[ 10 giugno ]
Un intervento che nel liberismo va a parare, ma che offre una spiegazione, a partire da dati Eurostat, sul balletto statistico sul tasso di occupazione in Italia. Tesi: l'aumento del tasso di persone che lavorano non è dovuto a nuove assunzioni, ma alla data di pensionamento stabilita dalla riforma del 2011. E il Jobs Act? Pochi o nulli i risultati...
«Parlando di lavoro ci si concentra quasi sempre sui dati riguardanti i tassi di disoccupazione e occupazione e come cambiano nel tempo, ma raramente si cerca di osservare le transizioni da una condizione all'altra, per esempio quanti passano dalla disoccupazione all'occupazione o all'inattività, per capire come si generano le statistiche che conosciamo. È invece un tema decisivo proprio in Italia dove per esempio tiene banco la polemica sull'origine dei nuovi occupati per rispondere alla domanda: quante probabilità ha un disoccupato di trovare veramente lavoro?
Eurostat fornisce i dati su quanti tra i lavoratori, i disoccupati o gli inattivi cambiano condizione da un trimestre all'altro. E sono molto interessanti. Soprattutto se osserviamo il destino dei disoccupati, per esempio tra il terzo e il quarto trimestre 2015.
Ebbene, l’Italia ha un primato europeo, quello della maggiore proporzione di disoccupati che finiscono nell’inattività: nel giro di una stagione il 36,5% di chi cerca lavoro si scoraggia e scivola in quel bacino di persone che non ha un lavoro e non lo cerca che nel nostro Paese è il più ampio del Continente. All’opposto solo in Grecia, Romania, Bulgaria vi sono meno speranze che in Italia per un disoccupato di trovare un lavoro il trimestre successivo: da noi ce la fa solo il 13,7%. Una percentuale che impallidisce di fronte al 32,8% della Danimarca o al 37,9% della Svizzera e al 29,2% della Svezia. Paesi in cui lepolitiche per il ricollocamento assorbono quelle risorse che nel nostro Paese sono destinate a strumenti come la cassa integrazione, se non al mare magnum della spesa pensionistica. E si vede.
Si dirà, ma con il Jobs Act le cose sono cambiate, o almeno avrebbero dovuto. Ancora, tuttavia, non si vede una svolta. Dal 2010 alla fine del 2015 non sono intervenuti grossi cambiamenti, la percentuale dei disoccupati che trova un lavoro anzi ha avuto un trend discendente e la spinta verso l’inattività è invariata.
E d’altronde vi è da capire lo scoraggiamento e la rinuncia a ricercare un’occupazione osservando l’esito di questi tentativi: l’Italia è a metà classifica per possibilità di trovare lavoro per gli inattivi, ma tra i primi per probabilità di finire tra i disoccupati.
E pure negli ultimi anni più persone hanno cercato di divenire attivi, giovani al Sud per esempio, donne, il calo degli inattivi è uno dei trend più significativi del mercato del lavoro, che però si è trasformato in modo crescente in un tuffo nella disoccupazione, appunto.
E questo nonostante le riforme delle pensioni abbiano tagliato il numero di ultra cinquantenni inattivi proprio perchè pre-pensionati, trasformandole in occupati. Probabilmente senza quelle riforme la percentuale di quanti passano dall’inattività al lavoro sarebbe ancora più scarna. E quindi l’aumento di occupati verificatosi nel 2015 di circa 100 mila a dicembre dello scorso anno (salito a più di 200 mila in aprile) a cosa sarebbe dovuto?
La riforma Fornero e quelle che l’hanno preceduta rispondono appunto anche a questa domanda. Sono lavoratori che non vanno in pensione. Assieme a questo fattore vi è il calo delle perdite di lavoro per la fine della fase più acuta della crisi. In un Paese bloccato come il nostro a quanto pare però per l’occupazione fa molto di più una riforma delle pensioni che una del lavoro. Il Jobs Act non ha smosso le acque né in un senso né nell’altro, infatti. A dispetto dei timori di molti e nonostante la fragilità dell’economia l’Italia non è tra i Paesi in cui è più facile per un occupato trovarsi senza lavoro, anzi. Appare più probabile che accada in Francia o Svezia.
Questa non è necessariamente una buona notizia. Già anni fa Pietro Ichino aveva mostrato come i Paesi con minore tasso di licenziamento sono anche quelli con meno assunzioni, e l’Italia e il Portogallo erano tra questi. In sintesi nel nostro Paese chi è occupato rischia poco di rimanere a spasso, e allo stesso tempo chi è disoccupato ha ben poco probabilità di trovare lavoro, le due cose sono collegate, manca dinamismo e fluidità sociale. Paradossalmente i flussi più vivaci sono quelli che riguardano l’inattività, dalla disoccupazione in particolare. E così rimarrà la situazione finché al Jobs Act non sarà aggiunto il tassello mancante, quello per le politiche attive sul lavoro, in linea con quanto avviene nel resto d’Europa. A differenza dell’abolizione dell’art 18 però questa riforma non sarebbe a costo zero. Anzi».
«Parlando di lavoro ci si concentra quasi sempre sui dati riguardanti i tassi di disoccupazione e occupazione e come cambiano nel tempo, ma raramente si cerca di osservare le transizioni da una condizione all'altra, per esempio quanti passano dalla disoccupazione all'occupazione o all'inattività, per capire come si generano le statistiche che conosciamo. È invece un tema decisivo proprio in Italia dove per esempio tiene banco la polemica sull'origine dei nuovi occupati per rispondere alla domanda: quante probabilità ha un disoccupato di trovare veramente lavoro?
Eurostat fornisce i dati su quanti tra i lavoratori, i disoccupati o gli inattivi cambiano condizione da un trimestre all'altro. E sono molto interessanti. Soprattutto se osserviamo il destino dei disoccupati, per esempio tra il terzo e il quarto trimestre 2015.
Ebbene, l’Italia ha un primato europeo, quello della maggiore proporzione di disoccupati che finiscono nell’inattività: nel giro di una stagione il 36,5% di chi cerca lavoro si scoraggia e scivola in quel bacino di persone che non ha un lavoro e non lo cerca che nel nostro Paese è il più ampio del Continente. All’opposto solo in Grecia, Romania, Bulgaria vi sono meno speranze che in Italia per un disoccupato di trovare un lavoro il trimestre successivo: da noi ce la fa solo il 13,7%. Una percentuale che impallidisce di fronte al 32,8% della Danimarca o al 37,9% della Svizzera e al 29,2% della Svezia. Paesi in cui lepolitiche per il ricollocamento assorbono quelle risorse che nel nostro Paese sono destinate a strumenti come la cassa integrazione, se non al mare magnum della spesa pensionistica. E si vede.
Si dirà, ma con il Jobs Act le cose sono cambiate, o almeno avrebbero dovuto. Ancora, tuttavia, non si vede una svolta. Dal 2010 alla fine del 2015 non sono intervenuti grossi cambiamenti, la percentuale dei disoccupati che trova un lavoro anzi ha avuto un trend discendente e la spinta verso l’inattività è invariata.
E d’altronde vi è da capire lo scoraggiamento e la rinuncia a ricercare un’occupazione osservando l’esito di questi tentativi: l’Italia è a metà classifica per possibilità di trovare lavoro per gli inattivi, ma tra i primi per probabilità di finire tra i disoccupati.
E pure negli ultimi anni più persone hanno cercato di divenire attivi, giovani al Sud per esempio, donne, il calo degli inattivi è uno dei trend più significativi del mercato del lavoro, che però si è trasformato in modo crescente in un tuffo nella disoccupazione, appunto.
E questo nonostante le riforme delle pensioni abbiano tagliato il numero di ultra cinquantenni inattivi proprio perchè pre-pensionati, trasformandole in occupati. Probabilmente senza quelle riforme la percentuale di quanti passano dall’inattività al lavoro sarebbe ancora più scarna. E quindi l’aumento di occupati verificatosi nel 2015 di circa 100 mila a dicembre dello scorso anno (salito a più di 200 mila in aprile) a cosa sarebbe dovuto?
La riforma Fornero e quelle che l’hanno preceduta rispondono appunto anche a questa domanda. Sono lavoratori che non vanno in pensione. Assieme a questo fattore vi è il calo delle perdite di lavoro per la fine della fase più acuta della crisi. In un Paese bloccato come il nostro a quanto pare però per l’occupazione fa molto di più una riforma delle pensioni che una del lavoro. Il Jobs Act non ha smosso le acque né in un senso né nell’altro, infatti. A dispetto dei timori di molti e nonostante la fragilità dell’economia l’Italia non è tra i Paesi in cui è più facile per un occupato trovarsi senza lavoro, anzi. Appare più probabile che accada in Francia o Svezia.
Questa non è necessariamente una buona notizia. Già anni fa Pietro Ichino aveva mostrato come i Paesi con minore tasso di licenziamento sono anche quelli con meno assunzioni, e l’Italia e il Portogallo erano tra questi. In sintesi nel nostro Paese chi è occupato rischia poco di rimanere a spasso, e allo stesso tempo chi è disoccupato ha ben poco probabilità di trovare lavoro, le due cose sono collegate, manca dinamismo e fluidità sociale. Paradossalmente i flussi più vivaci sono quelli che riguardano l’inattività, dalla disoccupazione in particolare. E così rimarrà la situazione finché al Jobs Act non sarà aggiunto il tassello mancante, quello per le politiche attive sul lavoro, in linea con quanto avviene nel resto d’Europa. A differenza dell’abolizione dell’art 18 però questa riforma non sarebbe a costo zero. Anzi».
* Fonte: L'Inkiesta
1 commento:
Cito:
"Già anni fa Pietro Ichino aveva mostrato come i Paesi con minore tasso di licenziamento sono anche quelli con meno assunzioni"
Su questo come la pensate?
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