[ 10 luglio 2017 ]
Il populismo dall’alto nel nostro Paese non funziona. Questa la lucida presa d’atto di due editorialisti di rango del Corriere della Sera, Aldo Cazzullo e Massimo Franco, sulle pagine del quotidiano in edicola lo scorso 28 giugno.
Il populismo dall’alto nel nostro Paese non funziona. Questa la lucida presa d’atto di due editorialisti di rango del Corriere della Sera, Aldo Cazzullo e Massimo Franco, sulle pagine del quotidiano in edicola lo scorso 28 giugno.
Prima di entrare nel merito dei loro articoli, tuttavia, credo occorra premettere alcune riflessioni sul quadro politico globale che è venuto delineandosi nella prima metà dell’anno in corso. Dopo le batoste incassate con la Brexit, l’elezione di Trump e il disastroso (per Renzi) esito del referendum italiano sulle riforme costituzionali, e a fronte delle apprensioni generate dall’ascesa di movimenti antiglobalisti di sinistra e di destra (da Sanders a Mélenchon, passando per Podemos e Marine Le Pen), abbiamo assistito al progressivo rinsaldarsi di un fronte “antipopulista” mondiale costituito dai maggiori partiti tradizionali (conservatori, socialdemocratici, centristi), non di rado uniti in grandi coalizioni trasversali, e sostenuto a spada tratta da tutti i media mainstream.
Il dato interessante è che questa Santa Alleanza, mentre in alcuni casi ha ottenuto risultati mediocri (vedi il mancato trionfo conservatore ai danni di Corbyn), ha funzionato alla grande laddove, a guidare la controffensiva, non sono stati i vecchi partiti, bensì, come è avvenuto in Francia, formazioni inedite camuffate da movimenti anticasta e guidate da giovani leader (Macron) abili nel giocare a loro volta la carta del leader carismatico (populismi dall’alto, li ho definiti in apertura di articolo, a significare che, mentre adottano lo “stile” populista, hanno orientamenti politici opposti ai movimenti che tentano di mobilitare il popolo contro le élite).
L’eccezionalità del caso Macron, argomenta giustamente Cazzullo, consiste nel fatto che il personaggio è sì figlio della domanda di rinnovamento dei francesi, ma anche dell’establishment. È, per usare le sue parole, «l’uomo su cui l’establishment ha puntato per intercettare la volontà di cambiamento e nello stesso tempo salvare se stesso» (cambiare tutto per non cambiare nulla o, per usare una categoria gramsciana, scongiurare le velleità rivoluzionarie innescando una rivoluzione passiva). Non è che in Francia manchi lo spirito antisistema, aggiunge ancora Cazzullo, è che il sistema – in primis le istituzioni dello Stato – sono (ancora?) abbastanza solidi per reggere alla sfida dei Mélenchon e delle Le Pen e della protesta sociale che si profila dietro i loro movimenti. In Italia questa solidità non esiste né si vede all’orizzonte nessun Macron in grado di svolgere il ruolo di salvatore della Patria (leggi dell’establishment).
È difficile non vedere, dietro quest’ultima annotazione, un segno della crescente sfiducia della grande borghesia nostrana nei confronti dell’uomo, Matteo Renzi, che avevano sperato potesse dare a sua volta vita a un populismo dall’alto in grado di arginare il conflitto sociale. Una sfiducia che traspare anche dall’articolo che Massimo Franco dedica, nella pagina a fianco, alla crescente irritazione generata, dentro e fuori il suo partito, dall’ostinazione con cui Renzi persegue contro tutto e tutti l’obiettivo di tornare al potere contando solo sulle forze dei suoi fedelissimi. Ma per riuscirci occorrerebbe (ma non è detto basterebbe): 1) disfarsi del Pd per costruire quel partito della Nazione di cui lo stesso Renzi va vociferando da tempo; 2) godere dello stesso consenso e della stessa popolarità (nel Paese e non solo nel suo partito) di cui gode Macron. Per la prima operazione il tempo è scaduto (nel senso che non è pensabile realizzarla prima delle elezioni), quanto al secondo requisito è evidente che Renzi non sembra all’altezza di Macron.
Ciò detto, né Cazzullo né Franco sembrano avere le idee chiare sul “che fare” il che, mentre è preoccupante per l’establishment Liblab nostrano, potrebbe essere una buona notizia per chi si propone di abbatterlo. Purtroppo, nemmeno in questo campo si vedono forze politiche e leader all’altezza del compito.
Il dato interessante è che questa Santa Alleanza, mentre in alcuni casi ha ottenuto risultati mediocri (vedi il mancato trionfo conservatore ai danni di Corbyn), ha funzionato alla grande laddove, a guidare la controffensiva, non sono stati i vecchi partiti, bensì, come è avvenuto in Francia, formazioni inedite camuffate da movimenti anticasta e guidate da giovani leader (Macron) abili nel giocare a loro volta la carta del leader carismatico (populismi dall’alto, li ho definiti in apertura di articolo, a significare che, mentre adottano lo “stile” populista, hanno orientamenti politici opposti ai movimenti che tentano di mobilitare il popolo contro le élite).
L’eccezionalità del caso Macron, argomenta giustamente Cazzullo, consiste nel fatto che il personaggio è sì figlio della domanda di rinnovamento dei francesi, ma anche dell’establishment. È, per usare le sue parole, «l’uomo su cui l’establishment ha puntato per intercettare la volontà di cambiamento e nello stesso tempo salvare se stesso» (cambiare tutto per non cambiare nulla o, per usare una categoria gramsciana, scongiurare le velleità rivoluzionarie innescando una rivoluzione passiva). Non è che in Francia manchi lo spirito antisistema, aggiunge ancora Cazzullo, è che il sistema – in primis le istituzioni dello Stato – sono (ancora?) abbastanza solidi per reggere alla sfida dei Mélenchon e delle Le Pen e della protesta sociale che si profila dietro i loro movimenti. In Italia questa solidità non esiste né si vede all’orizzonte nessun Macron in grado di svolgere il ruolo di salvatore della Patria (leggi dell’establishment).
È difficile non vedere, dietro quest’ultima annotazione, un segno della crescente sfiducia della grande borghesia nostrana nei confronti dell’uomo, Matteo Renzi, che avevano sperato potesse dare a sua volta vita a un populismo dall’alto in grado di arginare il conflitto sociale. Una sfiducia che traspare anche dall’articolo che Massimo Franco dedica, nella pagina a fianco, alla crescente irritazione generata, dentro e fuori il suo partito, dall’ostinazione con cui Renzi persegue contro tutto e tutti l’obiettivo di tornare al potere contando solo sulle forze dei suoi fedelissimi. Ma per riuscirci occorrerebbe (ma non è detto basterebbe): 1) disfarsi del Pd per costruire quel partito della Nazione di cui lo stesso Renzi va vociferando da tempo; 2) godere dello stesso consenso e della stessa popolarità (nel Paese e non solo nel suo partito) di cui gode Macron. Per la prima operazione il tempo è scaduto (nel senso che non è pensabile realizzarla prima delle elezioni), quanto al secondo requisito è evidente che Renzi non sembra all’altezza di Macron.
Ciò detto, né Cazzullo né Franco sembrano avere le idee chiare sul “che fare” il che, mentre è preoccupante per l’establishment Liblab nostrano, potrebbe essere una buona notizia per chi si propone di abbatterlo. Purtroppo, nemmeno in questo campo si vedono forze politiche e leader all’altezza del compito.
1 commento:
Considerazioni in tutto condivisibili. Renzi non è Macron per molti motivi; anzitutto non ha la statura né la preparazione tecnica di Macron, soprattutto in temi amministrativi ed economico-finanziari: tra un boy scout italiano cresciuto nelle file della Margherita e un 'grand commis d'Etat', formatosi all'ENA, c'è una certa differenza, se mi permettete. In secondo luogo, ma questo è forse l'aspetto più importante, Renzi non costituisce affatto quella novità che Macron rappresenta dentro il panorama francese. L'immagine di Renzi è già logorata e farà molta fatica a rinverdirla. Quanto a Macron, aspettiamo l'autunno e aspettiamo cosa intenderà fare in termini di mercato del lavoro e di stato sociale... allora forse potrebbe esplodere in Francia una protesta sociale e nazionale in grande stile.
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