profondamente politico dell’ultima riunione del Consiglio Direttivo della Banca Centrale Europea può essere compreso appieno solo se si inquadra questo evento, apparentemente tecnico, nel più ampio affresco della crisi europea. Draghi ha annunciato che l’autorità monetaria proseguirà il programma gli acquisto di titoli pubblici, come tutti si aspettavano, oltre la scadenza inizialmente prevista per il marzo prossimo, ma ha aggiunto un elemento di novità in cui pochi credevano: il flusso di liquidità con cui la banca centrale sta tenendo a bada gli spread inizierà a ridimensionarsi, già a partire da aprile. Ciò significa che la Bce prefigura, per la prima volta, un progressivo alleggerimento dello stimolo monetario garantito da ormai due anni all’eurozona. È così che, mentre politici e governanti europei vengono impietosamente travolti dall’onda anomala del populismo antisistema, l’autorità monetaria si profila come l’unica soggettività politica capace di elaborare una qualche forma di reazione della classe dirigente d’Europa. Come vedremo, i dettagli operativi della politica monetaria illustrati da Draghi vanno a comporre un vero proprio disegno politico: una stretta monetaria concepita per soffocare, in un inasprimento della crisi, quel moto di rifiuto della globalizzazione espresso dalle classi popolari impoverite.
La banca centrale ha appena annunciato un primo passo verso il ritiro dall’attività di sostegno ai titoli del debito pubblico portata avanti negli ultimi due anni. Questa decisione determinerà, nei prossimi mesi, una minore liquidità del debito pubblico europeo e non potrà che portare con sé un rialzo nei tassi di interesse pagati dai governi della periferia, a discapito della stabilità finanziaria. La Bce ha poi esteso il programma sia sul fronte delle scadenze, includendo titoli a più breve termine (fino ad un anno), che sul fronte dei tassi, rendendosi disponibile all’acquisto di titoli caratterizzati da un rendimento inferiore al già negativo tasso sui depositi presso la banca centrale. Il significato di queste rifiniture del quantitative easing appare chiaro: dal momento che la stragrande maggioranza dei titoli pubblici con rendimenti negativi è ascrivibile alla Germania, ed in particolare alle sue scadenze a breve termine, le modifiche apportate al programma di acquisti perseguono l’obiettivo di assicurare a Berlino una quota consistente della liquidità residua che arriverà nei prossimi mesi. Dunque, proprio mentre procede a ridurre la portata del suo supporto alla generalità dei debiti pubblici europei, l’autorità monetaria mette in chiaro che non sarà la Germania a soffrire di questa minore copertura. Al contrario, come i movimenti della borsa stanno segnalando in queste ore, si assiste già ad una contrazione del rendimento dei titoli tedeschi a fronte di un leggero rialzo di quelli italiani: si riaffaccia, in Europa, il fantasma dello spread, ovverosia l’ampliamente del divario tra il costo del debito pubblico dei paesi centrali e quello dei paesi periferici. Inizia così ad emergere, dal complesso intreccio delle specifiche tecniche della manovra di politica monetaria appena varata, un dato politico.
È bene ricordare che fu proprio sulla scia di un repentino ampliamento degli spread che, ad Atene nel lontano 2009, si è aperta per l’Europa la stagione dell’austerità, una fase storica caratterizzata dall’applicazione simultanea, nei principali paesi europei, del medesimo indirizzo politico: abbattimento dello stato sociale, contrazione dei diritti dei lavoratori e redistribuzione del reddito dai salari ai profitti. Un indirizzo politico che, a dispetto del suo marcato carattere antipopolare, non ha incontrato alcuna resistenza significativa per quasi cinque anni, grazie soprattutto al clima emergenziale imposto dai mercati attraverso la frusta dello spread. Tuttavia gli esiti socialmente disastrosi di questa violenta accelerazione della globalizzazione hanno fatto maturare un rifiuto dell’austerità e delle sue istituzioni, rifiuto che ha trovato espressione prima in Grecia, nell’estate 2015, dove l’ennesimo programma lacrime e sangue è stato rispedito (invano) al mittente, poi in Gran Bretagna un anno dopo, con la Brexit, ed infine in Italia, con la recente bocciatura della riforma costituzionale promossa dal governo. Dopo cinque lunghi anni di austerità, una borghesia impoverita ed un esercito di venti milioni di disoccupati hanno iniziato ad alzare la voce: approfittando dei tre grandi referendum popolari, queste vittime del neoliberismo europeo hanno inferto tre durissimi colpi al progetto di integrazione europea.
È esattamente a questo punto della storia che interviene la mossa decisa da Draghi giovedì scorso: la stretta monetaria programmata per i prossimi mesi si configura come la prima, violenta risposta delle élite europee alla marea antisistema che le sta minacciando. Si tratta di una reazione che rischia di compromettere la stabilità finanziaria dell’Europa, ma proprio su questo punto si misurerà l’intraprendenza della Bce. La stretta monetaria è pensata per aumentare il grado di esposizione dei governi alla disciplina dei mercati: tolta la protezione del quantitative easing, il debito pubblico dei paesi periferici tornerà ad essere pienamente vulnerabile ai venti della speculazione. Nei progetti dell’autorità monetaria, la pressione esercitata dai mercati attraverso gli spread può riuscire laddove le regole, da Maastricht al Fiscal Compact, hanno fallito: costringere la periferia d’Europa sulla strada delle riforme e dell’austerità senza ulteriori esitazioni, e dunque senza quella prudenza che l’avanzata dei populismi sembra suggerire alla classe politica europeista. Nel promuovere l’austerità attraverso la disciplina degli spread, Draghi si pone alla testa di quella classe politica e la trascina sul rischioso crinale dello scontro frontale con gli sconfitti della globalizzazione e le loro rivendicazioni. L’impatto potrebbe trascinare ancora più a fondo l’Europa. E tornano alla mente le parole di Guido Carli, storico governatore della banca centrale italiana mentre infuriavano gli anni di piombo: “La politica monetaria è uno strumento rozzo e chi lo brandisce non deve farsi prendere dal batticuore per lo sbraitare di chi ne subisce le ferite. Se non ha questa forza, è meglio che lo deponga.” Draghi non sembra affatto intenzionato a deporre le sue armi, e al contrario le affila per fronteggiare la minaccia del populismo.
Il significato profondamente politico dell’ultima riunione del Consiglio Direttivo della Banca Centrale Europea può essere compreso appieno solo se si inquadra questo evento, apparentemente tecnico, nel più ampio affresco della crisi europea. Draghi ha annunciato che l’autorità monetaria proseguirà il programma gli acquisto di titoli pubblici, come tutti si aspettavano, oltre la scadenza inizialmente prevista per il marzo prossimo, ma ha aggiunto un elemento di novità in cui pochi credevano: il flusso di liquidità con cui la banca centrale sta tenendo a bada gli spread inizierà a ridimensionarsi, già a partire da aprile. Ciò significa che la Bce prefigura, per la prima volta, un progressivo alleggerimento dello stimolo monetario garantito da ormai due anni all’eurozona. È così che, mentre politici e governanti europei vengono impietosamente travolti dall’onda anomala del populismo antisistema, l’autorità monetaria si profila come l’unica soggettività politica capace di elaborare una qualche forma di reazione della classe dirigente d’Europa. Come vedremo, i dettagli operativi della politica monetaria illustrati da Draghi vanno a comporre un vero proprio disegno politico: una stretta monetaria concepita per soffocare, in un inasprimento della crisi, quel moto di rifiuto della globalizzazione espresso dalle classi popolari impoverite.
La banca centrale ha appena annunciato un primo passo verso il ritiro dall’attività di sostegno ai titoli del debito pubblico portata avanti negli ultimi due anni. Questa decisione determinerà, nei prossimi mesi, una minore liquidità del debito pubblico europeo e non potrà che portare con sé un rialzo nei tassi di interesse pagati dai governi della periferia, a discapito della stabilità finanziaria. La Bce ha poi esteso il programma sia sul fronte delle scadenze, includendo titoli a più breve termine (fino ad un anno), che sul fronte dei tassi, rendendosi disponibile all’acquisto di titoli caratterizzati da un rendimento inferiore al già negativo tasso sui depositi presso la banca centrale. Il significato di queste rifiniture del quantitative easing appare chiaro: dal momento che la stragrande maggioranza dei titoli pubblici con rendimenti negativi è ascrivibile alla Germania, ed in particolare alle sue scadenze a breve termine, le modifiche apportate al programma di acquisti perseguono l’obiettivo di assicurare a Berlino una quota consistente della liquidità residua che arriverà nei prossimi mesi. Dunque, proprio mentre procede a ridurre la portata del suo supporto alla generalità dei debiti pubblici europei, l’autorità monetaria mette in chiaro che non sarà la Germania a soffrire di questa minore copertura. Al contrario, come i movimenti della borsa stanno segnalando in queste ore, si assiste già ad una contrazione del rendimento dei titoli tedeschi a fronte di un leggero rialzo di quelli italiani: si riaffaccia, in Europa, il fantasma dello spread, ovverosia l’ampliamente del divario tra il costo del debito pubblico dei paesi centrali e quello dei paesi periferici. Inizia così ad emergere, dal complesso intreccio delle specifiche tecniche della manovra di politica monetaria appena varata, un dato politico.
È bene ricordare che fu proprio sulla scia di un repentino ampliamento degli spread che, ad Atene nel lontano 2009, si è aperta per l’Europa la stagione dell’austerità, una fase storica caratterizzata dall’applicazione simultanea, nei principali paesi europei, del medesimo indirizzo politico: abbattimento dello stato sociale, contrazione dei diritti dei lavoratori e redistribuzione del reddito dai salari ai profitti. Un indirizzo politico che, a dispetto del suo marcato carattere antipopolare, non ha incontrato alcuna resistenza significativa per quasi cinque anni, grazie soprattutto al clima emergenziale imposto dai mercati attraverso la frusta dello spread. Tuttavia gli esiti socialmente disastrosi di questa violenta accelerazione della globalizzazione hanno fatto maturare un rifiuto dell’austerità e delle sue istituzioni, rifiuto che ha trovato espressione prima in Grecia, nell’estate 2015, dove l’ennesimo programma lacrime e sangue è stato rispedito (invano) al mittente, poi in Gran Bretagna un anno dopo, con la Brexit, ed infine in Italia, con la recente bocciatura della riforma costituzionale promossa dal governo. Dopo cinque lunghi anni di austerità, una borghesia impoverita ed un esercito di venti milioni di disoccupati hanno iniziato ad alzare la voce: approfittando dei tre grandi referendum popolari, queste vittime del neoliberismo europeo hanno inferto tre durissimi colpi al progetto di integrazione europea.
È esattamente a questo punto della storia che interviene la mossa decisa da Draghi giovedì scorso: la stretta monetaria programmata per i prossimi mesi si configura come la prima, violenta risposta delle élite europee alla marea antisistema che le sta minacciando. Si tratta di una reazione che rischia di compromettere la stabilità finanziaria dell’Europa, ma proprio su questo punto si misurerà l’intraprendenza della Bce. La stretta monetaria è pensata per aumentare il grado di esposizione dei governi alla disciplina dei mercati: tolta la protezione del quantitative easing, il debito pubblico dei paesi periferici tornerà ad essere pienamente vulnerabile ai venti della speculazione. Nei progetti dell’autorità monetaria, la pressione esercitata dai mercati attraverso gli spread può riuscire laddove le regole, da Maastricht al Fiscal Compact, hanno fallito: costringere la periferia d’Europa sulla strada delle riforme e dell’austerità senza ulteriori esitazioni, e dunque senza quella prudenza che l’avanzata dei populismi sembra suggerire alla classe politica europeista. Nel promuovere l’austerità attraverso la disciplina degli spread, Draghi si pone alla testa di quella classe politica e la trascina sul rischioso crinale dello scontro frontale con gli sconfitti della globalizzazione e le loro rivendicazioni. L’impatto potrebbe trascinare ancora più a fondo l’Europa. E tornano alla mente le parole di Guido Carli, storico governatore della banca centrale italiana mentre infuriavano gli anni di piombo: “La politica monetaria è uno strumento rozzo e chi lo brandisce non deve farsi prendere dal batticuore per lo sbraitare di chi ne subisce le ferite. Se non ha questa forza, è meglio che lo deponga.” Draghi non sembra affatto intenzionato a deporre le sue armi, e al contrario le affila per fronteggiare la minaccia del populismo.
* Fonte: Micromega
3 commenti:
Lungi da me qualunque intenzione di difendere l'operato di Draghi, tuttavia la motivazione principale delle ultime mosse ritengo non sia quella descritta sopra.
La situazione è molto semplice: gli USA iniziano ad alzare i tassi, dopo un periodo straordinariamente lungo di politiche monetarie più che accomodanti, e l'euro non può permettersi di rimanere troppo indietro, anche se la situazione economica è tutt'altro che migliorata, come invece negli USA pronti ad un trumpismo, tutt'altro che nuovo se pensiamo all'epoca di Reagan.
Certo, la scelta di agevolare la Germania esiste, ma è il necessario tributo al compromesso col socio di maggioranza.
La scommessa sulla ripresa dell'economia non è mai stata così rischiosa, ma del resto i timonieri delle BC occidentali non hanno mai navigato in acque tanto inesplorate come quelle post-Lehman. La posta in gioco è la sopravvivenza di un sistema monetario globale e al tempo stesso insostenibile. Brutta faccenda, o meravigliosa, dipende dai punti di vista.
mcromega di economia capisce una sega.
molto semplicemente draghi è all'angolo e se vuole tenersi la poltrona deve rialzare i tassi (come vuole berlino e il pensionato tedesco e i suoi bund deprezzati, poverino).
il rialzo comporterà nuove tasse (perchè in italia non si farà nessuna riforma cioè nessun taglio agli sprechi tipo la tav che costa 3 volte di più al km rispetto al lato francese o i privilegi degli statali che non vengono licenziati neppure se stuprano una bambina di 3 anni durante il servizio) e questo darà forza ai populisti. ammesso e non concesso ci siano in italia ma ne dubito purtroppo.
sicuramente ne gioverà alba dorata il partito che difende gli interessi dei greci.
Alberto, la chiave non è economica (come sempre).
Il problema fondamentale dei prossimi anni, di cui sapremo entro i prossimi mesi, è: Trump ha davvero deciso che un mondo multipolare è insostenibile per gli USA e quindi di rimodulare le alleanze favorendo le relazioni con la Russia (in un secondo tempo con la Cina) mettendo in secondo piano la UE?
Se sarà così le tensioni geopolitiche si allenteranno ma l'eurozona come è adesso cadrà; nel caso contrario invece resisterà ancora a lungo ma la situazione geopolitica diventerà sempre più instabile.
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