[ 9 giugno ]
«Finalmente è emerso il problema del fossato che divide l’elettore delle periferie popolari da quello del centro del ceto medio.
Il problema è la perdita dell’elettore che vive in periferia da parte delle forze politiche, un tempo sue legittime voci. In periferie abitano disoccupati e precari, italiani e immigrati. Gli italiani sopravvivono perché le loro mogli, sorelle, donne vanno al centro a fare “i servizi”. I non italiani sono prontissimi a fare qualsiasi lavoro a qualsiasi salario. Sono “crumiri” involontari, odiati dai disoccupati che sentono la loro concorrenza come una prepotenza da cui nessuno li difende. E anzi: dalla Caritas sino alla gran maggioranza dei mass media, il lavoratore immigrato viene legittimamente considerato come una risorsa economica, demografica, culturale, ecc.
Il disoccupato italiano (e l’edile romano) vive una solitudine sociale e politica senza luoghi e esseri umani cui rivolgersi. Nelle sedi del sindacato e nelle sezioni dei partiti non mette più piede perché non è interessato ai diritti degli omosessuali e all’utero in affitto, le questioni su cui solitamente lì si discute. Le “sue” questioni riguardano i suoi bisogni, il lavoro, la casa, i trasporti.
All’origine del declino delle forze politiche vi è la transizione – culturale prima che politica – dai bisogni delle periferie popolari ai diritti del ceto medio progressista.
Quando e perché vi è stata la transizione potrebbe essere oggetto di una disamina tra i lettori del manifesto.
Il mio contributo è una testimonianza su come era lo stato delle cose prima della transizione, ormai tantissimo tempo fa. Negli anni sessanta/settanta del Novecento andavamo “a fare politica” nei cantieri edili e nelle borgate, eravamo tutti studenti, tutti con la ferma intenzione di dare la carica giusta al sindacato e al partito. Fare politica con gli edili significava dare battaglia perché si attivassero con la Camera del Lavoro (di Angelo Fredda) per avere il delegato di base nel cantiere.
Fare politica dinanzi alla Fatme e alla Fiorentini, le due fabbriche più importanti, significava più tessere per la Cgil, sempre discriminata, e mettere il naso nelle sezioni del Pci dove erano iscritti gli operai perché mandassero via i vecchi funzionari e eleggessero un segretario operaio.
Quando tutto ciò finì: quelle fabbriche chiusero e nei cantieri edili i ‘capoccetta’ non ci fecero più mettere piede, abbiamo avuto molto tempo per prenderci in giro su quel nostro “fare politica”. Una cosa però allora era chiara: il nostro operaismo si scontrava con l’altro, quello ufficiale proprio nelle periferie che frequentavamo.
Dove si respirava un clima culturale di legittimazione della politica che adesso sembra un sogno, non una realtà vissuta. Quando a Tiburtino terzo ci vedevano scendere dal bus, mettevano sul giradischi Bandiera Rossa, e non Bella Ciao.
Eravamo andati a trovarli sin lì, a chiacchierare del sindacato, del partito, e ci festeggiavano inconsapevoli oppure indifferenti del fatto che per il sindacato e per il partito di Roma, quei quattro studenti erano presenze non gradite.
La mia testimonianza consiste nella certificazione diretta che in periferia edili e operai, partito e sindacato stavano da una parte e dall’altra c’era il potere con la P maiuscola, la polizia che menava alle manifestazioni, la democrazia cristiana che si faceva viva solo al momento del voto, e c’erano i padroni che non volevano il sindacato e discriminavano i comunisti. Nessuno dubitava che le parti erano due e anche le forze politiche, l’una contro l’altra. Una rappresentava i bisogni del lavoro, l’altra gli interessi di chi comprava il lavoro. E intendeva comprarlo al minor prezzo possibile e alle migliori condizioni di utilizzo. Lo scontro tra le due rappresentanze sociali era nell’aria che si respirava.
E sul suo esito, vale a dire sulla fine dello scontro che bisognerebbe fare chiarezza. Sinora si sono assunte per oggettive le motivazioni di chi ha vinto lo scontro. E cioè il progresso tecnologico ha emarginato l’operaio di mestiere, la globalizzazione ha da un lato inondato il mercato di beni di largo consumo a prezzi concorrenziali e dall’altro ha fatto arrivare da luoghi lontani lavoratori oggettivamente crumiri.
E dunque lo scontro era impari e non lo si è affrontato.
Si è invece passati dai bisogni ai diritti. Dopo tutto i diritti sono universali e di conseguenza riguardano anche gli uomini del lavoro.
La centralità dei diritti rispetto ai bisogni è stata la scelta che ha messo le periferie popolari contro le forze politiche che sino allora le avevano tradizionalmente rappresentate. Si tratta di una scelta culturale e sociale che ha cambiato il paese.
E’ un cambiamento di cui vorrei dare ancora una volta una testimonianza diretta.
Pochi anni fa mi trovavo in un paesino toscano dove prima il Pci (e poi le sigle che diversamente lo hanno denominato) prendeva alle elezioni la maggioranza dei voti. C’era la festa dell’Unità e gli organizzatori avevano promesso di proiettare un film.
I presenti erano quasi tutti mezzadri, operai agricoli con mogli e figli. Arrivarono due ragazzi con il proiettore e la pizza del film. Silenzio e sullo schermo invece di Novecento di Bertolucci o di Rocco e i suoi fratelli di Visconti, appaiono i titoli de L’attimo fuggente, la storia di un liceo privato conservatore americano e di un giovane professore progressista.
Dopo un po’ mi voltai per osservare la reazione dei mezzadri: era stata più drastica che mai, se ne erano andati via. Spariti come i voti delle periferie popolari».
Il problema è la perdita dell’elettore che vive in periferia da parte delle forze politiche, un tempo sue legittime voci. In periferie abitano disoccupati e precari, italiani e immigrati. Gli italiani sopravvivono perché le loro mogli, sorelle, donne vanno al centro a fare “i servizi”. I non italiani sono prontissimi a fare qualsiasi lavoro a qualsiasi salario. Sono “crumiri” involontari, odiati dai disoccupati che sentono la loro concorrenza come una prepotenza da cui nessuno li difende. E anzi: dalla Caritas sino alla gran maggioranza dei mass media, il lavoratore immigrato viene legittimamente considerato come una risorsa economica, demografica, culturale, ecc.
Il disoccupato italiano (e l’edile romano) vive una solitudine sociale e politica senza luoghi e esseri umani cui rivolgersi. Nelle sedi del sindacato e nelle sezioni dei partiti non mette più piede perché non è interessato ai diritti degli omosessuali e all’utero in affitto, le questioni su cui solitamente lì si discute. Le “sue” questioni riguardano i suoi bisogni, il lavoro, la casa, i trasporti.
All’origine del declino delle forze politiche vi è la transizione – culturale prima che politica – dai bisogni delle periferie popolari ai diritti del ceto medio progressista.
Quando e perché vi è stata la transizione potrebbe essere oggetto di una disamina tra i lettori del manifesto.
Il mio contributo è una testimonianza su come era lo stato delle cose prima della transizione, ormai tantissimo tempo fa. Negli anni sessanta/settanta del Novecento andavamo “a fare politica” nei cantieri edili e nelle borgate, eravamo tutti studenti, tutti con la ferma intenzione di dare la carica giusta al sindacato e al partito. Fare politica con gli edili significava dare battaglia perché si attivassero con la Camera del Lavoro (di Angelo Fredda) per avere il delegato di base nel cantiere.
Fare politica dinanzi alla Fatme e alla Fiorentini, le due fabbriche più importanti, significava più tessere per la Cgil, sempre discriminata, e mettere il naso nelle sezioni del Pci dove erano iscritti gli operai perché mandassero via i vecchi funzionari e eleggessero un segretario operaio.
Quando tutto ciò finì: quelle fabbriche chiusero e nei cantieri edili i ‘capoccetta’ non ci fecero più mettere piede, abbiamo avuto molto tempo per prenderci in giro su quel nostro “fare politica”. Una cosa però allora era chiara: il nostro operaismo si scontrava con l’altro, quello ufficiale proprio nelle periferie che frequentavamo.
Dove si respirava un clima culturale di legittimazione della politica che adesso sembra un sogno, non una realtà vissuta. Quando a Tiburtino terzo ci vedevano scendere dal bus, mettevano sul giradischi Bandiera Rossa, e non Bella Ciao.
Eravamo andati a trovarli sin lì, a chiacchierare del sindacato, del partito, e ci festeggiavano inconsapevoli oppure indifferenti del fatto che per il sindacato e per il partito di Roma, quei quattro studenti erano presenze non gradite.
La mia testimonianza consiste nella certificazione diretta che in periferia edili e operai, partito e sindacato stavano da una parte e dall’altra c’era il potere con la P maiuscola, la polizia che menava alle manifestazioni, la democrazia cristiana che si faceva viva solo al momento del voto, e c’erano i padroni che non volevano il sindacato e discriminavano i comunisti. Nessuno dubitava che le parti erano due e anche le forze politiche, l’una contro l’altra. Una rappresentava i bisogni del lavoro, l’altra gli interessi di chi comprava il lavoro. E intendeva comprarlo al minor prezzo possibile e alle migliori condizioni di utilizzo. Lo scontro tra le due rappresentanze sociali era nell’aria che si respirava.
E sul suo esito, vale a dire sulla fine dello scontro che bisognerebbe fare chiarezza. Sinora si sono assunte per oggettive le motivazioni di chi ha vinto lo scontro. E cioè il progresso tecnologico ha emarginato l’operaio di mestiere, la globalizzazione ha da un lato inondato il mercato di beni di largo consumo a prezzi concorrenziali e dall’altro ha fatto arrivare da luoghi lontani lavoratori oggettivamente crumiri.
E dunque lo scontro era impari e non lo si è affrontato.
Si è invece passati dai bisogni ai diritti. Dopo tutto i diritti sono universali e di conseguenza riguardano anche gli uomini del lavoro.
La centralità dei diritti rispetto ai bisogni è stata la scelta che ha messo le periferie popolari contro le forze politiche che sino allora le avevano tradizionalmente rappresentate. Si tratta di una scelta culturale e sociale che ha cambiato il paese.
E’ un cambiamento di cui vorrei dare ancora una volta una testimonianza diretta.
Pochi anni fa mi trovavo in un paesino toscano dove prima il Pci (e poi le sigle che diversamente lo hanno denominato) prendeva alle elezioni la maggioranza dei voti. C’era la festa dell’Unità e gli organizzatori avevano promesso di proiettare un film.
I presenti erano quasi tutti mezzadri, operai agricoli con mogli e figli. Arrivarono due ragazzi con il proiettore e la pizza del film. Silenzio e sullo schermo invece di Novecento di Bertolucci o di Rocco e i suoi fratelli di Visconti, appaiono i titoli de L’attimo fuggente, la storia di un liceo privato conservatore americano e di un giovane professore progressista.
Dopo un po’ mi voltai per osservare la reazione dei mezzadri: era stata più drastica che mai, se ne erano andati via. Spariti come i voti delle periferie popolari».
* Fonte: il manifesto del 7 giugno 2016
6 commenti:
Tra i tanti commenti alle recenti elezioni comunali pubblicati da questo blog,di cui addirittura 3 dedicati a un fenomeno marginale come casapound, non avete speso una parola per commentare un esperimento a mio avviso molto interessante come il successo del populismo "bolivariano" di De Magistis. Come mai? Sarebbe interessante un vostro commento articolato sul caso Napoli.
Fa un po'rabbia leggere un articolo come questo.
Chiunque abbia lavorato e abbia viaggiato abbastanza per il mondo - specialmente il terzo - negli anni settanta, ottanta e prima metà dei novanta ("chiunque" con occhi per vedere e veramente interessato a capire) sapeva PERFETTAMENTE che tutto quel fermento politico di cui parla Rita di Leo, tutta quella atmosfera di "chiarezza" sui bisogni, sul nemico e su ciò che doveva essere fatto; ma soprattutto, quei risultati straordinari che i lavoratori erano riusciti a conquistarsi con lotte eroiche condotte con grande spirito di sacrificio in nome di ideali altissimi, venivano da una e una sola fonte: IL TRASFERIMENTO NEL TERZO MONDO DELLE CONTRADDIZIONI POLITICHE, ECONOMICHE E SOCIALI DEL CAPITALISMO OCCIDENTALE.
In parole semplici: i diritti dei lavoratori europei erano garantiti SOLO ED ESCLUSIVAMENTE dallo sfruttamento dei lavoratori del terzo mondo; dallo sfruttamento delle risorse naturali di quei paesi; dalla distruzione delle loro potenzialità di sviluppo industriale; dalla mortificazione e svilimento del loro sentimento di appartenenza nazionale (o comunitaria).
Sto parlando di cose che non solo tutti quelli che viaggiavano potevano vedere con i loro occhi in una maniera spesso drammatica e sconvolgente ma che sono anche scritte in testi di alto livello. Addirittura dei libri di noti conservatori liberisti i quali, paradossalmente, proprio mentre sostengono dati alla mano che lo sfruttamento coloniale non è stato l'unica fonte di ricchezza e sviluppo dell'occidente, affermano contemporaneamente che..."sì...in effetti qualche problema il colonialismo lo ha provocato ai paesi extraeuropei..."
"Quali?"
"Come sopra: distruzione delle potenzialità di sviluppo industriale e dello spirito di appartenenza nazionale"...per poi aggiungere candidamente "Ma noi siamo economisti e non sociologi o psicologi quindi non sappiamo valutare il reale impatto di questi fattori "negativi" "(Paul Bairoch: Economia e storia mondiale" Garzanti).
Be', magari in una gara alla sviluppo industriale finalizzato al profitto, il fatto che sopprimi alla radice la concorrenza un suo piccolo peso ce l'avrà...
A un certo punto però il mondo è una palla dalle dimensioni finite per cui arrivati al limite dove non ci si può più espandere, dove non c'è più spazio per buttare la polvere sotto al tappeto, ci si ritrova improvvisamente con tutte quelle vecchie contraddizioni "rimosse" che si rovesciano come uno tsunami sul mondo artificiale in cui hanno vissuto per decenni la media borghesia e l'operaio occidentali.
Hai voglia a parlare di Keynes o di chiudere le porte all'immigrazione...
DE MAGISTRIS,,
come risposto ad altri lettori, daremo prima possibile un giudizio argomentato su De Magistris.
Abbiate pazienza, certe cose le si deve discutere tra noi...
L’ingenuità dei sinistri quando parlano dell’involuzione della loro parte politica ha del commovente. Partono quasi sempre dall’idea che si sia trattato di un processo spontaneo e quasi inconsapevole.
La verità è che europeismo e diritti cosmetici sono le due foglie di fico di cui la ex-sinistra si è servita deliberatamente e programmaticamente per saltare definitivamente il fosso e diventare la truppa d’assalto del capitalismo di rapina. I diritti cosmetici sono serviti a mimetizzare la distruzione dei diritti seri, quelli socioeconomici. L’europeismo è servito a dare un’aria cosmopolita, da incontro festante di popoli, alla totale sottomissione politica, militare ed economica all’impero statunitense. Il motivo per cui l’europeismo è stato così diffuso in Italia non consiste nelle tradizioni cosmopolite del Paese, ma nella forza del PCI che vi ha convogliato tutte le sue energie propagandistiche. La spoliticizzazione delle borgate è stata perseguita intenzionalmente, poiché dove non si trovavano elettori abbastanza vacui, salottieri e imbambolati da scuola e media di regime da abboccare alla nuova propaganda, bisognava ridurli al silenzio.
Per il resto, fa piacere che cominciate – dico cominciate – a prendere atto della vera natura dell’invasione extracomunitaria: la ganascia inferiore della globalizzazione-americanizzazione turbocapitalista. Ne deriverebbero parecchie domande scomode (ammesso e non concesso che il benessere del primo mondo si fondasse sullo sfruttamento del terzo, come si concilia la difesa degl'interessi dei lavoratori occidentali coll'impegno antiimperialista?), ma è un inizio.
Veritas odium parit
Amico mio, calma. Primo, qui non c'è gente appartenente a quel PCI che ha tradito. Quelli per noi sono nemici quindi non ci rinfacciare le loro malefatte.
Secondo, rilassati che riesci a contraddirti pure in poche righe.
Ti copincollo:
"ammesso e non concesso che il benessere del primo mondo si fondasse sullo sfruttamento del terzo, come si concilia la difesa degl'interessi dei lavoratori occidentali coll'impegno antiimperialista?"
Ma tu ti rendi conto di cosa hai scritto?
Traduco: "Anche se fosse vero che la ricchezza dell'Occidente deriva dalla rapina, dallo sfruttamento e dal genocidio noi, per difendere il lavoratore occidentale, dovremmo continuare con le politiche imperialiste [termine sostanzialmente equivalente a "coloniale"].
Io credo che tu non volessi dire questo ma hai finito per incartarti trascinato dalla foga tipica del destrorso, notoriamente bravo nel menare le mani ma molto meno nel ragionare e nell'esprimersi in maniera coerente.
La cosa paradossale è che addirittura CasaPound scrive nel suo programma che bisogna aiutare i popoli del terzo mondo a liberarsi dal giogo delle multinazionali (che significa "antimperialismo", spero che fino a qui ci arriviamo, sì?).
Sei in ritardo sui tuoi stessi compagni...pardon, camerati...posa il manganello, leggi di più, rifletti a lungo e poi ripassa.
Veritas odium parit
Può essere, caro lettore, che la verità attiri odio.
Non è però che su uno odia abiti dalle parti della verità.
Ci corre l'obbligo di ribadire il pensiero di questa redazione e di MPL, che più o meno consiste in questo:
(1) noi non condanniamo in linea di principio né l'emigrazione né l'immigrazione. Condanniamo entrambi quando questi fenomeni sono in realtà una deportazione per cause sociali, quando cioè gli individui abbandonano la loro terra ed i loro affetti perché costretti dal contesto economico e sociale. In questo caso dalle potenti spinte della globalizzazione capitalista. Non ci appartengono il culto fascistoide delle razze, delle sacre patrie e via discorrendo.
(2) Noi siamo contrari all'immigrazione di massa dai due lati, da quello dei paesi che si spopolano e impoveriscono ulteriormente, e da quello dei paesi che ricevono flussi enormi di immigrati.
Dal lato dei paesi che ricevono flussi di massa di immigrati siamo contrari per due ragioni: (a) questi ultimi dovranno accettare condizioni sociali di esclusione e segregazione e neo-schiavismo (condizioni di cui il capitale ha bisogno per disporre di forza lavoro a prezzi stracciati). (b) In condizioni capitalistiche ( e sottolineiamo in condizioni capitalistiche) l'impatto di questa massa di paria non solo induce un abbassamento generale dei salari e dei diritti dei lavoratori autoctoni; produce un inevitabile sgretolamento del tessuto sociale, distrugge ciò che resta della comunità nazionale, rendono molto più difficile l'unità del fronte proletario, e sfascia il demos, ovvero il quadro entro cui poggiano democrazia e sovranità popolare.
Non c'è dubbio che le possenti élite oligarchiche, oramai multinazionaliste e cosmpolitiche, se ne sbattono di nazioni e demos e più la comunità è spappolata, più facilmente esse possono esercitare il loro predominio.
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