[ 14 novembre 2018 ]
L'uscita dall'euro è solo in parte un problema tecnico, è anzitutto un problema politico. Ce lo spiegano due autori francesi che con questo articolo simulano gli eventuali scenari dell'uscita della Francia e come vincere il braccio di ferro coi mercati. Scenari che non sono molto diversi da quelli che dovrebbe affrontare l'Italia. Proposte e misure d'emergenza che dovranno essere sostenuete da una forte mobilitazione popolare e che vanno nella stessa direzione di quella descritte e auspicate da Programma 101. Tra gli economisti citati nell'articolo c'è Jacques Nikonoff, segretario nazionale di PARDEM (organizzazione sorella di Programma 101).
* * *
di Renaud Lambert e Sylvain Leder
Nel dicembre 1997, l’allora direttore de Le Monde diplomatique Ignacio Ramonet lanciava l’appello a “disarmare i mercati”. A distanza di quasi ventuno anni, l’antagonismo tra finanza e sovranità popolare non è scomparso, come testimoniano le recenti convulsioni italiane, turche e argentine (1). Al di là delle proposte formulate nel 1997, rimane aperta una questione: come andare avanti? Se si sceglie di non rispondere, ci si espone a due minacce: la sindrome di Edipo e lo spettro di Medusa.
* Fonte: Le Monde diplomatique, OTTOBRE 2018, ed. italiana di il manifesto
NOTE
(1) Si legga “L’investitore non vota”, Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2018, prima tappa del ragionamento qui svolto.
(2) Gli autori sono ben coscienti che si tratta di un paradosso; come preparare la popolazione alla lotta che ci si appresta ad affrontare e alle fatiche che essa comporta senza provocare l’ira dei mercati e la catastrofe economica alla quale questa può condurre… prima ancora di essere arrivati al potere?
(3) Rispettivamente autori, fra l’altro, di Jusqu’à quand? Pour en finir avec les crises financières, Raisons d’agir, Parigi, 2008; Sortons de l’euro! Restituer la souveraineté monétaire au peuple, Mille et une nuits, Parigi, 2011; e La Monnaie et ses mécanismes, La Découverte, Parigi, 2017.
(4) Differenza fra il tasso d’interesse applicato ai titoli di debito emessi da un determinato paese e quello applicato ai titoli emessi da un altro paese ritenuto solido (la Germania, per esempio).
(5) Si legga Laura Raim, “De la monnaie unique à la monnaie commune”, Manuel d’économie critique de Le Monde diplomatique, 2016. (Traduzione di Marianna De Dominicis)
L'uscita dall'euro è solo in parte un problema tecnico, è anzitutto un problema politico. Ce lo spiegano due autori francesi che con questo articolo simulano gli eventuali scenari dell'uscita della Francia e come vincere il braccio di ferro coi mercati. Scenari che non sono molto diversi da quelli che dovrebbe affrontare l'Italia. Proposte e misure d'emergenza che dovranno essere sostenuete da una forte mobilitazione popolare e che vanno nella stessa direzione di quella descritte e auspicate da Programma 101. Tra gli economisti citati nell'articolo c'è Jacques Nikonoff, segretario nazionale di PARDEM (organizzazione sorella di Programma 101).
SE UN GOVERNO VOLESSE DAVVERO CAMBIARE LE COSE…
Lo scenario di un
braccio di ferro con i mercati
Dopo
un primo articolo che analizzava il controllo della finanza sugli Stati (“L’investitore
non vota”, le Monde Diplomatique del luglio 2018), questa seconda puntata si interessa alla maniera di
resistervi.
Nella mitologia greca, Edipo incarna un’illusione: quella di poter
sfuggire al proprio destino. Quando la Pizia gli annuncia che ucciderà suo
padre e sposerà sua madre, l’eroe fugge da Corinto, accelerando in tal modo
l’avverarsi della profezia. Da tempo gli economisti di sinistra avvertivano:
quando e se il loro campo politico fosse arrivato al potere e avesse preteso di
attuare il proprio programma, la “dittatura dei mercati” lo avrebbe messo
meccanicamente di fronte alla necessità di uno scontro. Tentare di ignorare
questa realtà o spostare la riflessione sulle sue conseguenze – per non
allarmare i mercati, per esempio – è l’equivalente contemporaneo della fuga
edipica. Accelera la tragedia, come ha evidenziato, nel 2015, l’improvvisa
capitolazione della formazione greca Syriza.
C’è un secondo scoglio, simboleggiato da un altro personaggio
della mitologia greca: Medusa, che pietrificava chiunque avesse l’audacia di
incrociarne lo sguardo. Diverse organizzazioni politiche e associazioni
dispiegano preziose analisi per descrivere la Gorgone finanziaria. Ma al
momento di immaginare un metodo per sconfiggerla, tutti sembrano colti da
imbarazzo. Un recente saggio dell’Associazione per la tassazione delle
transazioni finanziarie e per l’azione cittadina (Attac) intitolato Dix ans
après la crise, prenons le contrôle de la finance (Dieci anni dopo la
crisi, assumiamo il controllo della finanza, Les liens qui libèrent, 2018),
che si presenta come un “libro per l’azione”, spiega nei dettagli come
la finanza abbia preso in ostaggio il mondo al momento del crollo dei mercati,
nel 2008. Ma quando si arriva alla parte dedicata alle azioni da intraprendere
per scardinare il sistema, gli autori lasciano cadere lo scalpello per far
posto a una sorta di polvere di stelle: “Sogniamo un po’”, propongono,
prima di tratteggiare la loro “utopia rea-listica”… in forma passiva: “Il
peso degli investitori istituzionali viene ridotto”, “gli hedge
funds sono vietati”, “la strategia di breve termine dei mercati
finanziari viene abbandonata ”, “viene attuata una ristrutturazione dei
debiti nel quadro di una conferenza internazionale sul debito”. Medusa
minaccia; Medusa è morta. Chi l’ha uccisa e come? Al lettore non è dato
saperlo.
E se Edipo non
fuggisse? Se la sinistra osasse fissare il proprio sguardo in quello dell’avversario?
Ci si potrebbe rivolgere alla storia per meditare su vittorie ottenute, in
passato, contro i mercati; ce ne sono state. Ma il passato, pur fornendo
ragioni di speranza, non dà ricette adatte allo stato attuale dei rapporti di
forza. Gli investitori sembrano aver moltiplicato per dieci la propria capacità
di nuocere a ogni crisi che hanno provocato. E questo, a proposito dei successi
di ieri, suscita la domanda: ciò che è stato possibile, continua a esserlo?
Un contesto
politico ideale
Scegliamo qui un
esercizio di immaginazione, che permette di isolare le variabili per
concentrare il ragionamento sul conflitto con i mercati. Tratteggiamo un
contesto politico ideale. Per esempio il seguente.
A causa di una crisi di grande portata, il paesaggio politico
francese vacilla. La popolazione vuole voltare pagina rispetto al neoliberismo;
elegge una persona determinata a farlo e le garantisce una comoda maggioranza
in Parlamento. La squadra di governo può contare su una formazione politica
matura, con quadri competenti e in numero sufficiente per poter sostituire gli
alti funzionari recalcitranti al cambiamento. Nelle strade, la mobilitazione
popolare, massiccia e festosa, fa da argine contro le manovre della reazione. I
media privati, screditati, non riescono a giocare un ruolo di opposizione: la
loro animosità nei confronti del potere conforta la determinazione della
popolazione. Polizia ed esercito, dal canto loro, si attengono a un criterio di
legalità, che scongiura la prospettiva di un colpo di Stato.
Un’atmosfera da
cartolina, quando normalmente la realtà registra una lotta all’ultimo coltello?
Certo. Eppure, malgrado questo scenario idilliaco (2), le forze progressiste
dovranno impegnarsi in un conflitto di rara violenza. Infatti, la semplice
volontà di mantenere le promesse elettorali equivale già a una dichiarazione di
guerra: “Un leader progressista che si mostrasse determinato scatenerebbe
immediatamente la reazione ostile dei mercati, e più in generale di tutte le
forze del capitale, analizza l’economista e filosofo Frédéric Lordon. Reazione
che lo costringerebbe a partire in quarta, in una escalation foriera di misure
molto radicali, a meno di “capitolare””. La battaglia contro i mercati ha
un costo – lo si vedrà in seguito – , ma rende possibili le trasformazioni in
precedenza interdette dall’oligarchia finanziaria: fine della precarietà, della
corsa alla produttività, dello sfruttamento sconsiderato delle risorse
naturali, del consumo frenetico, del cocktail quotidiano di stress e sostanze
psicotrope, delle diseguaglianze abissali… “Si tratta di misurare bene, precisa
Lordon, il livello di ostilità al quale ci si espone, e di capire che una
volta lanciati non ci si può fermare. Non sono possibili approcci gradualisti.”
Per portare
avanti questo esercizio di simulazione, ci affidiamo a tre muse poco disposte
alla cautela in tempo di tempesta: Frédéric Lordon, che abbiamo appena
presentato; Jacques Nikonoff, professore associato all’Istituto di studi
europei dell’università Paris VIII, ex allievo dell’École nationale
d’administration (Ena), già rappresentante della Caisse des dépôts et
consignations (Cassa depositi e prestiti) negli Stati uniti e attaché finanziario
per il Tesoro a New York; e Dominique Plihon, professore di economia
finanziaria all’università Paris-XIII (3).
Le elezioni
presidenziali e legislative hanno provocato la reazione dei mercati: lo spread
(4) francese sale e gli investitori disertano i titoli della Francia. I
grandi patrimoni, allarmati dalla promessa di Parigi di farla finita con
l’ordine neoliberista, cercano di portar via una parte delle loro fortune.
L’abbandono degli investitori e la fuga dei capitali si ripercuotono sulla
bilancia dei pagamenti, mettendo in pericolo la solvibilità dello Stato.
A quel punto
entra in scena l’Unione europea. Sul piano politico, la Commissione europea
moltiplica le dichiarazioni che ricordano quella del suo presidente Jean-Claude
Juncker nel 2015: “Non ci possono essere scelte democratiche contro i
trattati europei ” (Le Figaro, 29 gennaio 2015). L’ordine di battere
in ritirata è accompagnato da minacce di sanzioni per il mancato rispetto dei
criteri di “buona condotta” fissati dal patto di stabilità e di crescita
europeo adottato nel 1997: un deficit pubblico inferiore al 3% del prodotto
interno lordo (Pil) e un livello di indebitamento che non superi il 60% del
Pil. Siccome la Francia non è la Grecia, presto la crisi arriva a minacciare
l’insieme dei paesi dell’eurozona. La situazione diventa praticamente
insostenibile.
A questo punto,
la Francia assomiglia a un colabrodo: gli euro escono dal territorio da ogni
possibile apertura. In un regime di libera circolazione dei capitali (garantita
dai trattati europei), le possibilità di fuga sono numerose. Tre, in
particolare, richiedono una reazione più rapida di quella autorizzata dal ritmo
normale delle procedure legislative: occorrerà dunque procedere a colpi di
decreti.
In primo luogo la
hot money, gli investimenti speculativi a breve termine. Capitali che
svolazzano da un’occasione di investimento all’altra. Spaventati
dall’orientamento politico di Parigi, fuggono dal territorio francese alla
velocità dell’elettronica ed esauriscono le riserve in valuta del paese.
Soluzione? “Un sistema detto “deposito”, come quello utilizzato dalla
Malaysia durante la crisi del 1997-1998”, propone Lordon. Lo strumento
impone ai capitali in ingresso o già presenti sul territorio dello Stato un
deposito di garanzia (dell’ordine di un terzo) che viene restituito solo a
certe condizioni: un tempo minimo di presenza sul territorio (per esempio, un
anno, contro le poche decine di minuti – in media – di oggi), il che limita le
attività speculative senza ostacolare investimenti produttivi, esportazioni e
importazioni.
Secondo vettore
di fuga dei capitali: le frontiere. I patrimoni dei più ricchi le valicano in
modo massiccio. C’è un modo per trattenerli: fa parte della scatola degli
attrezzi per il controllo dei capitali, che solo a evocarla provoca crisi di
apoplessia in certe redazioni. Eppure, “questi meccanismi furono utilizzati
in Francia fra il 1939 e il 1967, e poi fra il 1968 e il 1989”, ricorda
Nikonoff. È successo anche in
Argentina durante la crisi del 2001. Si tratta di reintrodurre il
contingentamento: la regola, semplice, limita le somme che i privati possono ritirare
agli sportelli della loro banca. E disciplina anche le richieste di valuta da
parte delle imprese e delle famiglie in funzione del loro utilizzo futuro.
Il terzo elemento
che minaccia di rovinare l’economia francese si riferisce al debito. “La prima
cosa da fare è annunciare una moratoria sul pagamento del debito”, pensa
Nikonoff. “Questo offre l’occasione di lanciare un audit presso i
cittadini, simile a quello organizzato dal Collectif pour un audit citoyen
de la dette publique [Cac, Collettivo per un audit popolare del
debito pubblico] nel 2014, aggiunge Plihon. L’assemblea, formata da
cittadini, eletti, rappresentanti della società, dimostra che l’esplosione del
debito, passato dal 60% al 100% del Pil fra il 2008 e il 2018, deriva in gran
parte dalla crisi finanziaria. Si stabilisce dunque che una parte importante
del debito non è legittima. In altre parole, i cittadini del paese non devono
rimborsarla. ” Nel 2014, le analisi del Cac avevano stimato che il 59%
dell’ammontare attuale del debito non doveva essere rimborsato.
A questo punto
l’esercizio di immaginazione si complica: “Una moratoria sul debito
francese, superiore ai 2.000 miliardi di euro, provocherebbe immediatamente una
crisi sistemica importante, avverte Lordon, pur senza consigliare di
rinunciarvi. Tutti gli investitori internazionali (e nazionali) esposti al
rischio sovrano francese ne sarebbero destabilizzati. Sarebbe il panico a tutti
i livelli, e diverse banche crollerebbero”. Che fare allora in queste
condizioni? L’economista indica almeno due strade: “Avvertire abbastanza
tempestivamente che la Francia onorerà gli impegni presso i suoi creditori,
a delle condizioni che fisserà in modo sovrano e senza contrattare nuovi
debiti sui mercati. Oppure lasciare arrivare il caos e approfittarne:
raccattando con il cucchiaio le banche fallite, per… 0 euro”.
In uno scenario
di scontro con i mercati, quest’opzione consente di organizzare la transizione
verso un sistema socialista del credito. “La cosa più importante, continua
Nikonoff, è che, d’improvviso, il rapporto di forze è stato invertito: non è
più lo Stato a subire la pressione degli investitori, ma il contrario. E a quel
punto il primo è in grado di creare incertezza nel campo dei secondi,
dividendoli – è un punto cruciale, per evitare l’emergere di un fronte unito.”
In che modo? “Annunciando, ad esempio, che alcuni attori verranno rimborsati
e altri no. E sulla base di tassi la cui entità il potere politico si riserva
di decidere...”
“Ci vuole un po’ di ruvidezza”
Una volta tappato
il colabrodo francese gli euro non escono più; ma nemmeno entrano, perché gli
investitori non hanno intenzione di investire in un paese che non potrebbero
più lasciare. La moratoria ha offerto un margine di manovra finanziaria a
Parigi, ma questa non basta a colmare il deficit primario del paese (lo scarto
fra le entrate e le spese della pubblica amministrazione). Nel 2017, le somme
destinate al pagamento degli interessi sul debito ammontavano a 42 miliardi di
euro: il disavanzo primario, a ulteriori 15 miliardi. Occorre dunque trovare le
liquidità necessarie a pagare i funzionari, far funzionare le scuole ecc. In
altri termini, allentare il cappio dei mercati “implica immaginare un modo
di finanziamento dello Stato che non passi più per i mercati stessi, riassume
Lordon. Sembra una logica elementare… visto che si cerca appunto di
liberarsene”.
“In un primo momento, Parigi può rivolgersi alla Banca centrale
europea [Bce] per chiederle di comprare titoli del debito”,
suggerisce Plihon. Tentativo vano: come previsto, Francoforte respinge la
richiesta, contraria allo statuto dell’istituzione. “In questo caso la Francia
si rivolge alla banca centrale nazionale, spiegando il proprio rifiuto del
diktat della Bce”, conclude l’economista.
“A lungo gli Stati si sono finanziati presso le proprie banche
centrali, spiega Nikonoff. Queste ultime prestavano a tassi di interesse
che potevano essere inferiori a quelli del mercato; a volte a tasso zero.
Accadeva anche che facessero anticipi non rimborsabili.” E se il governatore
della Banque de France, a sua volta, si mostra riluttante rivendicando l’“indipendenza”
dell’istituto? “Bisogna far leva sui rapporti di forza, taglia corto
Plihon. Non si può vincere senza un po’ di ruvidezza.” Lordon è sulla
stessa linea: “Le strutture dell’economia internazionale e delle economie
nazionali sono state congegnate in modo tale che, per piegare le forze della
finanza, bisogna proprio spezzarne la colonna vertebrale. Sono richieste misure
brutali. Si cambia l’universo politico.”
Ecco così la
Banque de France è liberata dalla sua indipendenza a geometria variabile, che
la teneva legata unicamente agli interessi del mondo della finanza. Il governo
si rivolge dunque al risparmio interno, sufficientemente importante – una
fortuna di cui i greci non disponevano – da offrire una seconda fonte di
finanziamento solida: “Il solo patrimonio finanziario (escluso
l’immobiliare) delle famiglie è stimato intorno ai 3.800 miliardi di euro,
1.300 dei quali sotto forma di assicurazioni sulla vita, scriveva il
giornalista economico Jean-Michel Quatrepoint nel 2010 (La Tribune, 27
dicembre 2010). Quello dello Stato (sempre escludendo gli immobili) si
aggira intorno agli 850 miliardi di euro. Un totale di attivi per casa Francia
(imprese a parte) di 4.650 miliardi di euro. A fronte di questo, il debito
delle famiglie è pari a 1.300 miliardi, tre quarti dei quali in crediti
immobiliari. E quello dello Stato, a 1.600 miliardi. Il saldo è dunque
ampiamente positivo”. Da allora il debito francese è salito a 2.000 miliardi,
ma il ragionamento non ne viene inficiato.
Per raccogliere
questo risparmio, Nikonoff propone di emettere obbligazioni non negoziabili, un
dispositivo già utilizzato in California nel 2009. Questo Stato, minacciato dal
default, distribuì promesse di pagamento (Iou, dall’inglese I owe you, “ti
devo”) per pagare i propri conti. I titoli, remunerati, potevano in seguito
essere utilizzati dalla popolazione. All’epoca, la California era guidata da un
governatore repubblicano: Arnold Schwarzenegger.
“Per il resto
si ottengono prestiti forzosi presso banche e compagnie di assicurazione, continua
Nikonoff. In altri termini, lo Stato impone a quelle società l’acquisto di
una determinata quota dei suoi titoli di debito.” Un meccanismo di
confisca? “Attualmente una quindicina di banche francesi e internazionali ha
firmato un disciplinare per ottenere lo status di specialista in valori del
Tesoro [Svt] presso l’Agence France Trésor. Fra i loro obblighi:
acquistare ciascuna almeno il 2% di ogni emissione, dunque un totale del 30%
per le 15 Svt. Eppure, nessuno denuncia questo sistema come una forma di
risparmio forzoso. Potremmo limitarci a estendere lo status di Svt all’insieme
degli istituti bancari.” Prima, per esempio, di allargare il meccanismo dei
prestiti forzosi alle famiglie. “Nel 1976, ricorda Plihon, durante la
grande siccità, lo Stato aveva obbligato quella parte di popolazione che aveva
un certo livello di imposta sul reddito a prestargli denaro a condizioni non
negoziabili.” La Caisse des dépôts et consignations, che è tuttora pubblica
in Francia, offre lo strumento ideale per raccogliere e gestire questi flussi.
I margini di
manovra finanziaria così conquistati permettono al governo di attuare un
programma sociale in grado di confermare il consenso popolare: miglioramento
della protezione salariale, rivalutazione delle pensioni, sforzo generale per
migliorare il livello di vita senza passare per un aumento dei consumi
(gratuità dei trasporti pubblici, delle mense scolastiche, degli alloggi
sociali…).
Ma la situazione
va stabilizzata nel lungo periodo. Per lavorare in tal senso, lo Stato ha uno
strumento efficace: le tasse. Le forze politiche al governo in Francia non
hanno dimenticato che, prima della progressiva erosione della fiscalità sui
grandi patrimoni e sul capitale a partire dagli anni 1970, governi conservatori
avevano praticato livelli di imposizione che oggi la stampa economica
giudicherebbe da confisca. Fra il 1950 e il 1963, gli inquilini della Casa
bianca non si chiamavano né Lenin né Ernesto “Che” Guevara, ma Harry Truman,
Dwight Eisenhower e John Fitzgerald Kennedy. Eppure, tutti mantennero
un’aliquota marginale (la più elevata, e applicata unicamente alla frazione
superiore del reddito delle famiglie più agiate) superiore al 90%. Ispirato da
questo precedente, il governo francese ristabilisce un sistema di prelievi
obbligatori progressivi sull’insieme dei redditi, eliminando le nicchie fiscali
e sociali che permettono di sfuggire alla misura. Inoltre, reintroduce
l’Imposta di solidarietà sul patrimonio rendendola abbastanza decisa e
progressiva da indurre le famiglie più ricche – il 10% dei francesi più
abbienti possiede il 47% del patrimonio nazionale – a vendere una parte dei
propri beni per ottemperare.
Ben presto si
pone la questione delle banche: “Sarebbe piuttosto difficile spiegare che
tutto quanto descritto è stato realizzato per permettere al sistema bancario di
proseguire le sue attività sui mercati finanziari e per esporre la società alle
loro tendenze squilibranti”, osserva Lordon. Indeboliti dall’annuncio di
una moratoria sul debito o dalla disciplina (severa) delle loro attività
speculative, alcuni istituti perdono la propria ragion d’essere. Parigi ne
approfitta per nazionalizzare quelli di cui ha bisogno. Per poi, riprende Plihon,
“affidarne la guida ad assemblee di utenti e dipendenti, così da evitare le
difficoltà del 1981, quando i gestori di Stato si erano rivelati disposti a
gestire come società private gli istituti nazionalizzati”. Per evitare
interruzioni alla circolazione monetaria, il governo se ne attribuisce il
controllo, in modo da garantire la disponibilità di moneta sull’insieme del
territorio, ad esempio attraverso la rete delle agenzie de La Poste.
Naturalmente, la
moneta unica vacilla. Delle due l’una: o la Francia viene espulsa dall’Unione
europea per il mancato rispetto dei trattati che vietano, ad esempio, ogni
ostacolo alla libera circolazione dei capitali (il principio stesso delle
misure che mirano a lottare contro i mercati); oppure l’euro va in pezzi a causa
delle tensioni provocate dallo sconvolgimento francese. A questo punto, si
presentano due scenari: uno ottimista, l’altro meno. Nell’ipotesi ideale, il
momento politico vissuto dalla Francia trova una eco all’estero. Altri paesi
cambiano a loro volta, o in seguito a una crisi della stessa natura che produce
effetti analoghi, o perché l’esempio francese pungola altre forze politiche.
Insieme a Parigi, questi paesi elaborano una strategia per sbarazzarsi del
dominio dei mercati e si uniscono per dotarsi di una moneta comune che permetta
di proteggere le monete nazionali dai mercati (5).
Essere pronti quando verrà il momento
Ma niente
garantisce che altri popoli si ispireranno – e con lo stesso slancio – alla
determinazione francese. Parigi potrebbe rimanere isolata. In questa ipotesi,
la sua espulsione dalla zona euro (che avverrebbe nel momento in cui la Banque
de France iniziasse a stampare carta moneta su ordine del governo) oppure il
crollo della moneta unica provocano un ritorno al franco (con gli euro in
circolazione che vengono convertiti alle condizioni fissate dal governo). “Almeno
in un primo tempo, il franco è dichiarato non convertibile per le famiglie e le
imprese, suggerisce Nikonoff. Questa disposizione non ostacola il
commercio internazionale, perché le imprese che hanno bisogno di valuta si
rivolgono alla loro banca la quale, a propria volta, sollecita la Banca
centrale. Ma consente di lottare efficacemente contro la fuga dei capitali e di
proteggere la moneta dallo scatenarsi dei mercati.” In seguito, lo Stato
aggiusta il tasso di cambio del franco in funzione delle sue priorità
(industriali, sociali ecc.), cioè politicamente. La presenza di funzionari
affidabili consente di evitare l’emergere di fenomeni di corruzione.
Il nuovo franco,
associato o no a una moneta comune, sperimenta una svalutazione. Quest’ultima,
benefica nella misura in cui aumenta la competitività delle produzioni francesi
destinate all’export (calcolate in una moneta più debole, costano meno care
agli importatori), gonfia simmetricamente il costo delle importazioni.
A questo punto,
il governo propone di distinguere fra i beni. Per quelli indispensabili, come
il petrolio, si sforza di ridurre il fabbisogno, anche introducendo incentivi
fiscali ed economici. Alcuni beni vengono importati solo finché la Francia non
arriva a produrli da sé. “Bisogna effettivamente passare per una fase
protezionista di sostituzione delle importazioni”, riassume Nikonoff, il
che implica la protezione degli sforzi industriali nascenti tramite barriere
doganali (visto che il mercato unico si è disgregato). “Parigi deve anche
concludere accordi con le società che hanno le tecnologie che mancano alla
Francia, offrendo loro l’autorizzazione a vendere sul territorio francese
contro trasferimenti di tecnologia”, completa Nikonoff. Resta il campo dei
beni che la pubblicità ci ha indotti a considerare indispensabili (una
determinata marca di smartphone, un’altra di jeans, ecc.) e di cui ognuno deve
imparare a fare a meno, o che il governo decide di tassare pesantemente.
Ricordando alla popolazione che la trasformazione economica chiede anche la
modifica delle abitudini di consumo, in un contesto nel quale ciascuno
comprende come gli attuali eccessi stiano spingendo il pianeta verso la
catastrofe. Dal momento che dovremo cambiare i nostri comportamenti, perché non
fare in modo che questa evoluzione ci avvicini a una società che corrisponda
meglio alle aspirazioni della maggioranza?
“A un certo
punto, bisogna accettare l’idea che non si può avere tutto: il mantenimento
integrale del consumo e la rottura con il neoliberismo. Del resto, il “consumo
neoliberista” ha un costo, e pesante: diseguaglianze, precarietà generalizzata,
disagio sul lavoro ecc., fa notare Lordon. L’abbandono del neoliberismo
ci propone ben altra coerenza, e benefici reali: liberati dall’austerità di
bilancio, quella dell’euro e quella dei mercati, possiamo nuovamente sviluppare
i servizi pubblici e il lavoro utile; protetti dalla possibilità di svalutare e
da un protezionismo intelligente, i salari possono crescere nuovamente senza
danneggiare la competitività; infine, la messa in riga della finanza può
avviare lo smantellamento del potere degli azionisti, per ristabilire
un’organizzazione del lavoro meno infernale.”
Rilancio
dell’economia reale, trasformazione della democrazia sociale, centralità della
questione ambientale, riforma delle istituzioni… Altre misure dovranno
certamente aggiungersi. Ma i mezzi per lottare contro i mercati, esistono:
nessuno dei provvedimenti qui presentati rappresenta un’innovazione. Dunque, il
problema che il progetto di emancipazione pone rispetto ai mercati non è
tecnico bensì politico.
Nessuno immagina
che lo scenario appena descritto (rivoluzione monetaria e fiscale,
trasformazione dei circuiti produttivi, rivoluzione delle abitudini di consumo)
possa ottenere il consenso di una maggioranza politica in tempi ordinari. Ma il
futuro non induce alla serenità. Quando scoppierà la prossima tempesta, i
liberisti saranno di nuovo pronti, e sappiamo – lo abbiamo visto in Grecia –
fin dove possono spingersi le loro road maps. Perché allora non ci
prepariamo ugualmente alla lotta, ma affinché apra il cammino a un mondo più
solidale?
(1) Si legga “L’investitore non vota”, Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2018, prima tappa del ragionamento qui svolto.
(2) Gli autori sono ben coscienti che si tratta di un paradosso; come preparare la popolazione alla lotta che ci si appresta ad affrontare e alle fatiche che essa comporta senza provocare l’ira dei mercati e la catastrofe economica alla quale questa può condurre… prima ancora di essere arrivati al potere?
(3) Rispettivamente autori, fra l’altro, di Jusqu’à quand? Pour en finir avec les crises financières, Raisons d’agir, Parigi, 2008; Sortons de l’euro! Restituer la souveraineté monétaire au peuple, Mille et une nuits, Parigi, 2011; e La Monnaie et ses mécanismes, La Découverte, Parigi, 2017.
(4) Differenza fra il tasso d’interesse applicato ai titoli di debito emessi da un determinato paese e quello applicato ai titoli emessi da un altro paese ritenuto solido (la Germania, per esempio).
(5) Si legga Laura Raim, “De la monnaie unique à la monnaie commune”, Manuel d’économie critique de Le Monde diplomatique, 2016. (Traduzione di Marianna De Dominicis)
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