lunedì 31 luglio 2017

RISORGIMENTO SOCIALISTA AL BIVIO di Giuseppe Angiuli*

[ 31 luglio 2017]

 Elezioni regionali del 5 novembre in Sicilia. 
Ieri davamo conto dell'assemblea che ha dato i natali alla lista della "Sinistra Alternativa". Tale iniziativa, sull'onda di un appello diffuso nel mese di aprile, raggruppa: PRC, PCI, Lista-Ingroia, i civatiani di Possibile, e Risorgimento Socialista. Una scelta, questa di Risorgimento Socialista, che non è condivisa al suo interno.


Nella storia del nostro Paese, i laboratori politici che si sperimentano nel contesto della Regione Sicilia, molto spesso hanno anticipato i successivi scenari politici italiani e per questa ragione quello che accade in Sicilia non può che assumere sempre una grande importanza anche per gli equilibri nazionali.

La lista identitaria "de sinistra" presentata sabato scorso a Palermo (che comprende PRC, PCI, Lista-Ingroia, Risorgimento Socialista e civatiani di POSSIBILE) ripropone tutti i consueti limiti di numerose esperienze recenti (tutte segnate da clamorosi insuccessi elettorali, perché non apprezzate dal popolo) e che si richiamano alla mera appartenenza identitaria alla "sinistra", senza mettere in discussione nessuno dei punti decisivi della fase attuale, primo tra tutti la necessità di uscire dai Trattati U.E. e dall'euro.

Ci si appella genericamente a delle mere petizioni di principio (più lavoro, più giustizia sociale, più welfare, ecc.) senza però mettere in discussione la gabbia eurocratica e la perdita di sovranità nazionale, che sono la prima causa delle scellerate scelte di austerità che opprimono il popolo siciliano ed italiano.
Franco Bartolomei, Coordinatore di Risorgimento Socialista.
Il Manifesto elettorale per le elezioni del 2013 recitava: "il
24 ed il 24 febbraio votate e fate votare PSI, al Senato con
Bobo Craxi e Franco Bartolomei alle regionali del Lazio".

Dopo avere compreso tutti i limiti di questa impostazione politica gravemente errata, che sarà coronata dall'immancabile ed ennesimo insuccesso elettorale nelle urne siciliane, un gruppo di compagni e dirigenti di Risorgimento Socialista, dissociandosi apertamente dalle decisioni assunte dal nostro partito in Sicilia, purtroppo apertamente avallate dal coordinatore nazionale di Risorgimento Socialista che le ha definite "un modello da riproporre a livello nazionale", hanno diffuso pubblicamente il documento del 14 luglio (data dell'anniversario della Rivoluzione Francese).

Noi socialisti del gruppo del 14 luglio riteniamo che al giorno d'oggi, insistere pervicacemente con la riproposizione dello schema astratto, consunto e demenziale della "unità delle sinistre", costituisca la più nefasta delle ricette politiche a cui si possa ricorrere.

Le immediate aperture a D'Alema ed ad Articolo 1-MDP da parte del candidato "di sinistra" alla Presidenza della Regione Sicilia ci dimostrano che purtroppo siamo stati dei facili profeti di sventura.

Il nostro Paese non ha più bisogno di una astratta ed indefinita "unità delle sinistre" bensì di una coalizione patriottica ed anti-liberista che lo conduca fuori dalla gabbia dei Trattati U.E.: tutto il resto è fuffa.

* Giuseppe Angiuli è Responsabile esteri di Risorgimento Socialista e fa parte del Coordinamento della Confederazione per la Liberazione Nazionale

L'ECONOMIA E LA SINISTRA EUROPEISTA di Sergio Cesaratto

[ 31 luglio ]

«L’affermazione di Bagnai è assolutamente corretta, dal mio punto di vista —ma perché Bagnai non è un eroe della sinistra e l’abbiamo lasciato alla destra? Certo lui farà anche male, quelli sono inaffidabili, ma la sinistra, credetemi, fa salire proprio la rabbia».


Per capire la crisi più lunga che l’Europa sta attraversando, le cause del crollo delle economie nazionali e il perché dovremmo pensare, sapendo che non sarà un percorso facile, a liberarci dalla gabbia dell’Europa e dell’euro, proviamo ad andare a lezione di economia. L’intervista che segue a Sergio Cesaratto professore ordinario di Economia internazionale, Politica monetaria europea e Post-Keynesian Economics presso l’Università di Siena, autore del saggio “Sei lezioni di economia”, offre un panoramica sui macrotemi dell’economia e sulle dinamiche originarie che hanno portato il mondo del lavoro e l’economia europea in un loop da cui è necessario uscire al più presto.



D. Professor Cesaratto, lei è un economista eterodosso rispetto agli economisti marxisti che ritengono ancora oggi valida la legge sulla caduta tendenziale del saggio di profitto. Ci può spiegare in breve in cosa consiste il suo disaccordo sulla teoria del valore?
R. Se ne discute da 150 anni, difficile rispondere in poche righe. Ricardo sapeva già che la teoria del valore lavoro non funziona rigorosamente, e anche Marx. Questi cerca una soluzione, e si avvicina in un certo senso a quella di Sraffa. Tale soluzione alla teoria dei prezzi e della distribuzione comporta l’abbandono del valore-lavoro, ma non dell’idea che i profitti derivino dallo sfruttamento, L’abbandono della legge tendenziale della caduta del saggio del profitto non dovrebbe poi preoccupare. Quella legge è basata sul valore-lavoro e perciò è sbagliata. Perché, inoltre, dovremmo attenderci che il capitalismo cada come una pera matura? Attardarci su una legge previsione sbagliata porta a errori politici rilevanti: si trascura il ruolo della scarsità di domanda aggregata e della distribuzione diseguale nel determinare la crisi del capitalismo, per esempio. Si ritiene il capitalismo irriformabile, in tal modo trascurando gli spazi che vi sono potenzialmente per conquiste sociali nell’ambito di una economia di mercato (con un maggior ruolo dello Stato, naturalmente).
Si afferma sempre più e da voci autorevoli nel campo dell’economia che questa Europa è irriformabile e così com’è oggi ha come unico obiettivo lo smantellamento di tutti i sistemi finanziari e degli spazi nazionali. 

D. Allora, professor Cesaratto, può dirci le motivazioni fondanti e spiegarci il perché?

R. Che l’Europa sia irriformabile siamo purtroppo ancora in pochi ad affermarlo. Non può cambiare per ragioni politiche: è un consesso di nazioni diverse. La solidarietà europea, persino fra i lavoratori, è nei sogni di certa sinistra. I lavoratori tedeschi od olandesi non hanno nessuna fantasia di risolvere i nostri problemi. Aver messo assieme la moneta con queste altre nazioni è stata una follia. Lo sa perché molti a sinistra hanno cambiato idea sull’Europa? Lo han fatto dopo essersi trovati a discutere con la sinistra europea, socialista, sindacale ma non solo. Ricordiamo che anche in Podemos, oltre che in Syriza e per la maggioranza della Linke l’argomento Europa è tabù.
D. La crisi in atto ha come punto nevralgico la mancanza di sovranità monetaria nazionale e quindi di banche CENTRALI nazionali?
R. Direi di sì. Un po’ di flessibilità del cambio avrebbe dato ossigeno alla nostra economia. La questione gira tutta attorno a questo nodo. Taluni lo negano.

D. Tutta colpa del neoliberismo, dell’ordoliberismo tedesco (economia sociale di mercato) e delle banche? O c’è anche dell’altro? E tra liberismo e ordoliberismo quali le differenze sul ruolo del rapporto fra Stato e mercato?

R. Attenzione, “economia sociale di mercato” è un termine trappola da non indentificarsi con una genuina socialdemocrazia. Distinguere fra liberismo e ordoliberismo è complicato, anche perché non c’è un unico liberismo. Il liberismo estremo assegna allo stato un ruolo marginale; il liberismo compassionevole gli assegna un ruolo di regolazione dei mercati e di tutela dei più deboli; l’ordoliberismo è più complesso a definirsi. Per certi versi ha un contenuto di mercantilismo (pensiero che ha una grande tradizione in Germania via cameralismo e Friedrich List): lo Stato si mette al servizio del mercato. L’ordoliberismo è una sorta di mercantilismo liberista. Nel modello tedesco i sindacati vengono cooptati via con determinazione. Lo Stato c’è eccome in Germania: è un vero comitato d’affari della borghesia.

D. Con una Italexit dall’euro e dall’Europa, progetto non fruibilissimo, promosso anche dalla piattaforma Eurostop quali rischi e quali vantaggi s’incontrerebbero nel il sistema economico e finanziario nazionale? E come andrebbero a finire debiti e crediti?

R. I rischi sono molti, dall’isolamento politico a quello economico. C’è incertezza ovviamente sui vantaggi di un cambio flessibile, sebbene io propenda a ritenere che questi vi siano (a meno di ritorsioni). Il problema del debito estero non ridenominabile è serio. Naturalmente tutto si può affrontare e tutto si aggiusta, se le circostanze storiche ci portassero a una rottura. Questa non appare tuttavia all’orizzonte. Probabilmente verrà consentito all’Italia di tirare a campare. Del resto questo è nella tradizione tedesca: dobbiamo aiutare l’Italia a tenere la bocca appena fuori dall’acqua perché non affoghi, disse Helmut Schimdt nel 1975 in occasione di un prestito tedesco all’Italia (lo ricordavano spesso Marcello De Cecco e Nando Vianello). Del resto l’andamento demografico del paese ne fa vedere la lenta scomparsa, con i giovani più brillanti (finché ve ne saranno) che emigrano, e con le più modeste aspirazioni di vita di chi arriva. Un triste destino per un paese dall’immenso patrimonio culturale. Ma i suoi lettori mi daranno del rosso-bruno. Del resto, l’assenza di un orgoglio nazionale è un’altra caratteristica della “sinistra” (non certo della Resistenza).

D. Passiamo al suo “Sei lezioni di economia (conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga), il suo ultimo saggio. Non è un testo decriptabile per tutti, quindi a quale fascia di lettori lo ha destinato e per quali fini? Forse per smontare le convinzioni di chi pensa ancora “È l’Europa a chiedercelo”?
R. Il testo è decriptabile a chiunque ci si metta seriamente sopra. L’ho scritto certamente per un pubblico relativamente giovane, più fresco di studi. Ma è rivolto a tutte/i, del resto perché interessarsi di politica se si dice che di economia non si capisce nulla? Il libro dimostra che l’economia è alla portata di tutte/i, certo nulla si ottiene senza un po’ di fatica. L’economia “mainstream” si ammanta di latinorum per mostrarsi impenetrabile ai più, ma è solo un mantello che copre la pochezza. Ma a sinistra il disinteresse per l’economia ha radici profonde. Da un lato essa non è mai stata riformista nel senso nobile dei padri del socialismo. Riformismo vuol dire concretezza. La sinistra italiana è astratta, intellettualistica, spesso retorica —infatti sono recentemente andati per la maggiore certi economisti simil-Saviano, anche se ora fortunatamente la loro affabulazione sta venendo a noia. Una volta, tanti anni fa quando il manifesto lanciò l’ennesima delle sue inutili campagne —la camera di compensazione mi sembra si chiamasse— sentii Alberto Asor Rosa, il noto intellettuale, dire con grande autocompiacimento di uno di questi econo-affabulatori: “Non capisco quello che dice, però mi sembra bravo”. Ecco questa è la sinistra, ci si autocompiace di parlarsi addosso. Dall’altro, poi, l’economia è oggi delegata a Bruxelles o Berlino, per cui ci si parla a sinistra in maniera autoreferenziale, come si vede dal tormentone sulla lista di sinistra, tutto politique politicienne. Bertinotti pare Togliatti al confronto! Al massimo a sinistra si parla di diritti civili. Ma lì si è tutti d’accordo (la gente comune spesso di meno). E mi faccia aggiungere. L’idea di ricostruire la sinistra “dal basso” con la Costituzione come asse è assai debole. I leaderini locali di un comitato per l’acqua pubblica più quelli del comitato per il no non fanno un progetto (e tantomeno radicamento in grandi masse). E la Costituzione fissa alcune direzioni, ma non come perseguirle. Non basta agitare i principi senza porsi il problema di come realizzarli.
D. Teoria del sovrappiù, ovvero la differenza fra il prodotto finale e i reimpieghi. È la prima lezione del saggio in cui intervengono i suoi ipotetici studenti ponendole domande specifiche sulla teoria. Per i lettori meno esperti può fornire un esempio di applicazione pratica di questa teoria? Fra quali classi sociali oggi viene ripartita?

R. Nel libro si mostra come la teoria del sovrappiù apra il tema della diseguaglianza, e questa quello della scarsità di domanda aggregata nel capitalismo. In questa luce si interpreta il mercantilismo tedesco. Gli antropologi economici, che utilizzano il concetto di sovrappiù (quello che avanza del prodotto sociale una volta pagate le sussistenze ai lavoratori), identificano con l’emergere del sovrappiù agricolo lo sviluppo della civilizzazione ma anche quello della diseguaglianza. Quest’ultima ha preso diverse forme nella storia (le forme economiche di Marx). Il capitalismo sta tornando, dopo la parentesi della “golden age” dovuta alla sfida socialista, ai suoi aspetti peggiori. L’immiserimento del proletariato previsto da Marx, e per il quale è stato ridicolizzato, sta avverandosi. Si era arrestato per le lotte del movimento operaio e nazionali, non perché il capitalismo arrechi giustizia sociale.

D. Nella seconda lezione si parla di economia marginale, riferendosi alla rivoluzione marginalista di fine XIX secolo. Vi è in questa teoria l’idea di individui con il doppio ruolo di proprietari e consumatori. Quali riferimenti ha con Ricardo e Marx con cui la teoria sembra essere in contraddizione. Mentre Ricardo afferma che il libero mercato non conduce al pieno impiego i marginalisti affermano il contrario…
R. Sì, le teorie “borghesi” di Smith e Ricardo non hanno nulla a che vedere col marginalismo, tant’è che Marx è un economista ricardiano. Rispetto a Ricardo storicizza il modo di produzione che sta esaminando, naturalmente. Due capitoli del libro spiegano come l’approccio del sovrappiù sia compatibile con la visione di Keynes.

D. Professor Cesaratto, nella quarta lezione si parla di moneta e vincolo estero. Ci avviciniamo al problema sovrano. Secondo la teoria cartalista e i sostenitori della Modern Monetary Theory “una moneta è accettata per i pagamenti nella misura in cui lo Stato assicura che con quella moneta si possano a pagare le imposte”. Come funziona con le banche, ovvero qual è il sistema di pagamento fra banche che infine si rivolgeranno a una banca centrale “la banca delle banche”, che detiene la loro riserva bancaria?

R. Il fatto che la moneta emessa da uno Stato sovrano sia accettata per i pagamenti in quanto può essere utilizzata per pagare le tasse, la nota tesi cartalista, non implica però che questa medesima moneta sia accettata dagli stranieri per pagare le importazioni. L’esistenza del vincolo della bilancia dei pagamenti, per la maggior parte dei paesi del mondo, è centrale in ogni discorso economico. Anche se potessimo tornare alla lira, l’ammontare di importazioni sarebbe per noi vincolato dalla valuta internazionale (valuta pregiata) che ci procacciamo con le esportazioni, materiali e immateriali. Purtroppo l’MMT sta propagandando la falsa tesi che il vincolo estero non esiste. Lo crede un gruppetto di economisti americani e australiani contro tutta l’economia eterodossa e anche ortodossa.
D. L’Uem (Unione economica monetaria) rassicura quindi i correntisti con questa funzione, ma questo non è avvenuto durante la tragedia greca del 2015, quando i correntisti furono costretti al razionamento giornaliero dei prelievi, ridotto a 60 euro al giorno. Cosa avvenne in effetti?

R. Sono contrario ad accusare Draghi di ogni male. Il Presidente della BCE fa il suo mestiere e lo fa bene, piaccia o meno. Non piace ai Tedeschi, che sono degli ottusi; non piace a certa sinistra che deve trovare un colpevole per il fallimento di Tsipras. Personalmente non lo accuso di nulla. La situazione greca era ed è drammatica, proprio per un drammatico vincolo estero. La sinistra dovrebbe imparare a guardare le cose per come stanno: le strade erano due: chinare la testa o andarsene. Uscire voleva dire misure da economia di guerra (è ridicolo, per tornare a quanto detto sopra, perorare che essa potesse uscire dall’euro e pagare le importazioni stampando dracme). Quindi controllo delle importazioni, razionamenti vari ecc. Ma di questo a sinistra non si discute, alle brigatekalispera piace ballare il sirtaki in piazza Syntagma. Il manifesto è poi l’agitprop di Syriza: i giornalisti greci a Roma sono comparabili a quello che Saddam dichiarava quando, coi carri americani a Bagdad, parlava di vittoria imminente. Questo impedisce ogni seria riflessione.

D. Quali sono attualmente per le banche i Paesi dell’Ue finanziariamente non affidabili?

R. Tutti i paesi sono affidabili sino a quando la BCE garantisce i loro titoli di Stato, e grosso modo lo fa —vedremo poi quando Draghi se ne andrà nel 2019 e verrà il falco Weidmann, uomo della Merkel. E sono affidabili sino a quando applicano moderazione fiscale, che è volta a tenere sotto controllo il loro indebitamento estero. Al momento non vedo segni di crisi finanziarie. Potrebbe essere l’ottusità tedesca, o una grave crisi politica in Italia (ma un Enrico Letta lo si trova sempre), a riaccendere la crisi. A proposito, anche sul proporzionalismo a tutti costi della sinistra avrei da ridire.

D. Secondo il suo collega Bagnai, se l’Italia tornasse ad un’ipotetica lira o altro conio nazionale, “il principale beneficio di un riallineamento nominale, sarebbe di aprire qualche spazio fiscale. In assenza di riallineamento, ogni politica fiscale espansiva comprometterebbe l’equilibrio esterno.
R. L’affermazione di Bagnai è assolutamente corretta, dal mio punto di vista —ma perché Bagnai non è un eroe della sinistra e l’abbiamo lasciato alla destra? Certo lui farà anche male, quelli sono inaffidabili, ma la sinistra, credetemi, fa salire proprio la rabbia.

D. Con la vittoria di Macron il pericolo scampato dalla Francia di ‘andare in bocca’ alla Le Pen’ introduce un elemento di stabilizzazione nella crisi europea e il populismo lepenista ha subito secondo lei una battuta d’arresto?
R. Non mi sono rallegrato per la sconfitta della Le Pen, certo non l’avrei votata, ma la sua sconfitta ha ora messo a tacere le proteste anti-europee, piaccia o non piaccia. Non sono francamente ottimista. Le scelte sono fra un adeguarsi al gioco europeo, quindi tentare di riguadagnare competitività attraverso un renzismo migliorato (insomma il ritorno al disastroso duetto Bersani- Letta). Questa strategia non ha futuro perché la ripresa della produttività dipende dalla ripresa della domanda interna, quindi dalla fine della deflazione marca europea. Ma dentro l’euro, senza un po’ dello spazio fiscale di cui parlava Bagnai, questo è impedito. Fuori dall’euro è un’incognita, ma quando il gioco si fa duro... Ma la sinistra italiana non è dura, è molliccia, melensa, autocompiaciuta, chiacchierona. Non sa di economia perché non le interessano i problemi, è autoreferenziale. Basta con i “ripensare la sinistra”, “cerchiamo ancora”, locuzioni del genere, questo arrovellarsi autoreferenziale, la sinistra grumble grumble. Quello che si deve sapere lo si sa. Io non ho soluzioni, ma conosco i problemi. So per esempio che la causa principale dello smarrimento della sinistra è la fine del socialismo reale. Quanti ne sono consapevoli? Pochi, ma del resto la sinistra è libertaria, e quel crollo ha acriticamente approvato. 
Per il poco che posso organizzerò a Roma in autunno qualche evento di riflessione in merito. Conosco gli obiettivi più immediati: piena occupazione, giustizia sociale, più intervento pubblico. Le strade vanno cercate formulando varie ipotesi e scenari. Questo è discutere di contenuti. Se mi permettete un annuncio. Di tutto ciò ne parleremo a Roma il Campidoglio il 9 settembre con Leonardo Paggi, Antonella Stirati, Michele Prospero, Massimo D’Antoni, Onofrio Romano e Nello Preterossi (non sarà una passarella, saranno intervento meditati e con un comune sentire), e a seguire tavola rotonda con Fratoianni, Anna Falcone, Speranza, Lerner e Fassina. Organizza Sinistra per Roma. Personalmente non permetterò che i politici parlino politichese. Spero che l’assenza di esponenti comunisti sia casuale, l’avevo espressamente richiesta e mi batterò perché siano presenti.

* INTERVISTA A CURA DE LA CITTA' FUTURA.

domenica 30 luglio 2017

SICILIA: E QUESTA SAREBBE LA SINISTRA ALTERNATIVA? di S.St.

[ 30 luglio 2017 ]

In vista delle elezioni regionali siciliane del 5 novembre, si è svolta ieri a Palermo l'annunciata assemblea per una lista della "sinistra alternativa siciliana". 
L'assemblea vedeva assieme  il Partito della Rifondazione Comunista, il Partito Comunista Italiano (ex-cossuttiani), i civatiani di Possibile, Azione Civile di Ingroia —Ingroia, nominato da Crocetta, è a tutt'oggi al vertice di una società regionale— Risorgimento Socialista e cespugli sinistrati vari. 
Non disponiamo del documento di accordo approvato, ma siamo certi che non riserverà sorprese: la solita minestra riscaldata sinistrese, la solita fuffa generalista sui diritti, il fondamentalismo dell'accoglienza per i migranti, il lamento per le ingiustize sociali, la retorica democratica in difesa della Costituzione. Temiamo che niente verrà detto sulla rimozione delle cause del disastro sociale, quindi sulla necessità di uscire dalla gabbia neoliberista dell'euro. Nulla sul fatto che non ci può essere sovranità popolare né applicazione della Costituzione senza ripristinare la sovranità nazionale italiana e nel suo seno di quella del popolo siciliano.
La decisione presa dall'assemblea è che l’editore Ottavio Navarra, [nella foto più sotto] ex-parlamentare PDS, sarà il candidato alla presidenza della Regione della lista di "sinistra alternativa al PD e alle destre". 

Ma... c'è una sorpresina. Lo stesso Navarra si è detto pronto a farsi da parte se, in prospettiva, si farà strada un accordo con Sinistra Italiana e MDP-Articolo 1 di Bersani e D'Alema.  
Leggiamo infatti sul Giornale di Sicilia on line di ieri:
«PALERMO. Prove tecniche di sinistra in vista delle regionali di novembre in Sicilia. I comitati siciliani di «Possibile», insieme a Rifondazione comunista e Azione Civile dicono no alle politiche del Pd e a Rosario Crocetta e lanciano una lista che unisca il mondo civico e quello politico di sinistra per costruire un progetto credibile e alternativo con la candidatura di Ottavio Navarra alla carica di governatore della Sicilia.
E’ quanto emerso nel corso della convention che si è svolta oggi a Palermo. La sinistra guarda e punta a una coalizione, con un proprio candidato presidente, che annoveri al proprio interno anche Sinistra Italiana e Mdp-Art 1. Non a caso proprio Navarra, che l’assise ha designato candidato in pectore alla Presidenza, è pronto a fare un passo indietro in caso di un ok degli "alleati» alla costruzione di un progetto comune che metta al centro dell’agenda politica i diritti: dall’ambiente, al lavoro, alla salute fino a quelli civili».
Avete capito? Siamo alle solite, al consueto opportunismo per cui di dice una cosa ma si punta, per strappare uno scranno, a farne un'altra. Ben sapendo che la lista in questione non riuscirà nemmeno questa volta a superare lo sbarramento del 5%, si sacrifica la "radicalità" per lasciare la porta aperta all'inciucio con Sinistra Italiana e MDP-Articolo1 (gli ultra-europeisti che hanno governato distruggendo il Paese). Immaginate quali potranno essere i contenuti. Il nulla, sa parte un becero anti-renzismo, che in Sicilia si declina in facile sparare sulla croce rossa (anti-crocettismo).

Quale sarà la risposta dei bersano-d'alemiani e di Sinistra Italiana? Non è ancora dato sapere. Di certo essi puntano ad infliggere, in vista le elezioni nazionali di primavera, una sonora sconfitta al Pd renziano, ciò nella speranza che nel Pd Renzi venga defenestrato. In questa prospettiva farà comodo o no inglobare la "sinistra alternativa" dandogli qualche strapuntino? Forse sì...

Vedremo le prossime puntate della saga della sinistra siciliana.

Nel frattempo procede l'attività dell'alleanza che ha dato vita alla lista NOI SICILIANI CON BUSALACCHI - SICILIA LIBERA E SOVRANA. Una lista che in continente vede il sostegno della Confederazione per la Liberazione Nazionale, una collaborazione scolpita nel patto siglato giorni fa.


IL CAPITALISMO È MORTO MA.... di Riccardo Ruggeri

[ 30 luglio 2017 ]

Nel suo famoso libro "Capitalismo, socialismo e democrazia" il grande economista austriaco e liberale Joseph Schumpeter teorizzava che che nel suo sviluppo il capitalismo avrebbe fatto fuori i classici capitani d'industria, i singoli proprietari, i quali sarebbero stato sostituti da burocrati-manager. 
Scriveva Schumpeter seguendo la profezia di Marx: «L'unità industriale gigante perfettamente burocratizzata soppianta non solo l'azienda piccola e media e ne "espropria" i proprietari, ma soppianta in definitiva l'imprenditore ed espropria la borghesia, come classe destinata a perdere tanto il suo reddito, quanto (cosa molto più importante) la sue stessa funzione».
Tesi, questa della tendenziale scomparsa della borghesia (trapasso al "capitalismo assoluto"), a sua volta ripresa dal compianto Costanzo Preve.
Dalla sua previsione Schumpeter, ancora una volta sulla scia di Marx, sentenziava: "Può sopravvivere il capitalismo? No, non lo credo. Può funzionare il socialismo? Certamente".
Marx e Schumpeter avevano intravisto una tendenza che effettivamente si è inverata. 
Il risultato tuttavia non è stato il socialismo, bensì il capitalismo casinò o, come lo definisce Ruggeri (che dall'interno ha vissuto la metamorfosi), ceo-capitalism —dove ceo sta per amministratore delegato.
Di Ruggeri avevamo pubblicato giorni addietro il suo grido di battaglia contro il "neofeudalesimo" delle grandi multinazionali californiane.


I 25 milioni per Cattaneo potrebbero essere pochi
Alcuni lettori mi chiedono di commentare, come ex manager ed ex ceo di una multinazionale quotata a Wall Street, la fuoriuscita di Flavio Cattaneo da Telecom, con maxi liquidazione di 25 milioni. Lo confesso come ex non sono in grado di farlo. Stiamo parlando di due ere geologiche diverse, culturalmente lontanissime, anche se pochi sono gli anni trascorsi. Ho operato nell’ultimo periodo del capitalismo classico, quello che scompare a metà degli anni Novanta, con l’esplosione della cosiddetta New economy. Lì nasce e muove i primi passi il ceo capitalism. Cos’è il ceo capitalism? Per chi non si accontenta della mia sintesi brutale “Una versione criminale del capitalismo classico”, vada a leggersi da pagina 39 a 54 del mio ultimo libro America. Un romanzo gotico (Marsilio): racconto un celebre modello di quella fauna. Nel capitalismo classico l’imprenditore e il manager (spesso convivevano) erano leader culturalmente “rotondi”, si muovevano secondo protocolli, a volte anche spregiudicati, ma sempre definiti e rigorosi. Nel ceo capitalism l’imprenditore è scomparso (surrogato da azionisti, in genere Fondi), il manager sostituito da una versione pseudo manageriale “concava”, che trovo più corretto chiamare deal maker.


Manager e deal maker sono due figure lontanissime fra di loro. L’uno, il manager, doveva far crescere (mi si passi il termine, armonicamente) l’azienda in termini di prodotti-mercati, quindi era attento all’innovazione, allo sviluppo del business, degli uomini, e aveva come orizzonte il medio lungo termine. L’altro, il deal maker, deve perseguire la crescita attraverso l’abbattimento dei costi (tanti e subito), per far aumentare il valore di borsa, e come orizzonte ha il trimestre, al massimo l’anno. 

In un caso ci si comportava come i generali di un tempo che giuravano sulla bandiera della patria, nell’altro il modello è quello dalla pirateria del Seicento. I contratti dei deal maker attuali sono la versione moderna delle “lettera da corsa”, documenti di incarico dei Re che autorizzavano il “corsaro” a depredare, per conto loro, le navi nemiche di proprietà di altri Stati, di altri Re. L’importante è stabilire di volta in volta se trattasi di “corsari” (mercenari che depredavano solo le navi nemiche al loro Re) o di “pirati” (banditi liberi che depredavano chi capitava). Allora e oggi, quello da depredare resta sempre lo Stato, le sue proprietà, le sue leggi-regolamenti, ovvero tacitare i suoi magistrati. Come? Con la corruzione appunto, ma nuova, non sta più nelle valigette 24 ore, ma nelle teste dei contraenti (lo scambio si può materializzare a distanza di anni, a volte in forme anche curiose), infatti la chiamano lobbying, disruptive innovation, etc. dandogli una dignità culturale che ovviamente non ha.

In questo senso il caso di Telecom è stato affascinante fin dalla nascita, vent’anni fa, perché è un caso di scuola, è un caso di vita, io l’ho studiato molto fin da quell’incontro (magico per alcuni, sciagurato per altri) Van Miert-Andreatta che mise in moto il successivo Ambaradan, ma mai ho voluto scriverci, perché mi vergognavo. L’ho sintetizzato recentemente in un tweet (Twitter è la mia seconda pelle, quella dell’ironia, verso gli altri e verso me stesso). Eccolo: “Telecom? La carcassa di un elefante che da anni alimenta, sempre con carne fresca, diversi animali della savana”. 

Andando alla ciccia, non sono in grado di stabilire se i 25 milioni di € dati a Cattaneo siano giusti, troppi, troppo pochi, bisognerebbe conoscere cosa c’era scritto nella “lettera di corsa” e a quanto ammonta, subito o in prospettiva, il bottino consegnato al Re (francese). Secondo me, sono pochi.


* Fonte: Riccardo Ruggeri

sabato 29 luglio 2017

DOVE VA L'AMERICA LATINA? di Giuseppe Angiuli

L'atto popolare finale del Foro svoltosi a Managua
[ 29 luglio 2017 ]

Giuseppe Angiuli, responsabile esteri di Risorgimento Socialista e dirigente della Confederazione per la Liberazione Nazionale, ha partecipato al Foro di San Paolo, svoltosi nei giorni scorsi a Managua, in Nicaragua, ospitato dal Fronte sandinista di liberazione nazionale. Qui il suo istruttivo resoconto.



CHE COS’E’ IL FORO DE SAO PAULO

E’ la mia prima esperienza ad una riunione del Foro di San Paolo, a cui sono stato invitato a partecipare in qualità di Responsabile Esteri di Risorgimento Socialista, ammesso per la prima volta nel consesso latino-americano quale partito osservatore.
Il Foro di San Paolo è il principale organismo di consultazione politica che raggruppa e coordina tutti i principali partiti socialisti, comunisti e della sinistra anti-liberista e “populista” dell’America Latina, tra cui: il Partito dei Lavoratori del Brasile (PT), il Partito Comunista di Cuba, il Frente Amplio dell’Uruguay, il Partito Socialista del Cile, la variegata componente di sinistra del peronismo argentino, il Partido Socialista Unido del Venezuela, il Partito del Lavoro del Messico, il Movimento Alianza Paìs dell’Ecuador, il Movimento al Socialismo della Bolivia, il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale del Nicaragua.
Fondato 27 anni fa nell’omonima città brasiliana, il Foro di San Paolo ha visto incubare al suo interno alcune tra le più importanti battaglie politiche della sinistra anti-liberista mondiale, come quelle per la difesa della sovranità dei popoli, per il ripudio del debito pubblico ingiusto detenuto dalle grandi banche d’affari trans-nazionali, per la ripubblicizzazione dei beni collettivi come l’acqua, per l’affermazione di un nuovo modello di sviluppo eco-compatibile, oltre a tutte le altre lotte dei movimenti sociali contro ogni forma di liberismo e di sfruttamento del capitale finanziario sui popoli del mondo intero.
Prima di raggiungere il centro America profondo, il piano di volo mi consente di effettuare una sosta di mezza giornata a Miami, metropoli cosmopolita dove si sente parlare indubbiamente più spagnolo che inglese.

La città più latina degli U.S.A. è piena di parchi verdissimi, palme, spiagge da cartolina, grigliate di gamberi, tassisti di origine haitiana che ti chiedono una mancia aldilà del prezzo ufficiale della corsa e gruppi di cubani anti-castristi in grande eccedenza, che di sera affollano a ritmo di salsa il lungomare di Miami beach.
Per la sua collocazione geografica, che la pone su una penisola protesa verso il mar dei Caraibi, la città di Miami costituisce da decenni il principale centro di irradiazione della strategia gringa di destabilizzazione del continente latino-americano ossia di quella parte di mondo che, per dirla con le parole di James Monroe, veniva un tempo definito come il cortile di casa di Washington. 


Il Nicaragua e la rivoluzione sandinista visti da vicino

Atterro all’aeroporto “Augusto Cesar Sandino” di Managua la mattina presto del 15 luglio, quando vengo accolto con premura da Alberto Moncada, un giovane dirigente del Frente Sandinista de Liberaciòn Nacional.
La città di Managua appare contraddistinta da un aspetto esteriore tranquillo e sereno, ben distante dal clima turbolento che connota altre grandi metropoli del subcontinente latino: la ragione è semplice, in Nicaragua molta gente è rimasta saggiamente a  vivere nelle campagne invece che andare ad affollare la capitale del Paese e così a Managua si è evitato di edificare quegli immensi barrios o favelas di catapecchie che risaltano agli occhi appena si giunge in località come Caracas, Rio de Janeiro e Città
del Messico.
La società del Nicaragua oggi è pacificata ma questa è una terra autenticamente rivoluzionaria dove nel recente passato hanno combattuto un po’ tutti: patrioti, campesinos, poeti, intellettuali, militanti europei internazionalisti e preti gesuiti.
Giuseppe Angiuli (secondo da destra) con altri delegati
I nicaraguensi sono un popolo mite, fiero e dignitoso, intriso di una cultura contadina ancestrale, forti valori di unità familiare, cattolicesimo popolare unito ad un indomito spirito ribelle sulle orme del padre della patria Augusto Cesar Sandino.

Il governo del Fronte Sandinista, tornato al potere nel 2007, ha ridotto enormemente la povertà più estrema, avviando importanti iniziative volte alla costruzione di un modello di sviluppo solidale fondato sulla valorizzazione della storica vocazione agricola del Paese e sull’implementazione di un sistema di forte integrazione regionale che vede negli accordi dell’ALBA (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra Amèrica) e di Petrocaribe la sua massima espressione.


Negli ultimi anni, il governo sandinista, ancora oggi guidato dal vecchio comandante guerrigliero Daniel Ortega (a cui il TIME negli anni ’80 dedicò una copertina, definendolo come “l’uomo che fa vedere rosso a Ronald Reagan”), è impegnato soprattutto nella realizzazione di un forte sistema pubblico di protezione sociale  (scuola e sanità gratuita in primis) nonché nella progettazione, in partnership con grandi imprese cinesi, di un nuovo canale intra-oceanico che, se dovesse vedere effettivamente la luce, trasformerebbe il piccolo Nicaragua in una zona di grande centralità strategica, al punto da fare ombra all’omologo canale di Panama, storico bastione di controllo geopolitico statunitense nell’area centramericana.
In tale contesto, a favore del governo sandinista va altresì annoverato il merito di essere riuscito finanche nell’impresa di mantenere decisamente sotto controllo l’inflazione, un vero miracolo da queste parti.

Nella direzione politico-organizzativa dell’incontro annuale di Managua del Foro di San Paolo, spicca il ruolo di Monica Valenteresponsabile per le relazioni internazionali del Partito dei Lavoratori del Brasile (P.T.).
Nel suo discorso inaugurale dell’evento, Monica Valente ha ricordato come 27 anni fa, allorquando il Foro di San Paolo prese vita nella sua prima storica riunione, si annoverava soltanto quella di Cuba quale unica esperienza di governo popolare e
progressista in tutta la regione latino-americana, mentre oggi lo scenario è assai mutato nel subcontinente, con i partiti di sinistra protagonisti di fatto, pur tra alti e bassi, di un vasto processo politico di trasformazione dei rapporti socio-economici interni alle rispettive società.
La dirigente politica brasiliana ha citato tre principi basilari e decisivi che devono continuare ad ispirare il processo politico di unità latino-americana: desarrollo, justicia social y soberanìa (sviluppo economico, giustizia sociale e sovranità).
Sempre nella giornata inaugurale del Foro, i partecipanti all’incontro di Managua hanno rivolto un tributo di onore ad Oscar Lopez Rivera, storico leader del movimento per l’indipendenza di Puerto Rico, da poco liberato dalla prigione dove il sistema giudiziario statunitense lo aveva condannato a trascorrere ben 35 anni della sua esistenza.

Gli esponenti del Frente Socialista di Puerto Rico, presenti al Foro, sono fermamente impegnati in un percorso di rivendicazione dell’indipendenza nazionale dagli U.S.A. una dura battaglia che affonda le sue radici nella peculiare storia della piccola isola caraibica, profondamente segnata da una atavica identità culturale latino-ispanica e che mai è riuscita a sentirsi veramente parte del gigante geopolitico nordamericano, fin da quando avvenne la sua conquista militare nel 1898.

Nella riunione di Managua, si sono altresì segnalate – per la loro vivacità e molteplicità di posizioni – le corpose delegazioni del Messico e della Repubblica Dominicana, mentre si è notato anche in questa occasione, come avviene di consueto in ciascuno dei consessi politici della sinistra continentale, il clima di rispetto unanime e di alta considerazione di cui godono i rappresentanti del Partito Comunista di Cuba, da sempre considerati tra i principali registi del processo politico di integrazione latinoamericana.

Un processo politico – quello dell’unità latino-americana – che oggi sta vivendo una fase delicatissima e cruciale, contraddistinta dalla micidiale offensiva mossa dalle antiche oligarchie del continente, ben decise ad interrompere un lungo ciclo di cambiamenti che negli ultimi 20 anni hanno portato il continente più diseguale del pianeta a porre seriamente in discussione i dogmi del pensiero unico neo-liberista. 
Al centro dell’attenzione dei dibattiti di quest’ultima riunione del Foro vi è stata la disamina della delicatissima ed esplosiva situazione che stanno rispettivamente vivendo Brasile e Venezuela.

Brasile: contro Temer, contro il golpe giudiziario

In Brasile, la recente condanna giudiziaria di Ignacio Lula da Silva appare manifestamente iscriversi in un piano politico concepito dalle storiche oligarchie del Paese e volto a realizzare una sorte di Golpe morbido” o colpo di Stato istituzionale, con l’esplicita approvazione di Washington.

Quello della lotta alla corruzione è diventato in Brasile uno slogan dalla facile capacità di presa sulle masse popolari e così, cavalcando strumentalmente tale mantra, i grandi mezzi di comunicazione sono riusciti ad innescare quel cortocircuito mediaticogiudiziario che già in Italia abbiamo vissuto ai tempi della nota ed ambigua operazione di “Mani Pulite”, alla quale – non a caso – si richiama esplicitamente l’odierno Antonio Di Pietro del Brasile, il magistrato Sergio Moro.
E proprio come avvenne in Italia dopo il crepuscolo della nostra Prima Repubblica, anche oggi in Brasile il malcelato obiettivo politico nascosto dietro la forsennata campagna mediatica giustizialista che ha preso di mira Lula da Silva e Dilma Rousseff è quello di dare vita ad una grande operazione di privatizzazioni e così mettere le mani sui gioielli di famiglia dell’economia pubblica del Paese, a cominciare dal colosso energetico PETROBRAS.

L’ex deputato del P.T. Luiz Dulci, di origini mantovane, intervenendo ad una tavola rotonda del Foro ha osservato come alla base dell’avvicendamento istituzionale recentemente avvenuto in Brasile vi sono delle importanti ragioni strategiche e geopolitiche, tutte connesse al recente processo di integrazione del Brasile nel sistema BRICS.


A detta di tutti i dirigenti della sinistra latino-americana intervenuti nella riunione di Managua, la recente vicenda del Brasile dimostra come oggi l’imperialismo nordamericano abbia deciso di puntare su una nuova e più sottile strategia
Un momento del Foro
di destabilizzazione dei governi non allineati, abbandonando le modalità più cruente e clamorose a cui si era soliti ricorrere nel recente passato.

Pertanto, se fino a qualche decennio fa, per porre fine ad una esperienza di governo popolare nella regione, si ricorreva a classici colpi di Stato dell’esercito come quello del Cile nel 1973 o all’addestramento di eserciti di para-militari come i Contras del Nicaragua negli anni ’80, oggi si opta per l’attuazione di forme più morbide di avvicendamento al potere, facendosi leva su meccanismi sofisticati di tipo giudiziario (come sta avvenendo per l’appunto in Brasile) o comunque agendo all’interno di una cornice apparentemente rispettosa della legalità costituzionale (com’è avvenuto in altre due occasioni, la prima nel 2009 con l’abbattimento del legittimo Presidente dell’Honduras Mel Zelaya e la seconda nel 2012 in Paraguay con la destituzione anzitempo dalla Presidenza di Fernando Lugo, ex vescovo cattolico molto vicino alla Teologia della Liberazione).

Venezuela: “el 30, todo el continente por la Costituente”

A proposito della situazione in Venezuela, quantunque anche tra i corridoi del Foro di San Paolo serpeggi un certo scetticismo sulle ultime forzature istituzionali compiute dal Governo di Nicolas Maduro – il quale ha apertamente rotto il patto costituzionale con l’altra metà del Paese, dando vita alla convocazione di una anomala assemblea costituente di cui in realtà ben pochi avvertivano il bisogno – ciò nondimeno i partiti e i movimenti aderenti al Foro di San Paolo hanno espresso un corale messaggio di difesa dei principi generali della Revoluciòn Bolivariana ed hanno condannato unanimemente le ingerenze degli Stati Uniti e dell’organizzazione degli Stati americani O.E.A. nelle vicende interne venezuelane.

Le FARC e la pace in Colombia

Nelle tavole rotonde che hanno segnato i lavori del Foro sono stati toccati tutti i principali e più attuali temi dell’agenda politica latinoamericana. Un tavolo tematico è stato dedicato alla questione della guerra civile colombiana e del difficile processo di pace da essa scaturente.

Com’è noto, dopo 5 anni di mediazione ad opera del governo cubano, di recente si è pervenuti a siglare uno storico accordo tra l’esecutivo di Bogotà e la dirigenza dei guerriglieri delle FARC, che a partire da questo momento si apprestano a trasformarsi gradualmente in un normale partito democratico, con la prospettiva di integrarsi pienamente nella fisiologica dialettica politica del Paese.
Una sanguigna dirigente politica delle FARC, intervenuta all’incontro di Managua, ha rivendicato la piena legittimità delle ragioni storiche della lotta armata intrapresa 33 anni orsono dal suo movimento, un metodo di lotta che ha tratto vita dalle storiche rivendicazioni dei campesinos colombiani, in buona parte condannati a vivere in una  situazione di semi-schiavitù per via di un latifondo che lascia poco spazio alla piccola proprietà rurale e che in tanti decenni ha prodotto miseria e fame nelle vaste campagne del Paese.


38 anni dalla vittoria sandinista

Dopo quattro giorni di intensi lavori, la riunione annuale del Foro di San Paolo si è dunque conclusa con la partecipazione di tutte le delegazioni internazionali (comprese quelle di Russia e Cina) al solenne atto commemorativo del 38° anniversario del trionfo militare della rivoluzione sandinista del Nicaragua, a cui hanno preso parte quasi un milione di persone che hanno affollato la Plaza de la Fé San Juan Pablo II in Managua.

Tra gli interventi dal palco degli oratori, si è distinto per intensità quello del Presidente indio dello Stato plurinazionale di Bolivia, Evo Morales, il quale ha ammonito tutti quanti sul fatto che il capitalismo non è in grado di produrre ricchezza e pari opportunità per tutti gli esseri umani.

SOVRANITA’, LIBERAZIONE, SOCIALISMO: L’ESEMPIO DELL’AMERICA LATINA

La dichiarazione conclusiva siglata al termine dell’incontro di Managua e consegnata a tutti i partiti partecipanti al Foro è significativamente intitolata “Nuestra América en pie de lucha. Hacia la unidad de Nuestra América por su segunda y definitiva independencia”.


In essa è dato leggersi uno sforzo politico, finora coronato da un discreto successo, di fare sentire bene integrate ed unanimemente dirette verso un medesimo fine politico – per l’appunto quello di fare conseguire una nuova e definitiva indipendenza ai popoli del continente più diseguale al mondo – le più diverse esperienze di governi e movimenti progressisti dell’area latino-americana e caraibica: che si tratti di modelli di trasformazione rivoluzionaria o di processi di riforme progressiste, nel documento di Managua si sancisce come il più grande obiettivo unificante che connota tutte le formazioni politiche partecipanti al Foro di San Paolo è e resta quello di “lavorare per la definitiva emancipazione dei popoli del continente, per costruire un genuino sistema di integrazione regionale e per collaborare alla edificazione di un mondo multipolare in cui possa affermarsi una stretta correlazione tra tutte le forze popolari”.

Un buon esempio di lungimiranza politica a cui sarebbe necessario attingere anche da parte delle sinistre europee, a tutt’oggi in preda ad una difficile crisi di identità ideologica e al tempo stesso contraddistinte da una evidente incapacità di interazione politica attorno a obiettivi strategici comuni.

Pertanto, se in America Latina tutte le sinistre, riformiste, gradualiste o rivoluzionarie, hanno saputo trovare da decenni una forte coesione attorno alla messa in discussione del neo-liberismo e di tutti i suoi corollari socio-economici, per le sinistre europee il vero banco di prova di un possibile percorso di integrazione politica sarà costituito nei prossimi anni dalla loro capacità di sapere condurre una critica severa e radicale al processo di costruzione dell’Unione Europea, un processo che fin dai suoi albori ha avuto una ispirazione ideologica di marca ultra-liberista, oligarchica ed anti-popolare e che perciò stesso si è configurato in termini del tutto antitetici al processo di integrazione politica latino-americana.

E allora, solamente mettendo in discussione i Trattati ultra-liberisti su cui è stata edificata l’Unione Europea, essenzialmente fondati sul dogma della lotta all’inflazione e sulla libertà di circolazione incontrollata del capitale finanziario, le sinistre del nostro continente potranno porre a beneficio dei popoli europei una sana emulazione del ben diverso modello di integrazione latino-americana, basato sui principi di solidarietà, mutualità e tutela della sovranità popolare.

PRIMO: BATTERE IL PD di Alberto Bagnai

[29 luglio 2017]

«Questa roba deve scomparire per consentire l'affermazione in Italia di una vera sinistra patriottica e popolare, e quindi di una vera destra patriottica e borghese. Ho detto patriottico? Sì, e non me ne vergogno, perché, sorprendentemente, ha cominciato lui...»


Guest post di Charlie Brown:

Non vi è nulla di particolarmente francese nella STX , una multinazionale delle costruzioni navali di matrice norvegese. Ciò nonostante il Re Sole repubblicano ne ha nazionalizzato l'unità francese adducendo a motivazione interessi strategici nazionali.

In Italia, due banche fondamentali per la salute della seconda area industriale del Paese sono state cedute nummo uno ad una banca privata più grande, la quale ha pure preteso ed ottenuto una cospicua dote pubblica . Una colossale distorsione della concorrenza avvenuta sul filo di lana e dopo un lunghissimo, dannosissimo stallo tra le autorità regolamentari de Leuropa . Il tutto per evitare in Italia il tabù della nazionalizzazione, che invece sarebbe stata la soluzione più logica e meno distorsiva della concorrenza (né si dica che nazionalizzare sarebbe stato come stappare il vaso di Pandora: governo ed analisti dicono in coro che l'operazione veneta è stato"l’happy end per le banche italiane").

Un siparietto, quello di STX, che ha irritato l'orgoglio fascistoide degli italici euristi, ma che a mio avviso ha implicazioni ben più profonde.

Ammettiamo per ipotesi l'esistenza di un interesse strategico gallico per quei cantieri, tale da legittimarne la nazionalizzazione. È evidente che nel caso delle banche italiane vi era un interesse strategico di entità quanto meno pari. Non parliamo poi di Telecom (ex) Italia.

Ne conseguono almeno un paio di dilemmi per gli euristi (italici e non):

Primo dilemma (in fatto):

I) o il PD non è in grado di tutelare gli interessi nazionali (se lo fosse stato, avrebbe nazionalizzato le banche venete)

II) o Leuropa non è in grado di tutelare i propri fondamentali presupposti (il rispetto delle "regole" sovranazionali, e in particolare il divieto di aiuti di stato) e quindi è inutile per piddini invocare "più Europa"

Secondo dilemma (in diritto):

I bis) o gli interessi nazionali strategici superano le regole europee, nel qual caso:
a) si delegittima tutta la filosofia politica del "vincolo esterno" sulla quale si basa il potere delle attuali élite politiche italiane (Cazzaro incluso);
b) il PD è stato di una imperizia criminale nella gestione delle crisi bancaria italiana ed è quindi indegno di gestire tecnicamente l'economia italiana.

II bis) o gli interessi nazionali fondamentali cedono di fronte alle regole europee, nel qual caso il PD si dimostra incapace di garantire – in nome di quelle regole - una parità di trattamento all'Italia all'interno del consesso europeo. E quindi si rivela indegno di esercitare leadership in una Italia parte integrante de Leuropa.

Ancora una volta si dimostra che l'impianto federalista "rules based" de Leuropa è una colossale balla, in quanto Leuropa si regge su una regola sola: la legge del più forte.

La risposta degli euristi italici è sempre e solo una : serve il superstato europeo dove i cavalli di razza italiana possano galoppare gloriosi.

Alzi la mano chi ci crede davvero.


(...nell'attesa fiduciosa del primo incauto che "professore, complimenti per il suo post", desidero svolgere una breve considerazione. Certo, in Europa vige la legge del più forte, come ovunque nel mondo. La dabbenaggine piddina, esemplificata da personaggi à la Furfaro, è quella di aver creduto, in base a non si sa quale ragionamento, che il progetto europeo avrebbe fatto di questo lembo di terra emersa una felice eccezione a quelle dinamiche di classe che ovunque nel mondo governano i corpi sociali. Se una simile dimensione irenica e palingenetica fosse stata proposta, che so, da uno scrittore cristiano del quinto secolo, la si sarebbe anche potuta trovare accettabile. Ma che venga proposta da pretesi, o meglio, supposti, eredi di Marx, ecco, questa è cosa che sinceramente fa onco.

Ciò detto, non vorrei che l'ovvia considerazione che nel mondo i ricchi e potenti comandano e i poveri e deboli obbediscono venisse interpretata in termini di una fatalistica accettazione di un nostro destino, più o meno rispondente a un disegno provvidenziale che ci farebbe scontare nostre ipotetiche colpe ataviche. Noi non siamo deboli perché tarati geneticamente o socialmente. Siamo deboli perché siamo stati traditi da una classe politica che ha fatto la scelta ben precisa di adottare il vincolo esterno come strumento di risoluzione dei suoi porci problemi interni. Se Leuropa fosse stata moralizzatrice, Craxi, Andreotti e Forlani le si sarebbero messi di traverso seriamente - cioè prima di essere defenestrati. Non sono gli italiani a essere tarati: è il PD a esserlo, e lo sono tutte quelle parti politiche che accettano l'idea che il popolo italiano non possa e non debba autodeterminarsi. Il primo segno e il primo strumento di questa subalternità è l'euro. Semplicemente svincolandoci da quella gabbia noi potremmo riprendere un percorso di crescita più ordinato, e quindi trattare senza difficoltà da pari a pari coi nostri fratelli europei, avendo recuperato la dimensione corretta per la tutela degli interessi nazionali: quella nazionale. Dimensione che è preclusa se i governi nazionali vengono svuotati dei loro margini di manovra in ambito economico.

Quindi: legge del più forte sia, ma ricordando che i più forti saremmo noi, se la nostra classe dirigente ci mettesse in condizione di esprimere il nostro potenziale: cosa che non sta facendo, nelle grandi come nelle piccole cose, proponendoci ovunque - nella scuola, nelle libere professioni, nella gestione macroeconomica, nei diritti civili - modelli di importazione, alieni alla nostra cultura e quindi ostacolo alle nostre capacità. Il punto è solo e sempre uno: PD DELENDVM EST, e questo non perché ciò sia risolutivo, ma perché sia di esempio. Colpirne - e spazzarne via - uno per educarne uno. Secondo me, poi, bisognerà spazzarne via almeno altri due prima che gli italiani possano essere decentemente rappresentati. Ma aprire troppi fronti è un errore che è sempre costato caro a chi lo ha fatto: oggi il nemico politico è costituito dal monopolio PD con le sue simpatiche segmentazioni del mercato: articolo uno, campo progressista, sinistra italiana, ecc. Questa roba deve scomparire per consentire l'affermazione in Italia di una vera sinistra patriottica e popolare, e quindi di una vera destra patriottica e borghese. Ho detto patriottico? Sì, e non me ne vergogno, perché, sorprendentemente, ha cominciato lui:



Sintesi: #facciamocome l'Angola: cacciamo i colonizzatori e i loro ascari - inclusi i presenti!...)

* Fonte: Goofynomics

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