[ 15 giugno ]
Nel suo blog Goofynomics Alberto
Bagnai ha recentemente dato spazio allo scritto di un misterioso ed acuto
signor mikez73 che giustamente ci invita a rileggere il testo che Giulio
Bollati ha dedicato a suo tempo alla questione del “carattere nazionale” degli
italiani.
L’anonimo notista, proprio sulla scorta di Bollati, ci rammenta che
quel presunto carattere nazionale è sempre stato definito dalle classi dominanti e dai loro intellettuali, e
che (all’epoca della incerta formazione della nazione italiana, ma a ben vedere
anche oggi) il problema fondamentale di quelle classi, incapaci di fare vere
concessioni, era in fondo questo: come creare un esercito, come gestire una
guerra nazionale senza armare il
popolo, o senza armarlo troppo, o comunque impedendo che, armi alla mano,
al popolo stesso venga in mente di fare una rivoluzione?
Problema, quello del nesso tra guerra e cittadinanza,
tra guerra e democrazia, di antichissima origine e come al solito definito
impeccabilmente da Machiavelli:
«Se tu vuoi fare uno populo numeroso ed armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo».
E risolto dai nostri padroni, allora come ora, anche
attraverso una narrazione umiliante secondo
la quale il popolo italiano è la sentina di ogni vizio e la tomba di ogni virtù
e perciò deve convincersi che può combattere soltanto sotto il rigido comando
altrui e per gli altrui scopi. Comando e scopi che possono ben essere, oltre
che militari, sia politici che economici: obbedire all’euro ed all’austerità,
lottare contro le imprese rivali, ma… non come lavoratori ben organizzati e
stabili (che poi si montano la testa) bensì come precari e mendicanti.
Insomma, diffidiamo dei discorsi sul carattere nazionale
(che oggi vanno a parare sempre lì: “siamo tanto minchioni e ladri che non
potremmo sopravvivere senza Europa!”). Ed evitiamo di farcene complici
diffondendoli a nostra volta, contenti del fatto che il sentirci inetti ci
esime dal prendere sul serio il nostro destino. Ogni bravo storico sa come
nascono questi discorsi, e come provengano sia dalle élite di governo che da quelle di opposizione: cerchiamo di
ricordarcelo anche noi.
Il guaio, però, è che oggi questi non sono discorsi
delle sole élite.
Da quando la
breve e precaria alleanza tra “operai” e “studenti”, tra intellettuali e
movimento operaio (forse la migliore eredità degli anni ‘70) si è spezzata a
favore della crescente divaricazione tra qualificati e non qualificati,
tra skilled e unskilled, l’autorazzismo viene ormai
esercitato all’interno del popolo,
nelle reciproche accuse dell’una e dell’altra frazione. Il lavoratore colto,
organizzato, sindacalizzato ha ormai nei confronti del resto degli italiani lo
stesso atteggiamento che i hanno i padroni nei confronti del popolo tutto. Sa
che non se ne può fare a meno, ma ne diffida, ne detesta lo stile di vita, le
tendenze all’illegalità, l’incultura. Dimentica, ovviamente, che tale vera o
presunta incultura è figlia anche della distruzione —operata e/o non
contrastata dagli stessi “colti”— del carattere universalistico della scuola
pubblica, e che le tendenze all’illegalità non sono minori in chi scassa la
Costituzione o vuol privatizzare tutto rendendo per di più meno cogenti i
“vincoli”. Per converso, l’altra parte del popolo ha ormai saldamente elaborato
un discorso antielitario, contrario ad ogni forma di mediazione e di
specialismo, che fatalmente la consegna imbelle nelle mani di qualunque
mestatore.
Questo è il nostro problema, oggi: che l’autorazzismo
è interno al popolo, che le élite hanno
una vasta classe di sostegno nei lavoratori skilled, mentre gli unskilled si
affidano al primo che passa (e meno male che in mezzo ci sono anche quelli che
non scelgono nessuna di
queste alternative…). Se il nesso guerra-politica deve essere tenuto sempre
presente – sia per evitare la guerra che per ben comprendere la politica
–dobbiamo dire che tutto ciò sembra preludere a forme di conflitto in cui alla
maggior parte degli skilled viene
affidata la gestione del complesso informativo-tecnologico che costituisce il
nerbo della guerra moderna, mentre agli unskilled restano il sangue e la polvere. Ci piacerebbe
pensare che forse, sulla linea del fronte, potrebbe esserci un gruppo di
ufficiali di complemento e di graduati di truppa capaci di unirsi nella lotta
per la sopravvivenza e di capire chi è il vero nemico: ma sa troppo di deja vu. La politica e la guerra di oggi
e di domani sembrano capaci solo di dividere, e non di unire.
Ma sono le proprio le situazioni che
appaiono senza via d’uscita a sollecitare soluzioni originali, e quindi
semplici: gli elementi migliori dell’una e dell’altra frazione delle classi
subalterne devono unirsi e
poi trascinare con sé il maggior numero possibile dei propri seguaci. Per farlo
non serve o è fuorviante appellarsi astrattamente al popolo, alla comunità,
alla nazione. La comunità, il popolo e la nazione si costruiscono come effetto di una politica che
riconosca le differenze irriducibili, la pari dignità di ciascuno e la
possibilità storica di una mediazione e di un progetto comune.
Un progetto inevitabilmente ambizioso
(ritrovare autonomia come lavoratori, unità come classi subalterne, sovranità
come nazione…e farne buon uso) in cui gli italiani, inclusi quelli che italiani
non sono ancora, possano superare l’autorazzismo non già disciplinandosi con la
“rude scuola” della guerra o grazie ai “severi moniti” degli economisti, ma
partecipando ad una lotta per la dignità ed al processo di autoeducazione che
questa comporta. E possano comprendere da soli, senza nessun Mussolini e nessun
Monti, quali sono i loro vizi, quali le loro virtù e come dare, alla faccia di
tutti, il meglio di sé.
Nessun commento:
Posta un commento