[ 6 aprile 2019 ]
Il 20 febbraio scorso, di Marco Bulletta, avevamo pubblicato l'articolo RIPRISTINARE IL CORPO FORESTALE DELLO STATO. Bulletta torna sull'argomento spiegando, oltre alle ragioni della "assurda" soppressione del Corpo forestale e la sua incorporazione nell'Arma dei carabinieri, l'ideologia neoliberista che l'ha sorretta, quindi conclude con una precisa proposta.
Perché in Italia si è arrivati all’assurda soppressione del Corpo Forestale dello Stato? Per rispondere a questa domanda occorre, paradossalmente, rispondere prima ad altre quattro domande: 1) Cos’era in origine il Corpo Forestale dello Stato? 2) Cos’era alla vigilia della sua soppressione? 3) Cosa rappresentava, per la cultura e la storia della Nazione, in termini di valori di cui era custode e portatore? 4) Come si può risolvere l’attuale stato di cose?
E occorre, poi, sempre per rispondere alla domanda iniziale, riflettere sul livello di consapevolezza della società civile italiana (per un terzo radicata nei grandi centri urbani e solo per un quarto in aree a minor densità abitativa — con il resto in una situazione intermedia —, rispetto al concetto di “civiltà” di un popolo, nonché rispetto agli elementi fondamentali su cui poggiano il progresso civile e sociale, lo sviluppo armonico, la crescita economica, il benessere e la qualità della vita di una Nazione: col passare del tempo, infatti, quel livello di consapevolezza scende sempre di più, soprattutto nelle generazioni più recenti, anche a causa della colonizzazione dell’immaginario collettivo praticata dai potentati globali.
Per dare la risposta alla seconda domanda è necessario non solo ripercorrere le fasi che ha attraversato il CFS nella storia dal dopoguerra in poi, ma anche fare alcune riflessioni e porsi ulteriori quesiti. Fino agli inizi degli anni settanta l’assetto del CFS restò tale e quale. Poi nel ’72 vennero introdotte le Regioni e trasferite molte competenze precedentemente statali, e nel ’77 venne data attuazione alla devoluzione, secondo i dettami del famigerato “Titolo V” della Costituzione.
Nel merito, l’attuazione del famigerato “Titolo V”, in particolar modo dopo la riforma di inizio millennio, non ha fatto altro che consolidare e diffondere i mali endemici dell’Italia. Ben lungi, infatti, dal migliorare gli aspetti amministrativi, il decentramento ha contribuito non poco a impedire alla Nazione uno sviluppo organico, un affrancamento dagli endemici problemi di corruzione che affliggono localmente la nostra società, un definitivo superamento dei tradizionali problemi legati alla storia pregressa. Nello spirito, quindi, del superamento delle retoriche dei luoghi comuni, riteniamo che, laddove il decentramento ha rallentato il progresso civile, sociale, economico, politico, culturale della Nazione, uno Stato centralizzato e forte, sul modello francese, avrebbe contribuito a oltrepassare gli “endemici” mali italiani, con buona pace dei propagandati dogmi di quel pensiero unico che affligge l’Italia da decenni e che è oggi la roccaforte mediatica dietro la quale le élites si trincerano per difendere i loro privilegi. La conferma pratica di queste osservazioni è nella storia recente e negli eventi che l’hanno scandita e continuano a farlo.
In questo panorama di progressivo indebolimento dello Stato proprio sui temi che in origine furono posti a fondamento della rinascita post-bellica, anche il CFS venne svuotato di molte competenze, trasferite alle neonate Regioni, inevitabilmente prive di quella cultura tecnico-amministrativa che costituiva il patrimonio di quel glorioso Corpo Tecnico, il quale continuò, peraltro, per molto tempo ancora a fornire un fondamentale punto di riferimento, grazie alle numerose convenzioni stipulate con le amministrazioni regionali per garantire la continuità nella gestione tecnico-amministrativa nelle specifiche tematiche oggetto di decentramento. Ma non tardarono a sopraggiungere ulteriori passaggi volutamente programmati per la definitiva eliminazione di un’istituzione che i fondatori della nuova Italia repubblicana avevano pensato come uno dei tanti tasselli di un modello statale rivolto al progresso civile e sociale della Nazione. Con i governi di centrosinistra di fine millennio si sfiorò la regionalizzazione del CFS, poi evitata con l’avvento dei governi di centrodestra, sotto i quali venne emanata la legge 36/04 che inquadrò il CFS fra i Corpi di Polizia dello Stato. Quella legge fu solo l’ennesimo di quegli errori che costellarono il percorso verso la situazione attuale. Si è già detto, in un articolo pubblicato il 20 febbraio 2019, del nefasto ruolo giocato dalle componenti sindacali, prima fra tutte l’ex-SAPAF, ma anche l’ex-UGL/CFS, con la complicità delle componenti politiche e istituzionali avverse al CFS, nel progressivo svuotamento delle competenze di quest’ultimo.
Come è potuto avvenire questo progressivo svuotamento? Risposta: sempre secondo il principio della “rana bollita”, stavolta messo in pratica dalle componenti sindacali citate, grazie ad una costante e martellante propaganda, interna ed esterna, volta alla dismissione di ogni attività e competenza del CFS che non fosse esclusivamente quella di polizia; “polizia, polizia, nient’altro che polizia”, era il mantra sindacale, in odio alla classe dirigente interna, portatrice della tradizione storica del CFS. Ecco, quindi individuata un elemento fondamentale nella responsabilità verso la soppressione del CFS. E non può, in tale frangente, non venire in mente l’immagine del marito che pratica l’auto-evirazione per far dispetto alla moglie.
Ed ecco dunque anche la risposta alla seconda domanda iniziale, cioè “cos’era il CFS alla vigilia della sua soppressione?” Risposta: era lo “scheletro” di quello che era inizialmente, ossia un Corpo tecnico dello Stato con funzioni di polizia (come da intenti del D.Lgs. 804/48), che ormai aveva perso gran parte degli originali contenuti e funzioni. Un’Amministrazione originariamente modellata sulla necessità di tutela, salvaguardia, gestione, cura e valorizzazione del patrimonio forestale e ambientale italiano, trasformata nel tempo in un Corpo di Polizia “tout-court”, inquadrato come tale dalla non meno assurda legge 36/04. Forestali a fare ordine pubblico in piazza, invece che forestali nei boschi. Non ci si può dunque meravigliare per la successiva soppressione del “quinto corpo di Polizia” ad opera del governo Renzi prono ai dogmi neoliberisti propugnatori di austerity a tutto campo a mo’ di improbabile cura dei problemi economici nazionali, creati, questi ultimi, dall’adesione, “imposta dall’alto”, ad un modello europeo pensato per “arricchire i ricchi a danno dei poveri”, come ampiamente dimostrato dai fatti degli ultimi due decenni, a dispetto degli appelli dei tanti “aedi mercenari” assoldati dai poteri forti per puntellare se stessi rispetto alla progressiva acquisizione di consapevolezza da parte del popolo espropriato della propria sovranità.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il CFS non esiste più, con buona pace di chi vorrebbe intravederne la continuità nell’Arma dei Carabinieri in cui è stato fatto confluire secondo il folle intento di quel governo di praticare i tal modo un improbabile risparmio, al posto del quale si sono invece avuti costi ulteriori, di cui si è già detto nell’articolo pubblicato il 20 febbraio scorso.
E’ qui che occorre rispondere alla terza domanda: “Cosa rappresentava il CFS per la cultura e la storia della Nazione, in termini di valori di cui era custode e portatore?”
In considerazione dell’importanza del patrimonio naturale, ambientale, forestale italiani, in considerazione dell’importanza culturale del patrimonio di tradizioni legate alle realtà sociali e insediative minori, alla loro storia, alla loro economia, a tutti gli aspetti cui si è precedentemente accennato, la risposta è che il disciolto CFS era una istituzione portatrice-custode proprio di quella cultura delle piccole realtà sociali legate al territorio, di quella saggezza delle popolazioni rurali legate tradizionalmente alla saggezza dell’economia del buon senso, sostituita nel tempo dall’economia del consumo sfrenato radicatasi nell’immaginario collettivo, prima ancora che nella realtà. Non un corpo di polizia, quindi, ma un corpo tecnico con funzioni di polizia, e dotato di spiccata caratterizzazione e specificità, difficilmente riproducibili in forme diverse da quella originaria.
Qui entra però in gioco la manipolazione mentale operata dai media al soldo dei potentati che hanno interesse a mistificare la realtà per ben determinati scopi. Per tale motivo il pubblico non riesce a focalizzare l’attenzione sulla differenza fra la situazione pregressa e quella attuale; l’opinione pubblica è portata a credere (per superficialità, ma anche a causa della manipolazione mediatica) che in fondo ciò che gli ex-forestali facevano prima, possono farlo anche ora che il Corpo Forestale dello Stato non esiste più, con i compiti, le competenze e le funzioni, trasferite all’Arma. Visione superficiale, volutamente instillata nelle menti dall’assordante silenzio dei media all’indomani della soppressione del CFS, per far assimilare l’idea che è stato meglio “ridurre i corpi di polizia da 5 a 4”, in linea con lo spot pubblicitario renziano. Tale visione, tanto miope quanto ignorante, non solo svilisce il ruolo del forestale, ma sottace l’importanza sociale di tale ruolo, omettendo la considerazione del lavoro pazientemente svolto, da sempre, dal personale del CFS sul territorio, a contatto con le persone, con quelle realtà sociali e aggregative minori facilmente dimenticate dalla “distratta” popolazione dei grandi e medi centri urbani, ormai preda del “mantra” neoliberista-consumista. Il CFS e il suo personale erano, dunque, a stretto contatto con quelle realtà sociali minori dimenticate, ma spesso custodi della preziosa eredità del passato, della saggezza, del buon senso, dell’accortezza, della conoscenza del territorio, del saper fare, della parsimonia, dell’inventiva, della responsabilità che costituivano il bagaglio culturale che ha consentito alle precedenti generazioni di portarci fino all’epoca attuale, malgrado le avversità da fronteggiare. Un bagaglio culturale che le generazioni successive, proprio come un “figliol prodigo”, hanno progressivamente perso, quando non addirittura rinnegato, in favore del “Moloch” consumista omologante che ha azzerato le coscienze e distrutto la memoria del passato anche recente, sostituendone i valori fondanti con i totem venerati sull’altare dei bisogni artificialmente indotti dal sistema.
Ben lungi, quindi, dall’essere “uno-dei-cinque-corpi-di-polizia-da ridurre-a-quattro”, come il patetico mantra renziano recitava, il disciolto CFS aveva nel proprio DNA — e qui sta la risposta alla terza delle quattro domande — la cultura del territorio, delle piccole realtà sociali, del valore dell’economia di sussistenza, della saggezza delle popolazioni rurali, dell’innato rispetto del patrimonio forestale, ambientale, faunistico, che financo negli ambienti venatori era ben chiaro, nella consapevolezza di dover lasciare alla Natura tempi e modi per rigenerare i propri equilibri. Ecco la differenza: un’antica cultura della fruizione saggia dei beni naturali, contrapposta all’attuale (in)cultura del prelievo rapace, indotto dalla manipolazione mentale finalizzata al consumo. Ecco la differenza fra il mondo dei forestali, umili e silenziosi servitori della Natura, dell’ambiente, del territorio, delle tradizioni culturali, delle realtà minori, e quello degli arroganti e ignoranti servitori del capitale finanziario globale, fautore del modello neoliberista speculativo e demolitore della storia e della cultura dei popoli, prima ancora che delle loro economie, e, oseremmo anzi affermare, propedeuticamente a tale scopo.
Sfortunatamente il popolo italiano, a dispetto della propria ricchezza di tradizioni e di cultura ereditate dalla propria storia plurimillenaria, o forse proprio a causa di tale retaggio, si contraddistingue per una spiccata emotività che lo rende piuttosto vulnerabile ai condizionamenti mentali. E’ anche per tale ragione, dunque, che il “mantra renziano” ha potuto attecchire grazie al vecchio luogo comune sui “forestali-della-Calabria”, costruito ad arte sull’equivoco del personale regionale a tempo determinato, emblema degli italici sprechi, che però nulla ha mai avuto a che fare con il CFS. Ebbene, la dimostrazione dell’asservimento dei media agli interessi delle élites è proprio in questo equivoco, tanto platealmente ridicolo quanto efficace nel manipolare le coscienze confondendole in assurdi e menzogneri luoghi comuni, abilmente sfruttati dagli arroganti e ignoranti imbonitori delle masse per far loro assimilare le idee fuorvianti. Ecco spiegato lo “spot elettorale del “risparmio con la riduzione dei Corpi di Polizia da 5 a 4.
Il “mantra sindacale” (“polizia, polizia, nient’altro che polizia..”), invece, si è sempre avvalso del fuorviante luogo comune dell’inconciliabilità delle attività tecnico-amministrative con quelle di sorveglianza e polizia, secondo il vecchio e puerile slogan: “controllori o controllati”. Che questo luogo comune (stupidamente caldeggiato, promosso e propagandato da parte delle peggiori frange sindacali nel corso degli anni) fosse totalmente falso e fuorviante sarebbe già facilmente dimostrabile con la considerazione che il CFS, così come era stato riordinato dai fondatori della Repubblica nel citato D.Lgs. 804/48, racchiudeva in sé in origine tutte queste attribuzioni, le quali, fintanto che non è stato attuato il decentramento amministrativo alle Regioni, hanno consentito una saggia gestione tecnico-amministrativa perfettamente armonizzata con la sorveglianza, la vigilanza, la prevenzione prima ancora che la repressione dei reati in ambito forestale. Vale la pena di soffermarsi sul concetto di prevenzione, preferito dal CFS rispetto a quello di repressione; la struttura e l’organizzazione del disciolto CFS consentivano, infatti, grazie alla “territorialità” di quell’Amministrazione e alla sua vicinanza alle realtà insediative minori, una notevole capacità di prevenzione dei reati e quindi dei conseguenti possibili danni ambientali, con l’ulteriore ricaduta positiva in termini di “educazione della popolazione”, che nel tempo aveva prodotto effetti benèfici a livello locale.
La struttura del CFS nell’Italia degli anni cinquanta e sessanta era in tal senso, a memoria delle generazioni che ne ricordano le peculiarità, un sistema che funzionava. Gli aspetti tecnico-amministrativi e quelli di polizia a vocazione preventiva erano in tal senso non soltanto compatibili, ma molto efficaci. Ma i due “mantra”, quello Politico del decentramento, e quello sindacale della dismissione delle attività non strettamente di polizia montarono di pari passo con il livore dei loro propugnatori più ottusi e ignoranti, entrando poi in risonanza, e in tal modo amplificandosi a dismisura, con le spinte disgregatrici di quella parte della politica che mirava alla dismissione del CFS già molto prima della nefasta legge Madia.
Sopraggiunta la soppressione del CFS si è assistito ad un ulteriore capolavoro del “surrealismo amministrativo”: gli uffici periferici cui era affidata l’importante funzione della gestione delle Riserve Naturali Statali sono stati ridenominati “Reparti Carabinieri Biodiversità” e la gestione delle Riserve Naturali Statali è stata affidata ad un corpo di Polizia Militare.
Ci permettiamo di dubitare che nell’Arma dei Carabinieri, pur depositaria di riconosciute eccellenze, potesse esistere la benché minima capacità, competenza o professionalità nella gestione di quelle 130 Riserve Naturali Statali distribuite sul territorio nazionale, delle quali vien da dubitare, addirittura, che si conoscesse l’esistenza stessa.
A nulla, peraltro, serve obiettare che “gli ex-forestali continuano la loro opera all’interno dell’Arma”, perché, al di là dei “rimpasti” interni effettuati all’indomani dell’accorpamento, quei “Reparti Carabinieri Biodiversità” hanno perso la loro autonomia gestionale, che risulta invece essenziale per un lavoro efficiente di tutela e promozione del patrimonio ambientale ad essi affidato. Le normative amministrative e contabili dei Carabinieri sono, infatti, propriamente adatte a un’amministrazione militare, che non gestisce territori, patrimoni floro-faunistici, strutture dedicate, colture agricole eccetera, e risultano del tutto inadeguate se applicate a un’amministrazione che deve risolvere quotidianamente, con rapidità ed efficienza, problemi di tipo aziendale, la cui gestione è quindi paralizzata dalla struttura gerarchica rigida ed esasperatamente burocratica dell’Arma, il cui complesso apparato di comando e controllo, che anche per decidere in merito a banalità deve passare per il Comando Generale, e che pertanto non può adattarsi alle esigenze tipiche della gestione delle Riserve Naturali così come veniva condotta prima della riforma, quando i responsabili degli UTB erano funzionari delegati e disponevano di fondi loro affidati per la gestione, e che ovviamente poi erano tenuti a un accurato rendiconto del loro utilizzo, da cui le particolari responsabilità che avrebbero implicato l’attribuzione della qualifica dirigenziale, osteggiata dal potere (nemmeno troppo) occulto del sindacato.
E si badi bene che la Gestione delle Riserve non è “ordinaria amministrazione”; è una gestione che necessita di estrema flessibilità, snellezza burocratico-procedurale, sensibilità ambientale, conoscenza profonda degli aspetti che ne regolamentano il funzionamento, tali da avere implicazioni rilevanti a livello internazionale e ricadute potenzialmente rischiose per lo Stato, laddove non gestite con le caratteristiche operative dianzi elencate: infatti all’interno delle Riserve Naturali dello Stato son ricompresi ambienti e specie animali e vegetali di primario e fondamentale valore naturalistico e scientifico, tutelati specificamente a livello europeo, e inseriti nella “Rete Natura 2000” comprendente le aree di maggior valore naturalistico internazionale, tutelate da quelle normative europee il cui rispetto è atto dovuto per gli Stati membri, e la cui inosservanza comporta il rischio di subire una procedura di infrazione da parte dell’Unione Europea per mancato utilizzo dei fondi europei stanziati e per inadempimento degli obblighi previsti.
Tornando alla presunta (e sbandierata) incompatibilità fra le funzioni tecnico-amministrativo-gestionali e quelle di sorveglianza, vigilanza, prevenzione e repressione dei reati, essa è poi ulteriormente smentita in modo clamoroso non soltanto da quegli esempi esteri dove la compatibilità fra queste due sfere di competenza è un dato di fatto, ma anche dalle realtà “nostrane” delle quattro Regioni e due Province a Statuto Speciale. In esse, infatti, i locali Corpi Forestali sono titolari, guarda caso, proprio di quei compiti e funzioni di cui era titolare anche il CFS fino alla nascita delle Regioni (quelle ordinarie) e del conseguente decentramento delle funzioni di cui si è detto. Nelle Regioni Autonome e nelle Province Autonome i Corpi Forestali fanno gestione e sorveglianza, amministrazione tecnica e attività preventivo-repressiva, con buona pace delle fandonie propagandate dal SAPAF nel corso di molti anni, con l’obiettivo di trasformare il CFS in un corpo di polizia “tout-court”, fino a riuscirvi, esponendolo così all’inevitabile soppressione attuata dagli incompetenti renziani.
Al di là degli errori (o forse “orrori”?) concettuali a nostro avviso compiuti, come accennato, già a livello Costituzionale, i problemi derivano dall’aver compiuto progressivamente scelte di indirizzo politico che di fatto anteponevano gli interessi dei potentati politico-economico-finanziari (annidati soprattutto a livello locale come mostrano le cronache) alle reali esigenze nazionali, demolendo quei principi, stabiliti nell’atto di nascita dello Stato repubblicano dai Padri Costituenti e scaturiti dalla maturazione delle coscienze nelle drammatiche fasi storiche del XX secolo, associati ai valori di fondo che ne erano l’elemento fondante.
Quei principi fondamentali si sono scoloriti nei decenni attraverso la colonizzazione dell’immaginario collettivo operata dai potentati economico-finanziari globali, che hanno influenzato le generazioni successive inducendole a dimenticarli a vantaggio del vuoto concettuale odierno.
Secondo quei principi il bene comune di una nazione passa, tra l’altro, anche attraverso la conoscenza e la tutela dell’ambiente inteso nella generalità delle sue componenti; concetto che all’epoca del varo della Costituzione non poteva, per evidente necessità della Storia di disporre dei suoi tempi per avanzare, ancora essere correttamente individuato nella completezza dell’accezione attuale, e che avrebbe necessitato di essere ampliato e posto in essere avendo presente la necessità di salvaguardare in primis l’interesse comune e il bene collettivo.
Ripartire dagli obiettivi basati su quei principi, secondo l’evoluzione della coscienza, e nel recupero dei valori fondanti. Ecco la chiave per rispondere alla quarta domanda: “come si può risolvere l’attuale stato di cose?”
Occorre proprio ripartire dagli obiettivi basati su quei principi fondamentali, i quali risultano non soltanto tutt’ora validi, ma a maggior ragione sono da prendere come riferimento in un periodo di “fluidità” politica conseguente al cambio di paradigma economico che ha trascinato gli Stati in quella che non è una crisi ma un attacco pianificato ai diritti sociali, ai principi costituzionali, alla effettiva rappresentanza politica dei popoli, al loro diritto di autodeterminazione, e, di conseguenza, agli equilibri sociali, alla qualità della vita, alla salute, all’ambiente, al benessere della persona. Tutti valori sacrosanti e sistematicamente calpestati dai poteri finanziari, dai mercati, dagli interessi delle lobby a livello globale.
All’individuazione degli obiettivi da cui ripartire consegue allora l’imprescindibile necessità di dedicare alla tutela e alla gestione della Natura e dell’Ambiente uno specifico Corpo Tecnico dello Stato con funzioni di polizia (molto diverso da un corpo di polizia tout-court, come venne erroneamente inquadrato il CFS dalla legge 36 del 2004), il quale, a rigor di logica, dovrebbe avere giurisdizione anche sul territorio delle Regioni a Statuto speciale, perché le funzioni di cui appare naturale che tale istituzione sia depositaria non possono prescindere dalla continuità territoriale e dalla validità generale dei principi cui queste funzioni sono sottese. La naturale e logica collocazione di siffatta istituzione dovrebbe evidentemente essere il Ministero dell’Ambiente.
Ecco dunque che, completato il quadro, e data altresì risposta alle quattro domande “propedeutiche”, è possibile dare finalmente la risposta anche alla domanda iniziale: “perché si è arrivati alla soppressione del CFS?”
Risposta: perché anche la soppressione del CFS fa parte di un insieme di azioni poste in essere da quelle frange della politica asservite ai dogmi neoliberisti propugnatori di austerity invece che economia espansiva. Quei dogmi hanno distrutto l’economia reale degli Stati, li hanno privati dei tradizionali strumenti di manovra per poter intervenire sull’economia reale regolamentandone in modo saggio l’andamento, sì da poter attuare investimenti anche in quei settori in cui si articola la civiltà e la vera ricchezza dei popoli secondo quanto già espresso in questa sede, e che pertanto non staremo a ripetere.
Quei dogmi neoliberisti portano all’inevitabile assoggettamento dei popoli attraverso il sistematico impoverimento dei sempre più numerosi poveri, a vantaggio dell’arricchimento dei sempre meno numerosi ricchi (pochissime persone nel mondo possiedono più ricchezza che miliardi di individui) e impedendo così agli Stati di favorire il proprio sviluppo e la propria crescita di una sana economia reale, rispettosa degli equilibri, dei diritti sociali, dei principi stabiliti in secoli di progresso culturale, sociale, civile, umano. Quei dogmi neoliberisti sono stati il punto di riferimento per lo smantellamento dello Stato Sociale, per la deflazione salariale, per la compressione dei diritti sociali, per i tagli alla sanità, alla scuola, alla previdenza, ai servizi, alla sicurezza, al decoro, per la drastica riduzione del vero benessere della popolazione, che non è dato dal numero di centri commerciali sul territorio o da quello dei SUV circolanti (vere icone del plagio mentale e della colonizzazione dell’immaginario collettivo operata dal modello neoliberista consumista), ma bensì dal livello dei servizi, dall’armonia sociale, dalla qualità dell’istruzione, dal reale pluralismo dell’informazione, dall’equa distribuzione della ricchezza, dalla sicurezza, dalla qualità della vita, dalle aspettative future, dalla tutela dell’ambiente, della salute, del benessere psicofisico della persona, dal suo rapporto armonioso di fruizione consapevole e sostenibile del territorio.
Qui è importante focalizzare l’attenzione su un passaggio fondamentale: la folle soppressione del CFS implica non un solo errore, ma due. Un doppio errore, a ben vedere: innanzitutto perché non si tratta di un falso risparmio, che in realtà ha comportato maggiori spese; in secondo luogo perché è proprio sbagliato il concetto di “taglio”, propugnato dal dogma neoliberista secondo lo schema poc’anzi descritto, perché è dimostrabile che l’economia espansiva è l’unica possibilità che ha uno Stato di rivitalizzare la propria crescita e la propria produttività a vantaggio dell’economia reale e di tutto ciò che da ciò consegue in termini di servizi sociali e ricadute positive sulla collettività, sempre secondo quanto dianzi esposto.
E’ da osservare, a questo punto, che la (parziale) acquisizione di consapevolezza rispetto alla fallacia dei dogmi neoliberisti colonizzatori dell’immaginario collettivo lascia intravedere alcuni spiragli di cambiamento e di possibile inversione di rotta, ma occorre avere ben presente il quadro globale in cui ci si trova a lottare per i valori e per i principi di cui si è detto.
Tale quadro globale vede attualmente stravolto l’ordine gerarchico delle discipline che dovrebbero definire e regolamentare le azioni umane; il mondo attuale vede infatti la finanza speculativa dominare sull’economia; l’economia dettare le regole alla politica; la politica prevalere sulla cultura. Tale situazione ha prodotto i disastri a livello globale cui assistiamo da molto tempo.
Per poter consentire ai popoli di uscire da quest’assurdo stato di cose, l’ordine dovrebbe quindi essere ribaltato: la cultura dovrebbe essere il “faro” della politica; la politica dovrebbe dare gli indirizzi all’economia; l’economia dovrebbe avvalersi della finanza in modo funzionale ai propri scopi (e non il contrario, come avviene da troppo tempo). Quest’ultima osservazione introduce i concetti e i principi contenuti nel “Manifesto per un’economia umanistica” recentemente promosso dal Prof. Valerio Malvezzi, economista dell’Università di Pavia, sotto forma di una lettera ai Potenti della Terra. L’economia umanistica pone le proprie basi nella considerazione che gli obiettivi primari dell’essere umano antepongono a tutto proprio quegli aspetti di cui si è detto: la salute, l’ambiente, la cultura, la socialità, l’informazione libera, i diritti sociali, e via dicendo, in tutte le loro articolazioni che rendono un popolo civile, progredito, consapevole, libero, sovrano.
La chiave di lettura, quindi, della vicenda del Corpo Forestale dello Stato, può trovarsi nella consapevolezza di questo panorama globale e di queste istanze apparentemente nuove, ma in realtà portatrici di valori che affondano le radici nella storia e nella tradizione culturale dei popoli. Pertanto la soluzione al problema può e deve essere adottata nella piena consapevolezza di questo panorama globale, coerentemente con le necessità di ribaltare gli attuali dogmi e restituire agli Stati e ai popoli la loro dignità, la loro libertà, la loro sovranità.
La ricostituzione del Corpo Forestale dello Stato, nelle modalità definite dai ragionamenti condotti, dovrebbe essere solo uno dei tanti atti di buon senso animati dalla consapevolezza di tutto quanto sinora esposto.
Il 20 febbraio scorso, di Marco Bulletta, avevamo pubblicato l'articolo RIPRISTINARE IL CORPO FORESTALE DELLO STATO. Bulletta torna sull'argomento spiegando, oltre alle ragioni della "assurda" soppressione del Corpo forestale e la sua incorporazione nell'Arma dei carabinieri, l'ideologia neoliberista che l'ha sorretta, quindi conclude con una precisa proposta.
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Perché in Italia si è arrivati all’assurda soppressione del Corpo Forestale dello Stato? Per rispondere a questa domanda occorre, paradossalmente, rispondere prima ad altre quattro domande: 1) Cos’era in origine il Corpo Forestale dello Stato? 2) Cos’era alla vigilia della sua soppressione? 3) Cosa rappresentava, per la cultura e la storia della Nazione, in termini di valori di cui era custode e portatore? 4) Come si può risolvere l’attuale stato di cose?
E occorre, poi, sempre per rispondere alla domanda iniziale, riflettere sul livello di consapevolezza della società civile italiana (per un terzo radicata nei grandi centri urbani e solo per un quarto in aree a minor densità abitativa — con il resto in una situazione intermedia —, rispetto al concetto di “civiltà” di un popolo, nonché rispetto agli elementi fondamentali su cui poggiano il progresso civile e sociale, lo sviluppo armonico, la crescita economica, il benessere e la qualità della vita di una Nazione: col passare del tempo, infatti, quel livello di consapevolezza scende sempre di più, soprattutto nelle generazioni più recenti, anche a causa della colonizzazione dell’immaginario collettivo praticata dai potentati globali.
Che cos'era il CFS
In ogni caso, la risposta alla prima domanda è: in origine il Corpo Forestale dello Stato era un “Corpo Tecnico con funzioni di polizia”. Definizione che racchiude in sé molti più significati di quello che le attuali generazioni, tanto “cittadine” quanto distratte, possono comprendere senza conoscere la storia nazionale. Nel dopoguerra il CFS
(precedentemente “Milizia Forestale”) venne riorganizzato dal D.Lgs. 12 marzo 1948 n. 804, col quale gli vennero attribuiti, fra gli altri, compiti di rimboschimento, sistemazioni idraulico-forestali, tutela tecnica ed economica dei boschi e dei beni silvo-pastorali pubblici, polizia forestale, addestramento del personale forestale, ricerche e applicazioni sperimentali forestali, statistica e catasto forestale, sorveglianza sulla pesca nelle acque interne, sulla caccia, sui tratturi e sentieri, gestione tecnica ed amministrativa delle foreste demaniali ed ampliamento del demanio forestale dello Stato. Non veniva menzionato il concetto di “ambiente” in senso ampio, che arrivò diversi decenni più tardi a seguito della maturazione della coscienza ambientalista conseguente alle relative emergenze, e che oggi costituisce la cornice di riferimento.
(precedentemente “Milizia Forestale”) venne riorganizzato dal D.Lgs. 12 marzo 1948 n. 804, col quale gli vennero attribuiti, fra gli altri, compiti di rimboschimento, sistemazioni idraulico-forestali, tutela tecnica ed economica dei boschi e dei beni silvo-pastorali pubblici, polizia forestale, addestramento del personale forestale, ricerche e applicazioni sperimentali forestali, statistica e catasto forestale, sorveglianza sulla pesca nelle acque interne, sulla caccia, sui tratturi e sentieri, gestione tecnica ed amministrativa delle foreste demaniali ed ampliamento del demanio forestale dello Stato. Non veniva menzionato il concetto di “ambiente” in senso ampio, che arrivò diversi decenni più tardi a seguito della maturazione della coscienza ambientalista conseguente alle relative emergenze, e che oggi costituisce la cornice di riferimento.
Il famigerato "Titolo V"
Per dare la risposta alla seconda domanda è necessario non solo ripercorrere le fasi che ha attraversato il CFS nella storia dal dopoguerra in poi, ma anche fare alcune riflessioni e porsi ulteriori quesiti. Fino agli inizi degli anni settanta l’assetto del CFS restò tale e quale. Poi nel ’72 vennero introdotte le Regioni e trasferite molte competenze precedentemente statali, e nel ’77 venne data attuazione alla devoluzione, secondo i dettami del famigerato “Titolo V” della Costituzione.
E’ opinione di chi scrive che la Costituzione Italiana, al di là dei retorici luoghi comuni, in alcune parti non sia quell’esempio di perfezione talora ostentato. Ci si riferisce, in particolare, alla scelta di dare alla Nazione una struttura decentrata. Scelta che ha mostrato tutti i propri limiti in molti aspetti sotto gli occhi di tutti: dal persistente divario fra nord e sud, al radicamento a livello locale (soprattutto regionale) di caste di potere, di corruzione, di clientele, di malversazioni, di sprechi, di crimine organizzato. La banale risposta dei “sacerdoti del pensiero unico” a queste “blasfeme” osservazioni, è che “anche a livello statale le cose vanno allo stesso modo”; il che, secondo questa ingannevole logica da luogo comune, equivale a dire che la “metastatizzazione” e la conseguente amplificazione dei problemi è meglio dei problemi stessi tal quali. Il principio su cui poggia la “vulgata” del pensiero unico in materia di decentramento è quello della “rana bollita”: se una rana viene gettata all’improvviso in una pentola piena d’acqua bollente schizzerà fuori e si salverà. Ma se la rana viene messa nella pentola con acqua a temperatura ambiente, ponendo poi la pentola sul fuoco, la rana “si abituerà” pian piano alla crescente temperatura, fino a morire bollita. E’ secondo questo principio che le coscienze vengono lentamente e progressivamente “anestetizzate” rispetto a ciò che si vuol far passare come necessario, ma che in realtà è dannoso; il “pensiero unico” agisce secondo questo principio, instillando pian piano nelle menti convinzioni erronee e consolidandole fino a farle divenire “patrimonio cognitivo” chi le ha subìte, complice anche la naturale inclinazione umana al conformismo mentale.
Nel merito, l’attuazione del famigerato “Titolo V”, in particolar modo dopo la riforma di inizio millennio, non ha fatto altro che consolidare e diffondere i mali endemici dell’Italia. Ben lungi, infatti, dal migliorare gli aspetti amministrativi, il decentramento ha contribuito non poco a impedire alla Nazione uno sviluppo organico, un affrancamento dagli endemici problemi di corruzione che affliggono localmente la nostra società, un definitivo superamento dei tradizionali problemi legati alla storia pregressa. Nello spirito, quindi, del superamento delle retoriche dei luoghi comuni, riteniamo che, laddove il decentramento ha rallentato il progresso civile, sociale, economico, politico, culturale della Nazione, uno Stato centralizzato e forte, sul modello francese, avrebbe contribuito a oltrepassare gli “endemici” mali italiani, con buona pace dei propagandati dogmi di quel pensiero unico che affligge l’Italia da decenni e che è oggi la roccaforte mediatica dietro la quale le élites si trincerano per difendere i loro privilegi. La conferma pratica di queste osservazioni è nella storia recente e negli eventi che l’hanno scandita e continuano a farlo.
Svuotamento
In questo panorama di progressivo indebolimento dello Stato proprio sui temi che in origine furono posti a fondamento della rinascita post-bellica, anche il CFS venne svuotato di molte competenze, trasferite alle neonate Regioni, inevitabilmente prive di quella cultura tecnico-amministrativa che costituiva il patrimonio di quel glorioso Corpo Tecnico, il quale continuò, peraltro, per molto tempo ancora a fornire un fondamentale punto di riferimento, grazie alle numerose convenzioni stipulate con le amministrazioni regionali per garantire la continuità nella gestione tecnico-amministrativa nelle specifiche tematiche oggetto di decentramento. Ma non tardarono a sopraggiungere ulteriori passaggi volutamente programmati per la definitiva eliminazione di un’istituzione che i fondatori della nuova Italia repubblicana avevano pensato come uno dei tanti tasselli di un modello statale rivolto al progresso civile e sociale della Nazione. Con i governi di centrosinistra di fine millennio si sfiorò la regionalizzazione del CFS, poi evitata con l’avvento dei governi di centrodestra, sotto i quali venne emanata la legge 36/04 che inquadrò il CFS fra i Corpi di Polizia dello Stato. Quella legge fu solo l’ennesimo di quegli errori che costellarono il percorso verso la situazione attuale. Si è già detto, in un articolo pubblicato il 20 febbraio 2019, del nefasto ruolo giocato dalle componenti sindacali, prima fra tutte l’ex-SAPAF, ma anche l’ex-UGL/CFS, con la complicità delle componenti politiche e istituzionali avverse al CFS, nel progressivo svuotamento delle competenze di quest’ultimo.
Come è potuto avvenire questo progressivo svuotamento? Risposta: sempre secondo il principio della “rana bollita”, stavolta messo in pratica dalle componenti sindacali citate, grazie ad una costante e martellante propaganda, interna ed esterna, volta alla dismissione di ogni attività e competenza del CFS che non fosse esclusivamente quella di polizia; “polizia, polizia, nient’altro che polizia”, era il mantra sindacale, in odio alla classe dirigente interna, portatrice della tradizione storica del CFS. Ecco, quindi individuata un elemento fondamentale nella responsabilità verso la soppressione del CFS. E non può, in tale frangente, non venire in mente l’immagine del marito che pratica l’auto-evirazione per far dispetto alla moglie.
Corpo di polizia tout court
Ed ecco dunque anche la risposta alla seconda domanda iniziale, cioè “cos’era il CFS alla vigilia della sua soppressione?” Risposta: era lo “scheletro” di quello che era inizialmente, ossia un Corpo tecnico dello Stato con funzioni di polizia (come da intenti del D.Lgs. 804/48), che ormai aveva perso gran parte degli originali contenuti e funzioni. Un’Amministrazione originariamente modellata sulla necessità di tutela, salvaguardia, gestione, cura e valorizzazione del patrimonio forestale e ambientale italiano, trasformata nel tempo in un Corpo di Polizia “tout-court”, inquadrato come tale dalla non meno assurda legge 36/04. Forestali a fare ordine pubblico in piazza, invece che forestali nei boschi. Non ci si può dunque meravigliare per la successiva soppressione del “quinto corpo di Polizia” ad opera del governo Renzi prono ai dogmi neoliberisti propugnatori di austerity a tutto campo a mo’ di improbabile cura dei problemi economici nazionali, creati, questi ultimi, dall’adesione, “imposta dall’alto”, ad un modello europeo pensato per “arricchire i ricchi a danno dei poveri”, come ampiamente dimostrato dai fatti degli ultimi due decenni, a dispetto degli appelli dei tanti “aedi mercenari” assoldati dai poteri forti per puntellare se stessi rispetto alla progressiva acquisizione di consapevolezza da parte del popolo espropriato della propria sovranità.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il CFS non esiste più, con buona pace di chi vorrebbe intravederne la continuità nell’Arma dei Carabinieri in cui è stato fatto confluire secondo il folle intento di quel governo di praticare i tal modo un improbabile risparmio, al posto del quale si sono invece avuti costi ulteriori, di cui si è già detto nell’articolo pubblicato il 20 febbraio scorso.
Custodi di valori
E’ qui che occorre rispondere alla terza domanda: “Cosa rappresentava il CFS per la cultura e la storia della Nazione, in termini di valori di cui era custode e portatore?”
In considerazione dell’importanza del patrimonio naturale, ambientale, forestale italiani, in considerazione dell’importanza culturale del patrimonio di tradizioni legate alle realtà sociali e insediative minori, alla loro storia, alla loro economia, a tutti gli aspetti cui si è precedentemente accennato, la risposta è che il disciolto CFS era una istituzione portatrice-custode proprio di quella cultura delle piccole realtà sociali legate al territorio, di quella saggezza delle popolazioni rurali legate tradizionalmente alla saggezza dell’economia del buon senso, sostituita nel tempo dall’economia del consumo sfrenato radicatasi nell’immaginario collettivo, prima ancora che nella realtà. Non un corpo di polizia, quindi, ma un corpo tecnico con funzioni di polizia, e dotato di spiccata caratterizzazione e specificità, difficilmente riproducibili in forme diverse da quella originaria.
Qui entra però in gioco la manipolazione mentale operata dai media al soldo dei potentati che hanno interesse a mistificare la realtà per ben determinati scopi. Per tale motivo il pubblico non riesce a focalizzare l’attenzione sulla differenza fra la situazione pregressa e quella attuale; l’opinione pubblica è portata a credere (per superficialità, ma anche a causa della manipolazione mediatica) che in fondo ciò che gli ex-forestali facevano prima, possono farlo anche ora che il Corpo Forestale dello Stato non esiste più, con i compiti, le competenze e le funzioni, trasferite all’Arma. Visione superficiale, volutamente instillata nelle menti dall’assordante silenzio dei media all’indomani della soppressione del CFS, per far assimilare l’idea che è stato meglio “ridurre i corpi di polizia da 5 a 4”, in linea con lo spot pubblicitario renziano. Tale visione, tanto miope quanto ignorante, non solo svilisce il ruolo del forestale, ma sottace l’importanza sociale di tale ruolo, omettendo la considerazione del lavoro pazientemente svolto, da sempre, dal personale del CFS sul territorio, a contatto con le persone, con quelle realtà sociali e aggregative minori facilmente dimenticate dalla “distratta” popolazione dei grandi e medi centri urbani, ormai preda del “mantra” neoliberista-consumista. Il CFS e il suo personale erano, dunque, a stretto contatto con quelle realtà sociali minori dimenticate, ma spesso custodi della preziosa eredità del passato, della saggezza, del buon senso, dell’accortezza, della conoscenza del territorio, del saper fare, della parsimonia, dell’inventiva, della responsabilità che costituivano il bagaglio culturale che ha consentito alle precedenti generazioni di portarci fino all’epoca attuale, malgrado le avversità da fronteggiare. Un bagaglio culturale che le generazioni successive, proprio come un “figliol prodigo”, hanno progressivamente perso, quando non addirittura rinnegato, in favore del “Moloch” consumista omologante che ha azzerato le coscienze e distrutto la memoria del passato anche recente, sostituendone i valori fondanti con i totem venerati sull’altare dei bisogni artificialmente indotti dal sistema.
Ben lungi, quindi, dall’essere “uno-dei-cinque-corpi-di-polizia-da ridurre-a-quattro”, come il patetico mantra renziano recitava, il disciolto CFS aveva nel proprio DNA — e qui sta la risposta alla terza delle quattro domande — la cultura del territorio, delle piccole realtà sociali, del valore dell’economia di sussistenza, della saggezza delle popolazioni rurali, dell’innato rispetto del patrimonio forestale, ambientale, faunistico, che financo negli ambienti venatori era ben chiaro, nella consapevolezza di dover lasciare alla Natura tempi e modi per rigenerare i propri equilibri. Ecco la differenza: un’antica cultura della fruizione saggia dei beni naturali, contrapposta all’attuale (in)cultura del prelievo rapace, indotto dalla manipolazione mentale finalizzata al consumo. Ecco la differenza fra il mondo dei forestali, umili e silenziosi servitori della Natura, dell’ambiente, del territorio, delle tradizioni culturali, delle realtà minori, e quello degli arroganti e ignoranti servitori del capitale finanziario globale, fautore del modello neoliberista speculativo e demolitore della storia e della cultura dei popoli, prima ancora che delle loro economie, e, oseremmo anzi affermare, propedeuticamente a tale scopo.
Il disastro ed i suoi complici
Il Corpo Forestale dello Stato ha subito una marcata trasformazione nel tempo, sotto le spinte di cui si è detto a proposito dell’opera nefasta di alcune componenti sindacali, nonché dei loro silenziosi complici del “sottobosco politico”. Basti pensare alla trasformazione subìta dai programmi dei corsi delle materie oggetto di insegnamento presso le sedi della prestigiosa Scuola del CFS: un tempo quelle materie erano orientate alla conoscenza della natura, del territorio nelle sue multiformi componenti, delle leggi che ne regolavano l’amministrazione, la gestione e la fruizione, alla conoscenza dei fenomeni naturali e dei rischi ad essi collegati. Con il passare del tempo e con la sconsiderata azione di smantellamento di questo patrimonio culturale storicamente consolidato e saggiamente utilizzato, nelle sedi della Scuola del CFS si è privilegiato l’insegnamento delle materie di polizia, incluse quelle relative all’ordine pubblico, nel folle delirio protratto da quelle componenti sindacali con l’appoggio esterno del “sottobosco politico-istituzionale”, che ha condotto i forestali a fronteggiare le manifestazioni di piazza o a effettuare i controlli all’ingresso degli stadi. I forestali, capite bene!
Sfortunatamente il popolo italiano, a dispetto della propria ricchezza di tradizioni e di cultura ereditate dalla propria storia plurimillenaria, o forse proprio a causa di tale retaggio, si contraddistingue per una spiccata emotività che lo rende piuttosto vulnerabile ai condizionamenti mentali. E’ anche per tale ragione, dunque, che il “mantra renziano” ha potuto attecchire grazie al vecchio luogo comune sui “forestali-della-Calabria”, costruito ad arte sull’equivoco del personale regionale a tempo determinato, emblema degli italici sprechi, che però nulla ha mai avuto a che fare con il CFS. Ebbene, la dimostrazione dell’asservimento dei media agli interessi delle élites è proprio in questo equivoco, tanto platealmente ridicolo quanto efficace nel manipolare le coscienze confondendole in assurdi e menzogneri luoghi comuni, abilmente sfruttati dagli arroganti e ignoranti imbonitori delle masse per far loro assimilare le idee fuorvianti. Ecco spiegato lo “spot elettorale del “risparmio con la riduzione dei Corpi di Polizia da 5 a 4.
Il “mantra sindacale” (“polizia, polizia, nient’altro che polizia..”), invece, si è sempre avvalso del fuorviante luogo comune dell’inconciliabilità delle attività tecnico-amministrative con quelle di sorveglianza e polizia, secondo il vecchio e puerile slogan: “controllori o controllati”. Che questo luogo comune (stupidamente caldeggiato, promosso e propagandato da parte delle peggiori frange sindacali nel corso degli anni) fosse totalmente falso e fuorviante sarebbe già facilmente dimostrabile con la considerazione che il CFS, così come era stato riordinato dai fondatori della Repubblica nel citato D.Lgs. 804/48, racchiudeva in sé in origine tutte queste attribuzioni, le quali, fintanto che non è stato attuato il decentramento amministrativo alle Regioni, hanno consentito una saggia gestione tecnico-amministrativa perfettamente armonizzata con la sorveglianza, la vigilanza, la prevenzione prima ancora che la repressione dei reati in ambito forestale. Vale la pena di soffermarsi sul concetto di prevenzione, preferito dal CFS rispetto a quello di repressione; la struttura e l’organizzazione del disciolto CFS consentivano, infatti, grazie alla “territorialità” di quell’Amministrazione e alla sua vicinanza alle realtà insediative minori, una notevole capacità di prevenzione dei reati e quindi dei conseguenti possibili danni ambientali, con l’ulteriore ricaduta positiva in termini di “educazione della popolazione”, che nel tempo aveva prodotto effetti benèfici a livello locale.
Surrealismo amministrativo
Al contrario, l’aspetto marcatamente repressivo che, dati alla mano, connota attualmente l’azione dei “Carabinieri Forestali” sul territorio, non previene i danni conseguenti ai reati, ma produce solo sanzioni, a danni ormai verificati.
La struttura del CFS nell’Italia degli anni cinquanta e sessanta era in tal senso, a memoria delle generazioni che ne ricordano le peculiarità, un sistema che funzionava. Gli aspetti tecnico-amministrativi e quelli di polizia a vocazione preventiva erano in tal senso non soltanto compatibili, ma molto efficaci. Ma i due “mantra”, quello Politico del decentramento, e quello sindacale della dismissione delle attività non strettamente di polizia montarono di pari passo con il livore dei loro propugnatori più ottusi e ignoranti, entrando poi in risonanza, e in tal modo amplificandosi a dismisura, con le spinte disgregatrici di quella parte della politica che mirava alla dismissione del CFS già molto prima della nefasta legge Madia.
Sempre secondo il citato principio della “rana bollita”, il ”mantra sindacale” si insinuò, all’interno del CFS, non solo nell’immaginario degli aderenti al sindacato, ma persino in quello di alcuni direttivi e dirigenti, i quali, abbagliati dal miraggio del potere, si allinearono servilmente ai loro stessi detrattori, in auge all’epoca, grazie al supporto politico dei nemici del CFS. Il condizionamento che ne derivò alla stessa organizzazione del CFS all’indomani del varo della legge 36/04 (che ne decretava l’inquadramento come Corpo di Polizia), fu talmente pesante da produrre autentiche “farse amministrative”: emblematico, a tale riguardo, il mancato riconoscimento della qualifica dirigenziale alle figure dei capi degli UTB - Uffici Territoriali per la Biodiversità (un tempo Uffici Amministrazione dell’Ex Azienda di Stato per le Foreste Demaniali - soppressa col DPR 616/77 - che gestivano le Riserve Naturali Statali), inquadrati come vicequestori e non come dirigenti, e purtuttavia gravati da ingenti responsabilità amministrative e contabili derivanti dall’autonomia gestionale di cui godevano; in tale assurdità c’era lo zampino del sindacato, che aveva imposto alla debole dirigenza del CFS il proprio dogma secondo il quale ogni attività che non fosse esclusivamente di polizia doveva essere scoraggiata, come nel caso della tutela della biodiversità, in una sorta di terrorismo psicologico, arrivando persino a impedire il riconoscimento della qualifica dirigenziale a figure professionali che ne meritavano l’attribuzione, non foss’altro per le notevoli responsabilità su di esse gravanti. Responsabilità, invece, non altrettanto pesanti per i loro colleghi Capi dei Comandi Provinciali, che invece erano inquadrati come dirigenti, in ossequio all’esaltazione delle funzioni di polizia svolte da quelle unità periferiche, secondo il citato “mantra sindacale”.
Superfluo aggiungere che l’assurdo ha riguardato anche la figura istituzionale preposta agli UTB, cioè il Capo dell’Ufficio (centrale) per la Biodiversità, che avrebbe necessitato dell’attribuzione della qualifica di Dirigente Superiore, mai attribuita. Proprio così: la follia di pochi esaltati sedicenti sindacalisti, unita al basso profilo di talune figure dirigenziali, produsse anche questo assurdo, tanto più grave se si considera che gli UTB - Uffici Territoriali per la Biodiversità svolgevano quella che era la funzione cardine del vecchio CFS: la gestione e la tutela delle Riserve Naturali Statali, aree protette da non confondere con i Parchi Nazionali o con quelli Regionali.
Sopraggiunta la soppressione del CFS si è assistito ad un ulteriore capolavoro del “surrealismo amministrativo”: gli uffici periferici cui era affidata l’importante funzione della gestione delle Riserve Naturali Statali sono stati ridenominati “Reparti Carabinieri Biodiversità” e la gestione delle Riserve Naturali Statali è stata affidata ad un corpo di Polizia Militare.
Ci permettiamo di dubitare che nell’Arma dei Carabinieri, pur depositaria di riconosciute eccellenze, potesse esistere la benché minima capacità, competenza o professionalità nella gestione di quelle 130 Riserve Naturali Statali distribuite sul territorio nazionale, delle quali vien da dubitare, addirittura, che si conoscesse l’esistenza stessa.
A nulla, peraltro, serve obiettare che “gli ex-forestali continuano la loro opera all’interno dell’Arma”, perché, al di là dei “rimpasti” interni effettuati all’indomani dell’accorpamento, quei “Reparti Carabinieri Biodiversità” hanno perso la loro autonomia gestionale, che risulta invece essenziale per un lavoro efficiente di tutela e promozione del patrimonio ambientale ad essi affidato. Le normative amministrative e contabili dei Carabinieri sono, infatti, propriamente adatte a un’amministrazione militare, che non gestisce territori, patrimoni floro-faunistici, strutture dedicate, colture agricole eccetera, e risultano del tutto inadeguate se applicate a un’amministrazione che deve risolvere quotidianamente, con rapidità ed efficienza, problemi di tipo aziendale, la cui gestione è quindi paralizzata dalla struttura gerarchica rigida ed esasperatamente burocratica dell’Arma, il cui complesso apparato di comando e controllo, che anche per decidere in merito a banalità deve passare per il Comando Generale, e che pertanto non può adattarsi alle esigenze tipiche della gestione delle Riserve Naturali così come veniva condotta prima della riforma, quando i responsabili degli UTB erano funzionari delegati e disponevano di fondi loro affidati per la gestione, e che ovviamente poi erano tenuti a un accurato rendiconto del loro utilizzo, da cui le particolari responsabilità che avrebbero implicato l’attribuzione della qualifica dirigenziale, osteggiata dal potere (nemmeno troppo) occulto del sindacato.
E si badi bene che la Gestione delle Riserve non è “ordinaria amministrazione”; è una gestione che necessita di estrema flessibilità, snellezza burocratico-procedurale, sensibilità ambientale, conoscenza profonda degli aspetti che ne regolamentano il funzionamento, tali da avere implicazioni rilevanti a livello internazionale e ricadute potenzialmente rischiose per lo Stato, laddove non gestite con le caratteristiche operative dianzi elencate: infatti all’interno delle Riserve Naturali dello Stato son ricompresi ambienti e specie animali e vegetali di primario e fondamentale valore naturalistico e scientifico, tutelati specificamente a livello europeo, e inseriti nella “Rete Natura 2000” comprendente le aree di maggior valore naturalistico internazionale, tutelate da quelle normative europee il cui rispetto è atto dovuto per gli Stati membri, e la cui inosservanza comporta il rischio di subire una procedura di infrazione da parte dell’Unione Europea per mancato utilizzo dei fondi europei stanziati e per inadempimento degli obblighi previsti.
Errori o orrori?
Tornando alla presunta (e sbandierata) incompatibilità fra le funzioni tecnico-amministrativo-gestionali e quelle di sorveglianza, vigilanza, prevenzione e repressione dei reati, essa è poi ulteriormente smentita in modo clamoroso non soltanto da quegli esempi esteri dove la compatibilità fra queste due sfere di competenza è un dato di fatto, ma anche dalle realtà “nostrane” delle quattro Regioni e due Province a Statuto Speciale. In esse, infatti, i locali Corpi Forestali sono titolari, guarda caso, proprio di quei compiti e funzioni di cui era titolare anche il CFS fino alla nascita delle Regioni (quelle ordinarie) e del conseguente decentramento delle funzioni di cui si è detto. Nelle Regioni Autonome e nelle Province Autonome i Corpi Forestali fanno gestione e sorveglianza, amministrazione tecnica e attività preventivo-repressiva, con buona pace delle fandonie propagandate dal SAPAF nel corso di molti anni, con l’obiettivo di trasformare il CFS in un corpo di polizia “tout-court”, fino a riuscirvi, esponendolo così all’inevitabile soppressione attuata dagli incompetenti renziani.
Al di là degli errori (o forse “orrori”?) concettuali a nostro avviso compiuti, come accennato, già a livello Costituzionale, i problemi derivano dall’aver compiuto progressivamente scelte di indirizzo politico che di fatto anteponevano gli interessi dei potentati politico-economico-finanziari (annidati soprattutto a livello locale come mostrano le cronache) alle reali esigenze nazionali, demolendo quei principi, stabiliti nell’atto di nascita dello Stato repubblicano dai Padri Costituenti e scaturiti dalla maturazione delle coscienze nelle drammatiche fasi storiche del XX secolo, associati ai valori di fondo che ne erano l’elemento fondante.
Quei principi fondamentali si sono scoloriti nei decenni attraverso la colonizzazione dell’immaginario collettivo operata dai potentati economico-finanziari globali, che hanno influenzato le generazioni successive inducendole a dimenticarli a vantaggio del vuoto concettuale odierno.
Secondo quei principi il bene comune di una nazione passa, tra l’altro, anche attraverso la conoscenza e la tutela dell’ambiente inteso nella generalità delle sue componenti; concetto che all’epoca del varo della Costituzione non poteva, per evidente necessità della Storia di disporre dei suoi tempi per avanzare, ancora essere correttamente individuato nella completezza dell’accezione attuale, e che avrebbe necessitato di essere ampliato e posto in essere avendo presente la necessità di salvaguardare in primis l’interesse comune e il bene collettivo.
La proposta
Ripartire dagli obiettivi basati su quei principi, secondo l’evoluzione della coscienza, e nel recupero dei valori fondanti. Ecco la chiave per rispondere alla quarta domanda: “come si può risolvere l’attuale stato di cose?”
Occorre proprio ripartire dagli obiettivi basati su quei principi fondamentali, i quali risultano non soltanto tutt’ora validi, ma a maggior ragione sono da prendere come riferimento in un periodo di “fluidità” politica conseguente al cambio di paradigma economico che ha trascinato gli Stati in quella che non è una crisi ma un attacco pianificato ai diritti sociali, ai principi costituzionali, alla effettiva rappresentanza politica dei popoli, al loro diritto di autodeterminazione, e, di conseguenza, agli equilibri sociali, alla qualità della vita, alla salute, all’ambiente, al benessere della persona. Tutti valori sacrosanti e sistematicamente calpestati dai poteri finanziari, dai mercati, dagli interessi delle lobby a livello globale.
All’individuazione degli obiettivi da cui ripartire consegue allora l’imprescindibile necessità di dedicare alla tutela e alla gestione della Natura e dell’Ambiente uno specifico Corpo Tecnico dello Stato con funzioni di polizia (molto diverso da un corpo di polizia tout-court, come venne erroneamente inquadrato il CFS dalla legge 36 del 2004), il quale, a rigor di logica, dovrebbe avere giurisdizione anche sul territorio delle Regioni a Statuto speciale, perché le funzioni di cui appare naturale che tale istituzione sia depositaria non possono prescindere dalla continuità territoriale e dalla validità generale dei principi cui queste funzioni sono sottese. La naturale e logica collocazione di siffatta istituzione dovrebbe evidentemente essere il Ministero dell’Ambiente.
Ecco dunque che, completato il quadro, e data altresì risposta alle quattro domande “propedeutiche”, è possibile dare finalmente la risposta anche alla domanda iniziale: “perché si è arrivati alla soppressione del CFS?”
Risposta: perché anche la soppressione del CFS fa parte di un insieme di azioni poste in essere da quelle frange della politica asservite ai dogmi neoliberisti propugnatori di austerity invece che economia espansiva. Quei dogmi hanno distrutto l’economia reale degli Stati, li hanno privati dei tradizionali strumenti di manovra per poter intervenire sull’economia reale regolamentandone in modo saggio l’andamento, sì da poter attuare investimenti anche in quei settori in cui si articola la civiltà e la vera ricchezza dei popoli secondo quanto già espresso in questa sede, e che pertanto non staremo a ripetere.
Quei dogmi neoliberisti portano all’inevitabile assoggettamento dei popoli attraverso il sistematico impoverimento dei sempre più numerosi poveri, a vantaggio dell’arricchimento dei sempre meno numerosi ricchi (pochissime persone nel mondo possiedono più ricchezza che miliardi di individui) e impedendo così agli Stati di favorire il proprio sviluppo e la propria crescita di una sana economia reale, rispettosa degli equilibri, dei diritti sociali, dei principi stabiliti in secoli di progresso culturale, sociale, civile, umano. Quei dogmi neoliberisti sono stati il punto di riferimento per lo smantellamento dello Stato Sociale, per la deflazione salariale, per la compressione dei diritti sociali, per i tagli alla sanità, alla scuola, alla previdenza, ai servizi, alla sicurezza, al decoro, per la drastica riduzione del vero benessere della popolazione, che non è dato dal numero di centri commerciali sul territorio o da quello dei SUV circolanti (vere icone del plagio mentale e della colonizzazione dell’immaginario collettivo operata dal modello neoliberista consumista), ma bensì dal livello dei servizi, dall’armonia sociale, dalla qualità dell’istruzione, dal reale pluralismo dell’informazione, dall’equa distribuzione della ricchezza, dalla sicurezza, dalla qualità della vita, dalle aspettative future, dalla tutela dell’ambiente, della salute, del benessere psicofisico della persona, dal suo rapporto armonioso di fruizione consapevole e sostenibile del territorio.
E’ questo lo scenario in cui sono stati effettuati i sistematici “tagli” alle spese degli Stati, ovviamente a tutto vantaggio della finanza speculativa globale. E dunque, sempre in questo quadro rientra anche il presunto e tanto propagandato quanto menzognero “taglio” alle spese che l’insipienza degli autori della soppressione del CFS hanno messo in atto con la legge Madia.
Qui è importante focalizzare l’attenzione su un passaggio fondamentale: la folle soppressione del CFS implica non un solo errore, ma due. Un doppio errore, a ben vedere: innanzitutto perché non si tratta di un falso risparmio, che in realtà ha comportato maggiori spese; in secondo luogo perché è proprio sbagliato il concetto di “taglio”, propugnato dal dogma neoliberista secondo lo schema poc’anzi descritto, perché è dimostrabile che l’economia espansiva è l’unica possibilità che ha uno Stato di rivitalizzare la propria crescita e la propria produttività a vantaggio dell’economia reale e di tutto ciò che da ciò consegue in termini di servizi sociali e ricadute positive sulla collettività, sempre secondo quanto dianzi esposto.
E’ da osservare, a questo punto, che la (parziale) acquisizione di consapevolezza rispetto alla fallacia dei dogmi neoliberisti colonizzatori dell’immaginario collettivo lascia intravedere alcuni spiragli di cambiamento e di possibile inversione di rotta, ma occorre avere ben presente il quadro globale in cui ci si trova a lottare per i valori e per i principi di cui si è detto.
Tale quadro globale vede attualmente stravolto l’ordine gerarchico delle discipline che dovrebbero definire e regolamentare le azioni umane; il mondo attuale vede infatti la finanza speculativa dominare sull’economia; l’economia dettare le regole alla politica; la politica prevalere sulla cultura. Tale situazione ha prodotto i disastri a livello globale cui assistiamo da molto tempo.
Per poter consentire ai popoli di uscire da quest’assurdo stato di cose, l’ordine dovrebbe quindi essere ribaltato: la cultura dovrebbe essere il “faro” della politica; la politica dovrebbe dare gli indirizzi all’economia; l’economia dovrebbe avvalersi della finanza in modo funzionale ai propri scopi (e non il contrario, come avviene da troppo tempo). Quest’ultima osservazione introduce i concetti e i principi contenuti nel “Manifesto per un’economia umanistica” recentemente promosso dal Prof. Valerio Malvezzi, economista dell’Università di Pavia, sotto forma di una lettera ai Potenti della Terra. L’economia umanistica pone le proprie basi nella considerazione che gli obiettivi primari dell’essere umano antepongono a tutto proprio quegli aspetti di cui si è detto: la salute, l’ambiente, la cultura, la socialità, l’informazione libera, i diritti sociali, e via dicendo, in tutte le loro articolazioni che rendono un popolo civile, progredito, consapevole, libero, sovrano.
La chiave di lettura, quindi, della vicenda del Corpo Forestale dello Stato, può trovarsi nella consapevolezza di questo panorama globale e di queste istanze apparentemente nuove, ma in realtà portatrici di valori che affondano le radici nella storia e nella tradizione culturale dei popoli. Pertanto la soluzione al problema può e deve essere adottata nella piena consapevolezza di questo panorama globale, coerentemente con le necessità di ribaltare gli attuali dogmi e restituire agli Stati e ai popoli la loro dignità, la loro libertà, la loro sovranità.
La ricostituzione del Corpo Forestale dello Stato, nelle modalità definite dai ragionamenti condotti, dovrebbe essere solo uno dei tanti atti di buon senso animati dalla consapevolezza di tutto quanto sinora esposto.
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3 commenti:
Stupendo intervento Marco, ottima analisi! Grazie soprattutto per aver ricordato e dato la giusta dignità agli ex UTB ed alle attività condotte a tutela e presidio della biodiversità nella gestione delle 130 Riserve Statali. Non posso dire di essere un veterano del CFS ma ricordo benissimo i sindacati e i colleghi lanciati nelle attività d polizia appellarci come "raccoglitori di farfalle"! Evidentemente qualcuno si è approfittato di questo smarrimento identitario per seppellirci. Un abbraccio Marco. Vincenzo Andriani
Che sia stato un grande errore la soppressione del Corpo Forestale dello Stato e' fuor di dubbio e i risultati nefasti sono sotto agli occhi di tutti,anche di coloro che hanno decretato cio' perche' non sono stupidi seppure improvvedi. La soppressione del C.F.S. e' stata decretata, ovviamente, dal potere politico ma l'imput a cio' e' venuto da altrove.
Grazie per la tua manifetazione di appoggio al mio articolo Vincenzo. Non sono ottimista sui possibili scenari futuri (e infatti me ne sono andato con un certo anticipo in pensione), ma continuo a "combattere" come posso. Un caro saluto. Marco
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