[ 22 dicembre ]
Il “politico” come amico-nemico
Un nostro stimato lettore, commentando l'incontro di Bologna, pur "condividendo quasi tutto" del mio intervento, si sofferma e critica questo passaggio:
«Populismo, per quanto ci riguarda populismo socialista, è quindi l’incontro tra una visione radicale ed una pratica politica di massa. E’ anzitutto l’identificazione di un nemico, su cui concentrare l’odio sociale e contro il quale si chiama alla lotta per annientarlo».
E scrive:
«L'unica cosa sulla quale sto riflettendo è l'argomento identitario che passerebbe anche dall'identificazione di un nemico da annientare. (...) No, su questo (enfasi del "nemico") non sono d'accordo, di più, sarebbe un autogol. Attaccare è sempre più dispersivo che difendersi, come a Risiko. Il mio riferimento su questo viene da oriente, più che a Gandhi penso ad Aurobindo e alla sua insostenibile leggerezza di una rivoluzione tranquilla, che attinge alla consapevolezza dell'ingiustizia che si sta consumando, che fa collassare dall'interno una costruzione ideologico/esistenziale fondata sul tradimento di un principio di umanità, che non può che richiedere molta più energia di quanta soldi e potere possano dare».
Profondo è il mio rispetto per asceti e mistici, quelli cristiani anzitutto (per lo più comunisticamente ispirati). Non mi convince per niente la visione del mondo propria di gran parte del misticismo deista orientale e induista, tantomeno quella di Sri Aurobindo, che concepisce l'ascesi, contrariamente a Gandhi, come una modalità quietista di far pace con la mostruosa modernità capitalistica. Ma qui andremmo lontano...
E' del grande filosofo del diritto Carl Schmitt [nella foto sopra] questo porre la categoria "amico/nemico" e del "partigiano" a vero e proprio paradigma fondativo del POLITICO. Non sono certo io a scoprirne l'importanza —tanto per dire era, esso il pensiero di Schmitt venne riguadagnato da certo pensiero politico di sinistra italiano negli anni '70, Mario Tronti in primis, che si spinse, proprio sulla scia di Schmitt, a postulare la "autonomia del politico". La questione —che oltre a toccare vari e rilevanti aspetti di teoria politica mette in discussione certo economicismo marxista, non si può risolvere nello spazio di due pagine. Intanto suggerisco la lettura di questa scheda del Professor Carlo Galli (parlamentare passato dal Pd a Sinistra italiana) non senza consigliare di ascoltare questa prolusione —dove tra le altre cose Galli segnala il debito che, via Costantino Mortati, la Costituzione italiana deve proprio a Carl Schmitt, poiché essa "è, contrariamente a quelle liberali, Costituzione politica perché nasce contro un nemico".
Moreno Pasquinelli
Il “politico” come amico-nemico
Carl Schmitt è da maneggiare con cura. Ma, depurato del suo aspetto reazionario, è un maestro di realismo politico e uno specchio dello scollamento delle istituzioni liberaldemocratiche
di Carlo Galli
Der Begriff des Politischen (1932) del giurista Carl Schmitt (1888-1985) è un testo celeberrimo, benché non il più importante scientificamente, nella vasta produzione dell’autore. Biblioteche intere, in ogni parte del mondo, sono state scritte su questo libretto e in generale su Schmitt, che negli ultimi trent’anni è diventato un classico, per impulso soprattutto della cultura italiana, che per prima ha rotto l’ostracismo in cui Schmitt era incappato, dopo la seconda guerra mondiale, in virtù della sua adesione al nazismo.
La prestazione scientifica fondamentale di Schmitt è la sua scoperta della materia incandescente del “politico”, inteso come rapporto amico/nemico, cioè come conflitto mortale (non quindi come confronto, concorrenza, divergenza) che può manifestarsi ovunque, in qualsivoglia ambito e per qualsivoglia motivo. Il “politico” non è un ambito, ma anzi è la negazione di ogni architettura teorica e pratica che pretenda di essere chiusa al rischio e alla morte. E proprio per questa sua non-confinabilità il politico è “autonomo”, ovvero non trae le proprie regole dall’esterno, ma anzi è capace di imporre la propria presenza destrutturante ovunque. Il che significa che nessun terreno è solido, neppure la “politica”, della quale anzi il “politico” è la negazione; se per “politica” si intende la costruzione razionale e corale di un ordine dell’umana convivenza, il “politico” significa che non è possibile, in linea di principio, edificare ordini politici su salde fondamenta pienamente controllabili dalla ragione.
Il “politico” è un principio d’indeterminazione che agisce come s-fondamento di ogni umana esperienza organizzata, è la manifestazione della sua non-razionalizzabilità, della sua apertura sul Nulla. Ogni ordine, ogni norma, è sospesa, in bilico, sulla eccezione; e può esistere solo accettando questa come propria origine, e come propria possibile fine. L’unità politica può nascere – e ne è minacciata – solo dalla potenza selvaggia della dualità, del conflitto mortale, che è quindi strutturante proprio mentre è destrutturante (e viceversa).
Schmitt giunge a questa teoria della sconnessione di principio fra ragione e esperienza attraverso percorsi che incrociano la cultura reazionaria cattolica con la riflessione giuridica sulla decisione e sulla crisi novecentesca dello Stato di diritto. Il suo antiliberalismo e il suo anti-individualismo sono evidenti: la politica non può essere lo spazio giuridico neutrale in cui un soggetto razionale gode i propri diritti. Diverso è invece il suo rapporto con la democrazia non liberale: per lui, il popolo è il portatore dell’energia polemica del “politico”, che si manifesta nella decisione fondamentale di abbattere un ordine e di instaurarne uno nuovo, il quale sarà tanto più energico ed efficace quanto più ricorderà la propria origine conflittuale, e non sarà quindi neutrale ma anzi orientato dalla inimicizia originaria.
Ostile a ogni pretesa di superare il conflitto in un ordine razionale, Schmitt è quindi aspro avversario non solo della “politica” liberale (e soprattutto del parlamentarismo) ma anche delle “politiche” dei tecnocrati e degli economisti; una politica che pretenda di sottrarsi al “politico” è o ipocrita mistificazione o penosa illusione. Nello smascherare la compiaciuta neutralità della politica borghese, Schmitt assume una postura alternativa anche al marxismo: alla contraddizione dialettica, come motore autentico della politica, egli sostituisce il conflitto, la negazione semplice; e alla rivoluzione la guerra civile.
Per la vastità, la radicalità, la complessità della sua prestazione, nel pensiero politico contemporaneo Schmitt circola abbondantemente, non senza polemiche (dovute al suo passato nazista e in generale alla radice non razionalistica del suo pensiero). Oggi, depurato del suo lato reazionario, è sia maestro di realismo politico nello spazio internazionale sia portatore di concetti e di categorie che possono decifrare lo scollamento fra le istituzioni liberaldemocratiche e la politica conflittuale che le sfida. Non è un pensatore democratico nell’accezione corrente del termine, ma la democrazia deve conoscerlo perché il mondo non è democratico, come spesso si vede non solo nei conflitti di civiltà ma anche nei conflitti civili. Pensatore da maneggiare con cura, quindi, e da non usare come passepartout, ma nemmeno da respingere a scatola chiusa: ciò che Schmitt ha scoperto vale per tutti, che ci piaccia o no».
La prestazione scientifica fondamentale di Schmitt è la sua scoperta della materia incandescente del “politico”, inteso come rapporto amico/nemico, cioè come conflitto mortale (non quindi come confronto, concorrenza, divergenza) che può manifestarsi ovunque, in qualsivoglia ambito e per qualsivoglia motivo. Il “politico” non è un ambito, ma anzi è la negazione di ogni architettura teorica e pratica che pretenda di essere chiusa al rischio e alla morte. E proprio per questa sua non-confinabilità il politico è “autonomo”, ovvero non trae le proprie regole dall’esterno, ma anzi è capace di imporre la propria presenza destrutturante ovunque. Il che significa che nessun terreno è solido, neppure la “politica”, della quale anzi il “politico” è la negazione; se per “politica” si intende la costruzione razionale e corale di un ordine dell’umana convivenza, il “politico” significa che non è possibile, in linea di principio, edificare ordini politici su salde fondamenta pienamente controllabili dalla ragione.
Il “politico” è un principio d’indeterminazione che agisce come s-fondamento di ogni umana esperienza organizzata, è la manifestazione della sua non-razionalizzabilità, della sua apertura sul Nulla. Ogni ordine, ogni norma, è sospesa, in bilico, sulla eccezione; e può esistere solo accettando questa come propria origine, e come propria possibile fine. L’unità politica può nascere – e ne è minacciata – solo dalla potenza selvaggia della dualità, del conflitto mortale, che è quindi strutturante proprio mentre è destrutturante (e viceversa).
Schmitt giunge a questa teoria della sconnessione di principio fra ragione e esperienza attraverso percorsi che incrociano la cultura reazionaria cattolica con la riflessione giuridica sulla decisione e sulla crisi novecentesca dello Stato di diritto. Il suo antiliberalismo e il suo anti-individualismo sono evidenti: la politica non può essere lo spazio giuridico neutrale in cui un soggetto razionale gode i propri diritti. Diverso è invece il suo rapporto con la democrazia non liberale: per lui, il popolo è il portatore dell’energia polemica del “politico”, che si manifesta nella decisione fondamentale di abbattere un ordine e di instaurarne uno nuovo, il quale sarà tanto più energico ed efficace quanto più ricorderà la propria origine conflittuale, e non sarà quindi neutrale ma anzi orientato dalla inimicizia originaria.
Ostile a ogni pretesa di superare il conflitto in un ordine razionale, Schmitt è quindi aspro avversario non solo della “politica” liberale (e soprattutto del parlamentarismo) ma anche delle “politiche” dei tecnocrati e degli economisti; una politica che pretenda di sottrarsi al “politico” è o ipocrita mistificazione o penosa illusione. Nello smascherare la compiaciuta neutralità della politica borghese, Schmitt assume una postura alternativa anche al marxismo: alla contraddizione dialettica, come motore autentico della politica, egli sostituisce il conflitto, la negazione semplice; e alla rivoluzione la guerra civile.
Per la vastità, la radicalità, la complessità della sua prestazione, nel pensiero politico contemporaneo Schmitt circola abbondantemente, non senza polemiche (dovute al suo passato nazista e in generale alla radice non razionalistica del suo pensiero). Oggi, depurato del suo lato reazionario, è sia maestro di realismo politico nello spazio internazionale sia portatore di concetti e di categorie che possono decifrare lo scollamento fra le istituzioni liberaldemocratiche e la politica conflittuale che le sfida. Non è un pensatore democratico nell’accezione corrente del termine, ma la democrazia deve conoscerlo perché il mondo non è democratico, come spesso si vede non solo nei conflitti di civiltà ma anche nei conflitti civili. Pensatore da maneggiare con cura, quindi, e da non usare come passepartout, ma nemmeno da respingere a scatola chiusa: ciò che Schmitt ha scoperto vale per tutti, che ci piaccia o no».
Fonte: EUROPA, 17 settembre 2013
3 commenti:
Grazie. A pelle l'ontologia politica di Schmitt appare un dispositivo nichilista, non nel senso del metodo nicciano di trasvalutazione applicato a falsi valori (cristiani) con l'intento di farne emergere altri e più autentici (buddismo), ma nel senso di annichilire.
Un esito abbastanza prevedibile l'adesione al nazismo di C.S. se nel dedicarsi a quel dispositivo oltre ai falsi valori cristiani si nutre del pessimismo antropologico mutuato da Hobbes (uomo-lupo) e Heidegger (esserci per la morte).
Per me ogni dispositivo o modello intellettuale con il quale guardiamo il mondo, consapevoli o meno di farlo, incontra un momento veritativo più profondo della coerenza intellettuale del modello in sé (autoreferenzialità) ma in quello che accade nel momento della prassi, esempio: sono assolutamento convito della dannosità sociale delle suocere, che andrebbero annientate; ma nel momento dell'azione incontro la resistenza (esistenziale) nello sguardo dei nipoti.
Per me non c'è nessuno stato d'eccezione (di nuovo, autoreferenziale) che giustifichi i campi di concentramento di Polpot o di Mengele, nessuna autorità legittimata a nascondere la sindrome di morte da cui è afflitta con astratti interessi statuali.
Almeno finché, in alternativa, sarebbe disponibile ispirare l'azione politico-etica alla autorevolezza di un Maestro, compiutamente umano. (vado avanti con il video e approfondimento).
francesco
Caro Francesco,
l'etica del partigiano, il paradigma amico/nemico, non giustifica l'abominio politico. Su questo siamo certo d'accordo. In fondo C. Schmitt non fa che trasporre su un piano metafisico il concetto di lotta di classe di Marx. Anzi, qui lo dico e non lo nego: Schmitt cava la sua idea dall'osservazione della rivoluzione bolscevica e dalla conseguente guerra civile...
Bravi, vedo che alla fine ci siete arrivati (intendo sia all'odio che a Schmitt)
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