John Maynard Keynes ed il ministro del Tesoro USA Henry Morgenthau Jr
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Keynes mirava a qualche modesto intervento di riparazione del capitalismo liberale, per farlo funzionare senza la necessità di una rivoluzione socialista
Questo blog si è occupato del pensiero di Keynes a più riprese. Ne segnaliamo alcune:
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Keynes era davvero il grande internazionalista che mirava a rendere il capitalismo un sistema stabile attraverso la gestione macroeconomica su scala mondiale? Questa è l'affermazione di Ann Pettifor nella sua recente lode a Keynes. Keynes è diventato famoso dimostrando che le politiche di austerità inflitte alla Germania dopo la prima guerra mondiale sarebbero state controproducenti per gli interessi di Francia e Gran Bretagna. E pare sia stato il promotore della "costruzione dell'architettura finanziaria internazionale a Bretton Woods nel 1944. I politici e gli economisti (se non i banchieri) avevano infine appoggiato la sua teoria e le sue politiche" (Pettifor).Certo, voleva creare istituzioni “civilizzate” per assicurare pace e prosperità a livello globale attraverso la gestione internazionale delle economie, delle valute e del denaro. Ma queste idee di un ordine mondiale per controllare gli eccessi del capitalismo sfrenato si sono alla fine concretizzate in istituzioni come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e il Consiglio delle Nazioni Unite, principalmente utilizzate per promuovere le politiche dell'imperialismo, con gli Stati Uniti alla guida. Invece di un mondo di leader “civilizzati” che risolvono i problemi del mondo, abbiamo avuto un'aquila terribile che impone la sua volontà sul pianeta. Gli interessi materiali decidono le politiche, non gli economisti intelligenti. Keynes, l'internazionalista, ci ha dato l’austerità del FMI sulle economie emergenti in difficoltà.Inoltre, Keynes fu sempre più un rappresentante degli interessi dell'impero britannico che un internazionalista. Dopotutto, era stato nel servizio civile britannico in India. Il biografo di Keynes, Lord Skidelsky, intitolò il terzo volume della sua biografia Keynes: Fighting for Britain. Durante gli incontri di Bretton Woods nel dopoguerra, Keynes rappresentò non le masse mondiali o un ordine mondiale democratico, ma i ristretti interessi nazionali dell'imperialismo britannico contro il dominio plateale americano. Dopo l'accordo, Keynes disse al parlamento britannico che l'accordo di Bretton Woods non era “un'asserzione del potere americano ma un ragionevole compromesso tra due grandi nazioni con gli stessi obiettivi; ripristinare un'economia mondiale liberale”. Solo due nazioni erano importanti, gli interessi degli altri erano ignorati.Keynes era un internazionalista quando si trattava di economia? Ha iniziato come un fautore del libero scambio seguendo la tradizionale visione neoclassica secondo cui il mercato libero nel commercio avrebbe giovato tutti. Da studente prestò servizio come segretario dell'Associazione di libero scambio della Cambridge University e ne sostenne le posizioni in diversi dibattiti. “Dobbiamo mantenere il libero scambio, nella sua interpretazione più ampia, come un dogma inflessibile, a cui non è ammessa alcuna eccezione, ovunque sia una nostra scelta. Dobbiamo attenerci a ciò anche quando non riceviamo reciprocità di trattamento e anche in quei rari casi in cui violandolo potremmo in effetti ottenere un vantaggio economico diretto. Dovremmo attenerci al libero scambio come un principio della morale internazionale, e non semplicemente come una dottrina del vantaggio economico”. Nel 1928, tuttavia, Keynes aveva cambiato la sua posizione suggerendo che”"la difesa del libero commercio deve essere basata sul futuro, non su principi astratti del laissez-faire, che pochi ora accettano, ma sull'opportunità e sui vantaggi effettivi di una tale politica".La terribile esperienza della Grande Depressione cambiò ulteriormente le sue opinioni. In dichiarazioni private fornite nel 1930 davanti al Comitato Macmillan per le finanze e l'industria, istituito per offrire consulenza economica al governo britannico all'inizio della Grande Depressione, Keynes propose dazi sull’importazione di beni esteri e sussidi per gli investimenti interni. Alla domanda se l'abbandono del libero scambio valesse i potenziali effetti migliorativi della protezione, Keynes rispose: "Non ho raggiunto un'opinione chiara su dove sia l'equilibrio del vantaggio", ma vedeva il merito dei dazi come un sollievo dal crollo economico. “Ho una paura spaventosa del protezionismo come una politica a lungo termine", dichiarò, "ma non possiamo permetterci di avere sempre lunghe vedute… la domanda, a mio parere, è fino a che punto siamo disposti a rischiare svantaggi a lungo termine per ottenere un aiuto nella situazione immediata”.In poco tempo, si spostò sempre più verso misure protezionistiche. In risposta alle domande del primo ministro, Keynes dichiarò di essere “stato riluttante a convincersi che alcune misure protezionistiche andavano introdotte”. In un memorandum preparato nel settembre 1930 per il Comitato degli economisti dell’Economic Advisory Council, Keynes studiò i benefici dei dazi, che ora descriveva come “semplicemente enormi”. Questi benefici comprendevano la soluzione del problema fondamentale del disallineamento dei costi del denaro e del tasso di cambio: una tariffa doganale aumenterebbe i prezzi interni e ridurrebbe i salari reali verso il loro “valore di equilibrio”, al contempo evitando una caduta dirompente dei salari nominali (quindi i salari reali cadono senza che la classe lavoratrice se ne accorga). Una tariffa “ripristinerebbe la fiducia delle imprese e creerebbe un clima favorevole per nuovi investimenti”, affermava, “ma non dovrebbe (se non progettata in modo inadeguato) suscitare richieste da parte dei sindacati per retribuzioni più elevate o avere effetti negativi sull'occupazione”.* Fonte: La città futura
Le tariffe doganali avrebbero quindi aiutato il capitale britannico contro i suoi concorrenti comprimendo i redditi reali delle famiglie britanniche. Keynes preferiva la svalutazione della moneta, ma considerava come necessari anche i dazi. Iniziò quindi a sostenere le politiche economiche cd. del “rubamazzo” (ovvero che producono benefici unicamente al Paese che lo adotta e danni agli altri, ndT) per aiutare il capitale britannico contro i suoi rivali. Nel 1933 scrisse della sua simpatia “verso coloro che volevano ridurre al minimo, piuttosto che con quelli che avrebbero massimizzato, i legami economici tra le nazioni. Idee, conoscenza, arte, ospitalità, viaggi: queste sono le cose che dovrebbero essere di carattere internazionale. Ma lascia che le merci siano fatte in casa quando è ragionevole e convenientemente possibile; e, soprattutto, lascia che la finanza sia principalmente nazionale”.
Tuttavia, una volta che la depressione e la guerra finirono, Lord Keynes nel suo ultimo discorso tornò a sostenere la teoria del “libero scambio” (…). Penso che tutto questo ci dica che Keynes era un internazionalista e un fautore del libero commercio quando pensava che questo sarebbe stato nell'interesse del capitale britannico, ma a favore della protezione e di politiche del “rubamazzo” quando pensava che sarebbe stato nell'interesse dello stesso capitale britannico. Per lui c'erano solo due nazioni “civilizzate”, Stati Uniti e Regno Unito (come partner minore), che potevano guidare il mondo. Keynes non ha mai criticato il ruolo dell'Impero britannico, al contrario, l'ha visto come una cosa buona e da preservare.
L'Europa come una rivale dell'imperialismo americano arrivò dopo la morte di Keynes. Con l'ascesa dell'Europa, il capitale britannico iniziò a muoversi verso il continente, entrando a far parte del mercato unico e dell'UE. Ma il capitale britannico rimaneva diviso su dove allinearsi. All'interno della psiche dell'élite dirigente britannica (principalmente quella del capitale più piccolo e locale), rimaneva una nostalgia per l'Impero e uno sguardo fisso oltre lo “stagno” atlantico. Con la caduta delle economie europee dopo la Grande recessione, i lealisti dell'impero reazionario hanno spinto per una rottura con l'Europa e un ritorno al “vecchio ordine” come partner minore dell'imperialismo americano che esisteva ai tempi di Keynes.Come avrebbe reagito Keynes a questo? Dal mio punto di vista, com'era ai tempi di Bretton Woods, Keynes sarebbe stato generalmente favorevole al commercio più libero e ai flussi di capitali internazionali, poiché pensava che sarebbe stato vantaggioso per il capitale anglo-americano. Quindi potrebbe aver sostenuto l'ingresso del Regno Unito nell'UE, ma non nell'euro, perché ciò avrebbe portato via il controllo sulla valuta e l'opzione della svalutazione. Quale sarebbe stata la visione di Keynes sulla Brexit? Keynes sarebbe stato un "leaver" o un "remainer"? Probabilmente il primo, dove risiedono le sue inclinazioni nazionaliste. Ma forse anche il secondo, dal momento che come diceva il suo rivale economico degli anni '30, Friedrich Hayek, Keynes cambiava le sue idee come cambiava le sue camicie. Keynes era un internazionalista solo finché non era in conflitto con gli interessi del capitale britannico (o dell'imperialismo americano) - praticamente la stessa posizione di Churchill.Keynes si opponeva con veemenza all'internazionalismo socialista. Keynes vedeva tutti suoi interventi come progettati per salvare il capitalismo da se stesso e per evitare la temuta alternativa del socialismo. Come ha chiarito: “Per la maggior parte, penso che il Capitalismo, saggiamente gestito, possa probabilmente essere reso più efficiente così da raggiungere i fini economici di qualsiasi altro sistema alternativo, ma che di per sé è in molti modi estremamente discutibile. Il nostro problema è di elaborare un'organizzazione sociale che sia il più efficiente possibile senza offendere le nostre nozioni di uno stile di vita soddisfacente”. Così “la guerra di classe mi troverà dalla parte della borghesia istruita”.Ha mai combattuto per una maggiore uguaglianza? Questo è quello che ha detto. “Per parte mia, credo che ci sia una giustificazione sociale e psicologica per significative disuguaglianze di reddito e ricchezza, ma non per le grandi disparità che esistono oggi. Ci sono attività umane preziose che richiedono il motivo del profitto e l'ambiente della proprietà privata della ricchezza per la loro piena fruizione”. Questo è il rivoluzionario di Pettifor.Keynes calcolava che con l'espansione del capitalismo, attraverso una maggiore tecnologia, avrebbe creato un mondo di abbondanza e svago. A causa di questa abbondanza, il rendimento dei prestiti destinati agli investimenti sarebbe caduto e quindi banchieri e finanzieri non sarebbero più stati necessari; sarebbero potuti essere eliminati (“l'eutanasia del rentier”). Bene, non sembra che stia succedendo. I seguaci di Keynes ora sostengono che il capitalismo viene distorto dalla “finanziarizzazione” e dal capitale finanziario - e questo è il vero nemico. Cosa è successo alla graduale eliminazione delle finanze nel tardo capitalismo a la Keynes?Al contrario, la teoria del capitale finanziario di Marx non prevedeva una graduale rimozione della finanza; Marx ha descritto l'accresciuto ruolo del credito e della finanza nella concentrazione e centralizzazione del capitale nel tardo capitalismo. Sì, le funzioni di gestione e investimento diventano più separate dagli azionisti delle grandi aziende, ma ciò non modifica la natura essenziale del modo di produzione capitalistico - e certamente non implica che i tagliatori di cedole o gli speculatori nel mondo degli investimenti finanziari scompaiano gradualmente.Keynes, il presunto oppositore radicale dell'economia neoclassica, secondo Pettifor, tornò sui suoi passi. In uno dei suoi ultimi articoli sull'economia capitalista alla fine della Grande Depressione e all'inizio della seconda guerra mondiale, Keynes osservò che “la nostra critica alla teoria classica dell'economia accettata non consisteva tanto nella ricerca di errori logici nella sua analisi quanto nel fare emergere che i suoi taciti presupposti sono raramente o mai soddisfatti, con il risultato che non può risolvere i problemi economici del mondo reale. Ma se i nostri controlli centrali riescono a stabilire un volume aggregato di produzione il più vicino possibile alla piena occupazione, la teoria classica torna a essere di nuovo vera da questo punto in poi”. Quindi una volta ottenuta la piena occupazione, possiamo fare a meno della pianificazione e dell’“investimento socializzato” per far ritorno ai mercati liberi e alla tradizionale politica e politica neoclassica: “il risultato di colmare le lacune nella teoria classica non è quello di disporre del “Sistema di Manchester” (mercati "liberi”- nota dell’autore), ma di indicare la natura dell'ambiente che richiede il libero gioco delle forze economiche per realizzare le piene potenzialità della produzione”.Effettivamente, dal punto di vista della teoria economica, nei suoi ultimi anni Keynes ha elogiato il capitalismo 'liberale' molto laissez-faire che i suoi seguaci condannano ora. Nel 1944, scrisse a Friedrich Hayek, il principale 'neo-liberista' del suo tempo e mentore ideologico del thatcherismo, per lodare il suo libro The Road to Serfdom, che sostiene che la pianificazione economica conduce inevitabilmente al totalitarismo: 2moralmente e filosoficamente mi trovo d'accordo praticamente con tutto questo; e non solo in accordo con esso, ma in un accordo profondamente commosso”! E Keynes ha scritto nel suo ultimo articolo pubblicato, “mi trovo commosso, non per la prima volta, a ricordare agli economisti contemporanei che l'insegnamento classico incarnava alcune verità permanenti di grande significato .... Ci sono in queste cose correnti sotterranee profonde, forze naturali, come si possono chiamare, o anche la mano invisibile, che operano verso l'equilibrio. Se non fosse così, non saremmo potuti andare avanti così bene come abbiamo fatto per molti decenni”. Così l'economia (neo)classica della “mano invisibile” e dell’“equilibrio” è tornata dopo tutto - l'opposto per cui i seguaci keynesiani ora si battono. Una volta passata la tempesta (di crollo e depressione) e quando “l'oceano” è tornato di nuovo piatto, la società borghese poteva tirare un sospiro di sollievo. Quindi Keynes il radicale si trasformò in Keynes il conservatore.Eppure il mito di Keynes, radicale e rivoluzionario, è preservato e promosso dalla sinistra keynesiana e continua ad influenzare il movimento operaio (in particolare i suoi leader) come l'alternativa al neoliberalismo, all’austerità, all’economia di mercato.Perchè succede? Bene, ci sono ragioni teoriche. La macroeconomia keynesiana presuppone che il capitalismo lavori per sviluppare le forze produttive e per soddisfare i bisogni delle persone. Il problema è che occasionalmente c'è un “malfunzionamento tecnico” (Paul Krugman). Per qualche ragione (perdita di fiducia o spiriti animali?), l'investimento capitalista rimane bloccato in una modalità di “accumulo di denaro” da cui non può uscire (trappola della liquidità). Quindi è necessario che le autorità governative diano una “spinta” con stimoli monetari e/o fiscali, e poi tutto tornerà di nuovo come prima - fino alla prossima volta! Keynes amava considerare gli economisti come dentisti che risolvono un problema tecnico di mal di denti nell'economia (“Se gli economisti riuscissero a farsi considerare come persone umili e competenti ai livelli dei dentisti, sarebbe magnifico”). E i keynesiani moderni hanno paragonato il loro ruolo a idraulici che riparano le falle nella conduttura dell'accumulazione e della crescita.Quello che l'analisi marxista del modo di produzione capitalista rivela è che in definitiva il capitalismo non può porre fine alla disuguaglianza, alla povertà, alla guerra e non può consegnarci un mondo di abbondanza per il benessere comune a livello mondiale, o neanche può evitare la catastrofe del disastro ambientale (qualcosa che viene ignorato da Keynes). Questo perché il capitalismo è un modo di produzione guidato dal profitto superfluo; dallo sfruttamento e non dalla cooperazione; e ciò genera contraddizioni inconciliabili che non possono essere risolte dalla “macro-gestione tecnica” dell'economia. Possono essere risolte solo sostituendo il capitalismo. In questo senso, Marx, piuttosto che Keynes, è vicino a Darwin come rivoluzionario in economia.Ma c'è un'altra ragione. Geoff Mann, nel suo eccellente libro ‘Sul lungo periodo siamo tutti morti’, ha offerto una spiegazione. Keynes governa a sinistra perché offre una presunta terza via tra la rivoluzione socialista e la barbarie, cioè la fine della civiltà come 'noi' (in realtà la borghesia come Keynes) la conosce. Negli anni '20 e '30 Keynes temeva che il “mondo civilizzato” affrontasse la rivoluzione comunista o la dittatura fascista. Il socialismo come alternativa al capitalismo della Grande Depressione avrebbe potuto benissimo abbattere la 'civiltà' e liberare la 'barbarie' - la fine di un mondo migliore, il crollo della tecnologia e dello stato di diritto, più guerre ecc. Quindi Keynes mirava a qualche modesto intervento di riparazione del “capitalismo liberale”, per farlo funzionare senza la necessità di una rivoluzione socialista. Non ci sarebbe bisogno di andare sul terreno dove gli angeli della “civiltà” temono di camminare. Questa era la narrativa keynesiana. Questo è un appello (che ancora fa presa) ai leader del movimento operaio e ai "liberali" che vogliono il cambiamento. La rivoluzione è rischiosa e potremmo tutti andare giù con lei: “la sinistra vuole la democrazia senza il populismo, vuole una politica di trasformazione senza i rischi della trasformazione; vuole la rivoluzione senza rivoluzionari” (Mann p.21).Ma saremo davvero tutti morti se non poniamo fine al modo di produzione capitalistico. E ciò richiederà una trasformazione rivoluzionaria. Armeggiare con i presunti malfunzionamenti del capitalismo “liberale” non “salverà” la civiltà - sul lungo termine.
** L’articolo in lingua originale è apparso il 17 ottobre 2018 su
http://thenextrecession.wordpress.com*** Traduzione a cura di Francesco Delledonne
11 commenti:
Articolo interessante, non sapevo che cambiasse idea i maniera così volatile. Però dice:
1) "stabilire un volume aggregato di produzione il più vicino possibile alla piena occupazione"
e poi prosegue
2) "Quindi una volta ottenuta la piena occupazione, possiamo fare a meno della pianificazione"
In realtà è anche peggio di così, se le parole in (1) sono esatte lui non vuole affatto ottenere la piena occupazione come detto in (2), ma solo arrivarci "il più vicino possibile". Frase ambigua, non significa nulla di preciso ma esclude proprio il raggiungimento effettivo della piena occupazione. Vista la facilità con cui cambiava idea che significato possiamo dargli noi? Significa: generiamo domanda di lavoro tale da raggiugere un effettitiva situazione di quiete sociale ma stiamo bene attenti a non andare oltre neppure di un millimetro.
Del resto è anche interessante l'articolo dell'economista MMT Bill Mitchell (1 e 2) che dice (grassetto mio):
"Ma per me il vero punto di scontro con Keynes è la sua visione che il deficit fiscale dovesse essere in equilibrio nell’arco di un ciclo economico e che questo consentirebbe allo Stato di ripagare il debito contratto negli anni di deficit. Quella visione – da allora – ha vanificato il pensiero progressista da allora ed è antitetica rispetto alla MMT."
Dunque Keynes non era neppure contrario al pareggio di bilancio, ma voleva un pareggio di bilancio nell'arco del ciclo economico, mentre la MMT vorrebbe "avere continui deficit fiscali in tempi normali" (poi bisogna vedere se e come riesce politicamente ad ottenerlo, ma questa è un altra storia) ed essere subordinati al raggiungimento effettivo della piena occupazione garantita.
Bisogna però ricordare che anche la MMT è una teoria che si muove esclusivamente all'interno della sfera economica come se questa potesse essere analizzata in separata sede rispetto ai processi politici. Inoltre non si può certo escludere che essa voglia fare la stessa cosa di Keynes, salvare il capitalismo da sé stesso, ma con un approccio diverso: tenergli i lavoratori in caldo con un sottolavoro temporaneo e sottopagato permanente disponibile finanziato (di transizione al privato dice Saint Warren, non scordiamocelo mai) con tutto il deficit che questo richiede.
Certo è pur sempre meglio di Keynes, che la piena occupazione di fatto voleva solo sfiorarla, ed evidenzia i punti negativi e dubbi del suo approccio ma la diffidenza, anche nel caso della MMT, resta sempre giustificata.
Giovanni
Occorrerebbe ficcarsi in testa che l'economia è la materia che studia i capitali.
Pertanto non è possibile trovare un economista che sia del tutto indipendente dalla loro logica di produzione e accumulazione.
Neppure Keynes poteva esserlo, ovviamente. Meno che mai in un'analisi assolutistica del suo pensiero.
Ciò non toglie che nei confronti dell'accezione estremistica dell'oltranzismo Hayekiano oggi imperante, la visione che Keynes portò a Bretton Woods e risultò perdente, quindi è del tutto scorretto attribuirgli gli assetti attuali a livello economico e i meccanismi con cui operano, sia quanto di più vicino al socialismo nei rapporti tra stati. Proprio per la sua idea di riequilibrare i disavanzi nella bilancia dei pagamenti (Bancor), che se lasciati liberi di accumularsi o addirittura si predispone un'architettura istituzionale atta a favorirli quanto più possibile, come avviene oggi nella stessa UE, producono in breve gli effetti che abbiamo sotto gli occhi e dei quali ancora non conosciamo le conseguenze ultime.
Durante lo scorso secolo furono due guerre mondiali devastanti, un intero continente e altri paesi sparsi totalmente rasi al suolo, con il sacrificio di intere generazioni, cancellate dalla violenza del conflitto. Oltre al definitivo radicarsi delle dinamiche di dominio globale che pure fuorno la causa prima di quei conflitti.
La differenza è che oggi le armi a disposizione sono infinitamente più efficaci e lo strapotere di chi del capitale ha il controllo non è più neppure paragonabile a quello di 70 o 100 anni fa.
Pertanto, seguire l'atteggiamento tipico dell'antifa, che rifiuta a priori tutto quanto non combaci a perfezione con la sua visione del mondo fanciullesca, fatta di bandiere rosse gioiosamente sventolanti che casualmente non trova corrispondenza alcuna nella realtà dei fatti e ne fa un mero dissociato, conduce in ultima analisi a fiancheggiare le posizioni di Von Hayek, in quanto critiche nei confronti del Keynesismo, e dunque a favorire quella corrente e gli interessi da cui muove. Proprio come il sinistrato attuale fa regolarmente gli interessi della finanza globalizzata e ne condivide parole d'ordine e finalità, credendo invece di combatterla.
Se invece si ha intenzione di costruire un'alternativa alla dittatura del liberismo ordinamentale che oggi domina incontrastata e non sia una mera enunciazione di velleità, occorre trovare una base concreta da cui sviluppare un modello di solidarietà, condivisione e sviluppo di una nuova coscienza di equità sociale.
In quest'ottica credo che ancora oggi sia difficile trovare qualcosa di meglio del pensiero Keynesiano.
Certamente è il frutto di concezioni capitaliste, ma forse sarebbe il caso di rammentare che oggi ci troviamo in una fase in cui il capitalismo, inteso oltretutto nella sua accezione più estremista, sta trionfando dappertutto.
Non tenere conto di questo sarebbe solo un velleitarismo bambinesco, appunto male endemico di quello che è stata la sinistra e nei fatti l'ha condotta a essere un concetto del tutto impraticabile.
In effetti attribuire a Keynes gli sviluppi finali di Bretton Woods come fa questo articolo è abbastanza scorretto. Tuttavia il punto importante per noi sono le ricadute di una eventuale applicazione alla nostra attuale situazione delle sole politiche economiche keynesiane, politiche basate su un generico aumento della domanda di lavoro tramite un intervento diretto dello stato limitato a certi settori e con un deficit sul quale comunque si dovrà rientrare in futuro.
Se la critica a Keynes viene non solo dai vari e fanciulleschi sinistrati ma anche da altri economisti come Mitchell, che certo non possono essere definiti né hayekiani né sinistrati, allora forse una riflessione è legittima ed anche necessaria. Certo poi voglio vedere come la proposta dello stesso Mitchell del PLG si realizza. Essi si impegnano a garantire un allocazione al lavoro a tutti quelli che ne fanno richiesta, ciò significa che se ricevono sei-milioni-ed-uno domande di lavoro devono allocarli tutti e sei-milioni-ed-uno senza escluderne nessuno, siccome non dicono come lo faranno chissà perché io ho una certa idea sul come andrebbe finire. E le politiche keynesiane propongono addirittura meno di questo, centrare la riflessione su questo punto mi sembra ragionevole.
Giovanni
Mitchell nella sua critica è velleitario almeno quanto il sinistrato bandiere al vento.
Per il semplice motivo che
-1 nessuno e tantomeno lui è stato capace di stabilire quale differenza ci sia, nei fatti, tra programmi di lavoro garantito e lavoro obbligatorio. Men che meno è dato sapere quale sia la soglia che separa il primo dal secondo.
-2 in una crisi irreversibile di domanda come quella che viviamo, riesce alquanto difficile stabilire cosa si potrebbe far fare a tutta questa gente. Si, ci sono i soliti discorsi di manutenzione e cura del territorio, servizi agli anziani eccetera. Ma se in un contesto come quello attuale di saturazione dei mercati di merci e servizi non vogliamo ridurre masse che superano il 30% della popolazione a un esercito di stradini, giardinieri e badanti, non resta molto altro dal mettere tutti a scavare buche e poi richiuderle. A quel punto, allora, meglio buttare soldi dall'elicottero. Non si vanno a cercare genialate improbabili, su cui c'è sempre il piddino di turno che trova il modo di speculare e rendere di fatto la realtà di certe politiche del tutto contraria alle intenzioni con cui le si è promulgarte, sovvertendone il significato e soprattutto gli esiti. Oltretutto si risparmiano risorse, che potranno esere destinate a rendere ancora più efficace il meccansmo di redistribuzione.
-3 non tiene conto delle dinamiche attuali che ormai hanno quasi del tutto spostato i meccanismi di accrescimento dei capitali dalla produzione di merci, con tutti i rischi e le contrarietà che essa comporta, alla speculazione pura. Più redditizia ma che soprattutto si sbarazza di tutte le incertezze insite nel rapporto con la forza lavoro, l'imprevedibilità dei mercati eccetera. Per non parlare dell'inquinamento, a parte la carta straccia che si produce allo scopo.
-4 neppure è in grado di prospettare una via di uscita dalla tendenza al continuo abbassamento dei salari, che in ultima analisi rende del tutto superfluo, o meglio privo di significato, qualsiasi programma di piena occupazione.
Le politiche keynesiane elementi del genere non li toccano proprio, per un motivo semplicissimo: si limitano a stabilire un contesto generale, quello appunto della cancellazione degli squilibri economico-commerciali tra i diversi stati, in cui i meccanismi dellì'iperliberismo attuale non avrebbero più senso alcuno. Dato che a nulla servirebbe praticare politiche austeritarie e ridurre le masse lavoratrici in povertà, per poi vedersi sistematicamente azzerare qualsiasi vantaggio che ne possa derivare.
Se le "politiche keynesiane elementi del genere non li toccano proprio" allora vuol dire che c'è un vuoto che si dovrebbe cominciare a riempire, almeno tentativamente. Oppure no?
Le critiche di Mitchell saranno pure velleitarie (ed aggiungerei anche economiciste), io stesso ho scritto che "siccome non dicono come lo faranno chissà perché io ho una certa idea sul come andrebbe finire", però almeno questo sforzo di riempire quel vuoto lo fanno. Dunque io apprezzo il suo sforzo, sono molto perplesso sulla soluzione che propone, ma ben venga lo sforzo.
Certo non trascuro il fatto che da ciascuno di questi sforzi nascono varie sette, il PLGisti, gli RdCisti e tutti gli altri, ognuna con la sua presunzione di detenere "la verità". In fondo anche questo, per quanto triste, è inevitabile. Il tuo giudizio mi sembra indulgente verso Keynes e più sferzante verso Mitchell ma questo è possibile solo perché Keynes questo sforzo non lo fa, visto che "politiche keynesiane elementi del genere non li toccano proprio", mentre invece Mitchell prova a farlo. Chi non fa non sbaglia, solo chi fa può sbagliare.
Infine, fra gli "squilibri economico-commerciali tra i diversi stati" passano anche i conflitti geopolitici ed i rapporti di forza all'interno di questi. Tali squilibri non si riescono a riequilibrare proprio perché questi rapporti sono in via di progressiva disgregazione a causa del più o meno lento declino della potenza unipolare statunitense. Lo sblocco di questo punto, che in un modo o nell'altro prima o poi arriverà, ci porterà dentro una fase multipolare di accentuata conflittualità. Insomma, sono i primi lampi delle tempeste che verranno e che mi appaiono inevitabili, però in questo percorso bisognerà pure che qualcuno faccia lo sforzo di riempire quel vuoto di cui dicevo all'inizio di questo commento. Anche perché è solo all'interno di queste fasi di tempesta che si aprono gli spazi per poter cambiare qualcosa, dopo sarà troppo tardi.
Giovanni
Un bellissimo articolo che smaschera e rende palese, in modo trasparente e compiuto, le vere motivazioni che hanno condotto la sinistra keynesiana e i suoi satrapi ad essere, perché divenuta e percepita come stampella dei dominanti, espulsa dal cuore delle persone che soffrono e dalla scena politica nazionale e mondiale. In uno dei punti salienti dell’articolo si afferma: “questo perché il capitalismo è un modo di produzione guidato dal profitto superfluo; dallo sfruttamento e non dalla cooperazione e ciò genera contraddizioni inconciliabili che non possono essere risolte dalla “macro-gestione tecnica” dell’economia. Possono essere risolte solo sostituendo il capitalismo”. In un altro passaggio si denuncia che nonostante quanto sopra riportato “il mito di Keynes, radicale e rivoluzionario, è preservato e promosso dalla sinistra keynesiana che continua a influenzare il movimento operaio (in particolare i suoi leader) come l’alternativa al neo liberalismo, all’austerità, all’economia di mercato e la spiegazione di questo viene fornita da Geoff Mann tratta dal suo libro “sul lungo periodo siamo tutti morti” dove afferma che Keynes governa a sinistra perché offre “una presunta terza via tra rivoluzione sociale e la barbarie” per lei molto più comoda e sicura da percorrere, anche se non conduce da nessuna parte e lascia il tempo che trova, perché non la costringe a dover rischiare e scegliere ritenendo che per lei anche la scelta della strada della rivoluzione sociale sia troppo estrema e pericolosa “la rivoluzione è rischiosa e potremmo andare giù con lei – la sinistra vuole la democrazia senza il populismo, vuole una politica di trasformazione senza i rischi della trasformazione, vuole la rivoluzione senza rivoluzionari”; una sinistra priva di valori e di radici che è disposta e/o si rende disponibile ad alzare delle barricate contro il sistema solo quando è certa che queste saranno realizzate usando solo la “mobilia degli altri”. Contro questa opzione e visione politica, lentamente ma inesorabilmente, sta prendendo corpo un numero sempre più crescente di persone che hanno maturato la convinzione e determinazione che sia giunta, e non più rinviabile, l’ora di dare forma e sostanza ad una sinistra alternativa oggettivamente anticapitalista che liberatasi finalmente dell’illusione di poter utilizzare (anche solo tatticamente) la falsa arma dell’utopia keynesiana sarà in grado di portare e condurre quell’attacco frontale necessario per combattere e abbattere i principi e i valori liberali che stanno alla base e a sostegno dell'etica e dello spirito capitalista.
pasquino55
Giovanni, prendere una parte del discorso altrui, estrapolandolo dal resto e mutandone in sostanza il significato, è un pretesto evidente.
In compenso vedo che ti sei guardato bene dal rispndere nel merito delle questioni da me sollevate, che per comodità del lettore e dell'interlocutore ho suddiviso in punti.
Quindi non so proprio cosa dirti.
Se le cose le volete capire, bene. Altrimenti fate come volete.
Giovanni, prendere una parte del discorso altrui, estrapolandolo dal resto e mutandone in sostanza il significato, è un pretesto evidente.
In compenso vedo che ti sei guardato bene dal rispndere nel merito delle questioni da me sollevate, che per comodità del lettore e dell'interlocutore ho suddiviso in punti.
Quindi non so proprio cosa dirti.
Se le cose le volete capire, bene. Altrimenti fate come volete.
Le risposte dettagliate punto per punto, specialmente nei periodi di transizione, non le ha mai nessuno. Si può solo andare andare per tentativi. Anche ricondurre tutto a dettagliatissime risposte è un pretesto, e pure un po' disfattista. Tipico fra l'altro di chi pensa di saper le cose e che gli altri non le vogliano capire.
In fondo anche una parte delle proposte di Marx si è rivelata velleitaria ma non per questo dobbiamo buttar via Marx. Però non tutte le critiche a Marx sono necessariamente segno di complicità con il capitalismo e non tutte le critiche a Keynes possono essere ricondotte alla mentalità sinistrata.
Giovanni
Le risposte dettagliate punto per punto, specialmente nei periodi di transizione, non le ha mai nessuno. Si può solo andare andare per tentativi. Anche ricondurre tutto a dettagliatissime risposte è un pretesto, e pure un po' disfattista. Tipico fra l'altro di chi pensa di saper le cose e che gli altri non le vogliano capire.
In fondo anche una parte delle proposte di Marx si è rivelata velleitaria ma non per questo dobbiamo buttar via Marx. Però non tutte le critiche a Marx sono necessariamente segno di complicità con il capitalismo e non tutte le critiche a Keynes possono essere ricondotte alla mentalità sinistrata.
Giovanni
Aggiungo. Fare il pelo e contropelo alla proposta di Mitchell è un evidente fuori tema rispetto a questo articolo. L'ho tirato in ballo solo per la sua critica a Keynes, che mi sembra ragionevole, aggiungendo che se pure mi piace la sua critica ho invece molti dubbi sulla proposta. Non vedo l'utilità di spostare la discussione su un altro argomento.
Il soggetto qui non è Mitchell ma Keynes, il punto è capire se possa essere utile darne una rilettura critica per capire cosa ha fatto è perché, per capire cosa manca e cosa dovremmo far noi. Del resto se la proposta di Keynes a Bretton Woods risultò perdente forse è perché era storicamente irrealistatica, anzi velleitaria.
Giovanni
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