Di seguito l'impeccabile intervento che Vito Storniello, dirigente dell'Unione Sindacale di Base (USB), settore sanità, ha svolto il 31 maggio scorso a Salerno in occasione dell'assemblea pubblica di Eurostop.
L'Istat ha certificato per il 2015 il
calo dell'aspettativa di vita in Italia. Non succedeva dal secondo dopoguerra
sebbene dal 2003, con un crollo sotto i livelli medi nel 2008, l'aspettativa di
vita in salute fosse già tra le più basse dei Paesi OCSE.
Sulla qualità della vita
influiscono numerosi fattori, ma è certo che l'ambiente, le condizioni sociali
e di lavoro, il reddito e l'accesso alle cure sono determinanti. Non a caso al
sud si muore di più e prima, in Campania ad esempio, dove questi fattori si
sommano, l'aspettativa di vita è di circa 2 anni inferiore a quella delle
Marche.
È una fotografia dinamica
dell'effetto delle politiche di austerità imposte dall'Unione Europea.
L'Italia ha una spesa
sanitaria pubblica oltre un terzo inferiore alla media dei Paesi dell'area euro
e il divario è triplicato dagli inizi degli anni 2000; il livello di
prestazioni sanitarie erogate è sensibilmente inferiore alla quasi totalità
degli altri paesi dell'area (ad eccezione di Spagna e Irlanda) con un rilevante
48% in meno rispetto alla Francia e 73% rispetto alla Germania.
Si amplia anche il
distacco in termini di posti letto per abitante, sensibilmente inferiore in
Italia (3,4 per mille abitanti contro i 6,3 della Francia e gli 8,3 della
Germania).
Sono circa 10 milioni gli
italiani che non hanno accesso alle cure per problemi economici mentre cresce
al ritmo di un miliardo l'anno la spesa privata dei cittadini (33 miliardi, più
di un terzo di quella dello Stato) così come aumentano le richieste di prestiti
personali finalizzati alle cure mediche (in particolare odontoiatriche).
Ticket e liste d'attesa
alimentano scientemente la fuga dei cittadini verso il privato mentre la libera
professione, per quanto in calo, continua a fatturare oltre 1 miliardo l'anno
travasando dalle tasche dei cittadini a quella dei medici 810 milioni di euro.
L'ideologia di una
presunta insostenibilità del servizio sanitario pubblico -sdoganata per favorire
la sanità integrativa privata, le assicurazioni, il welfare aziendale - è
talmente falsa che il nostro SSN produce l'11% di PIL assorbendone attualmente solo
il 6,8 %. Un valore questo destinato – dalle stime del DEF – a scendere al
ritmo di uno 0,1% annuo fino ad arrivare al 6,5 % nel 2019; una soglia che
l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito come la linea rossa per la
riduzione costante dell’aspettativa di vita.
Nel nostro paese la spesa
sanitaria pro-capite è fissata mediamente a 1817 euro l’anno, una quota che
colloca l’Italia agli ultimi posti nella classifica OCSE su 32 paesi.
Di vero c’è che i sistemi
sanitari single-payer, come quello italiano, sono più economici e sostenibili
di quelli basati sul mercato assicurativo e anche con migliori risultati di
salute.
Per questo andavano
affossati.
Il fronte anti
single-payer sembra averla vinta .
Del resto bisognava
preparare il campo – cioè svuotarlo da una forte presenza del settore sanitario
pubblico – in vista della prossima approvazione del TTIP, il partenariato
transatlantico sul commercio e gli investimenti che consentirà lo sbarco in
Europa dell’industria sanitaria e assicurativa americana.
Di vero c'è la volontà di
spostare la tutela della salute dallo Stato alla possibilità economica
personale e al profitto di assicurazioni e privati. Uno Stato che ha già da
tempo abbandonato il campo della prevenzione e regalato oltre il 95% della
riabilitazione alle lobby private.
L'ATTACCO AL WELFARE, LO SMANTELLAMENTO DEL SSN
Da anni si porta avanti
un attacco senza sosta al welfare attraverso leggi e manovre finanziarie che
mirano a definire un modello di sviluppo privo di garanzie sociali e diritti
fondamentali e universali con l'obbiettivo di privatizzare ciò che resta dei
servizi pubblici essenziali.
La sanità, come la scuola
e la previdenza e i trasporti sono i servizi che caratterizzano il welfare e il
loro smantellamento assume anche un valore ideologico per un nuovo modello che
intende cancellare la memoria della conquista dei diritti attraverso le lotte
sociali e trasformarli in privilegi per fasce sempre più ridotte di
popolazione.
Ma la sanità è anche una
riserva di risorse economiche, circa l'80% dei bilanci regionali, e un asset
economico da utilizzare come terreno di investimenti privati considerando che 1
euro investito in sanità produce un valore di 1,70.
La demolizione del SSN si
concretizza combinando insieme: definanziamento
del sistema; taglio di posti letto e chiusura/accorpamento di ospedali ed
esternalizzazioni dei servizi; taglio al finanziamento degli enti locali
(Regioni); ticket, liste d'attesa e libera professione; taglio dell'IRAP alle
imprese; carenza strutturale di personale d'Assistenza.
Gli atti costruiti per
questa strategia vanno dalle leggi di stabilità, che negli ultimi anni hanno
tagliato circa 30 miliardi al Fondo Sanitario, alla Spending Review che altro
non ha prodotto che tagli lineari ai servizi per recuperare risorse per
l'abbattimento del debito pubblico; alla revisione dei Livelli Essenziali d'Assistenza
con il taglio di oltre 200 prestazioni; i decreti sui costi standard e gli
standard ospedalieri attraverso i quali si stabiliscono, a prescindere, i tempi
di degenza e si classificano gli ospedali in funzione dei bacini d'utenza.
Ma la vera e propria
legge di stabilità della sanità rimane il Patto per la Salute, un patto
finanziario tra Stato e Regioni che ha l'intento di ristrutturare profondamente
e dall'interno il sistema.
Attraverso il Patto si
ridisegnano percorsi, spesso già sperimentati, di privatizzazione del sistema,
si ridefiniscono parametri, numero di posti letto e organizzazione sanitaria.
Ogni regione, in base ad un generico principio di appropriatezza, può decidere
cosa e come tagliare; è quello che ha permesso a molte regioni di avere quote
di privato oltre il 40% a sfavore del pubblico e di far proliferare il sistema
dei Project Financing.
LA POLITICA DEI PIANI DI RIENTRO E L'ACCENTRAMENTO
DEI POTERI
I Piani di Rientro
regionali (PdR), definiti dallo stesso Ministero della Salute come veri e
propri piani di ristrutturazione
industriale che incidono sui fattori di spesa sfuggiti al controllo delle regioni, sono stati introdotti nel 2005
e finalizzati a ristabilire l'equilibrio economico e finanziario delle Regioni.
A qualunque costo.
Ora, il fatto che a
distanza di 4 anni dalla modifica del titolo V della Costituzione (2001), già
la metà delle regioni fosse in PdR la dice lunga sulla concretizzazione nel
nostro Paese di quel federalismo tanto sbandierato nella riforma.
In realtà, il federalismo
ha colpito al cuore i concetti di universalismo, solidarismo e uguaglianza sui
quali è nato il SSN decretando la nascita di 20 sistemi sanitari diversi,
perpetuando le disuguaglianze nord/centro-sud, creando cittadini di serie A e
cittadini di serie B.
I PdR sono strumenti
politici di accentramento dei poteri nelle mani del governo centrale (ministero
dell'economia in primis) che, in nome del pareggio di bilancio, impongono le
politiche sanitarie delle Regioni.
Nelle regioni in PdR non
solo non vengono garantiti nemmeno i livelli minimi di assistenza e gli
standard sui posti letto decretati dallo stesso governo, ma la tassazione
locale (Irpef) viene aumentata oltre i livelli massimi (è il caso del Lazio e
della Campania, regioni più tassate d'Italia); il blocco del turnover per il
personale sanitario è totale e porta con sé una perdita strutturale di posti di
lavoro; i tagli al salario accessorio sono tali da aver introdotto, di fatto,
le gabbie salariali. Più tasse, meno servizi, meno salario.
Attualmente sono 8 le
Regioni in PdR, tutte del centro-sud (Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia,
Calabria e Sicilia) con l'eccezione del Piemonte.
5 di queste (Lazio,
Campania, Calabria, Abruzzo e Molise) sono commissariate.
Nonostante ciò e
nonostante per la Corte dei Conti sia
evidente il successo dei piani di rientro sotto il profilo economico e
finanziario, le perdite nel 2015 sono aumentate rispetto all'anno
precedente.
La legge di stabilità
2016 estende lo strumento dei PdR regionali anche alle singole Aziende
Ospedaliere, IRCCS pubblici e Policlinici Universitari con uno scostamento
finanziario del 10% o con 10 milioni di debito prevedendo, in questi casi,
anche la decadenza del Direttore Generale.
Si scopre così che la
metà delle aziende sanitarie italiane (53 su 108) sono in rosso e passibili di
PdR, avendo cumulato circa 2 miliardi di debito, e che la retorica dei modelli
sanitari virtuosi altro non è che una bufala, come del resto abbiamo sempre sostenuto, visto che tra
queste figurano numerose aziende della Lombardia (5), della Liguria (2), della
Toscana (3), del Veneto (1), del Friuli (4) e persino di quelle Marche (2) che
il buon commissario alla Spending Review Cottarelli annoverava tra le regioni
benchmark (cioè tra quelle da prendere a modello virtuoso per tutte le altre),
prima di essere defenestrato.
Un ulteriore
imbarbarimento del sistema; l'accanimento scientifico nella riproposizione di sistemi falliti, sotto tutti i punti
di vista, che vengono utilizzati per continuare a comprimere diritti e salari,
per distruggere e precarizzare il lavoro, nel tentativo di risanare un debito
che di certo non hanno prodotto i lavoratori dipendenti.
Se la situazione è quella
descritta sono sicuramente molte e impegnative le battaglie che attendono, sul
piano nazionale e territoriale, un’organizzazione sindacale conflittuale coma
la USB.
La USB ha lanciato il 3
aprile 2016 in una grande Assemblea Pubblica a Milano una piattaforma che
chiama alla difesa dello stato sociale e dell’occupazione.
Una piattaforma che è
parte integrante della Piattaforma Eurostop dove il diritto alla salute e la
difesa della sanità pubblica hanno un posto di rilievo.
LA SALUTE E’ UN DIRITTO, LA
SANITÀ PUBBLICA UN DOVERE
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