[ 30 novembre 2018 ]
Nancy Fraser, “Come il femminismo divenne ancella del capitalismo”
Nancy Fraser, “Come il femminismo divenne ancella del capitalismo”
Il 14 ottobre 2013, su The Guardian, la femminista americana Nancy Fraser lanciò con questo articolo una fragorosa provocazione al suo mondo che scatenò un aspro dibattito. Con la traduzione di Cristina Morini viene rilanciato quasi subito (il 20 ottobre) sul sito Sinistrainrete nell’auspicio di stimolare un utile dibattito, che però, almeno sulla pagina in questione non viene (3.044 letture e nessun commento).
Su The Guardian, invece, il dibattito è stato acceso, ad esempio Belgareth ha lamentato che il femminismo combatte per l’eguaglianza sul lavoro, per consentire alle donne di avere gli stessi salari ed opportunità, e Stiltonan ha replicato che proprio questo significa chiedere pari partecipazione al capitalismo. Greatfatsby invece ha accusato la Fraser di voler tornare agli anni settanta, dove a suo dire il marxismo costruiva una prigione della mente, nelle repliche un uomo sembra darle ragione ed esce con la proposta di una multi-piattaforma “intersezionale” (come vedremo più o meno anche l’ipotesi della Fraser).
Ma cosa scrive la Fraser nel suo articolo? Sostiene che ha iniziato da tempo a temere che gli ideali lanciati dalle femministe servano obiettivi diversi dalla costruzione di un mondo più egualitario, giusto e libero, ovvero che la critica al sessismo stia involontariamente fornendo la giustificazione per nuove forme di disuguaglianza e di sfruttamento e che il movimento si sia impigliato in un collegamento pericoloso con gli sforzi neoliberali per costruire una “società di libero mercato”. La spia è nel fatto che le idee femministe vengono sempre più tradotte in termini individualistici e carrieristici, per lo più esso celebra il successo, le imprenditrici, lo spirito individuale e parla continuamente di meritocrazia. Ormai è diventato un termine di moda, utilizzato spesso dalle stesse aziende nel loro marketing[1].
Il punto è che è il capitalismo ad essere cambiato, quello gestito dallo Stato del dopoguerra è stato sostituito da un capitalismo flessibile, o come dice “disorganizzato”, quindi globalizzante e neoliberista. In questo clima il ‘femminismo della seconda ondata’ (secondo alcuni modi di contare, della “terza”) è emerso come una critica del primo capitalismo, ovvero del welfare opprimente e ‘fallocratico’ (o ‘patriarcale’), ma, per la Fraser, nel farlo “è diventato l’ancella del secondo”; insomma si è fatto arruolare, dato che la critica al capitalismo welfarista era un tratto comune.
Per come descrive la situazione il femminismo era, in altre parole, ambivalente tra le forme di solidarietà sociale e di espansione democratica da una parte e il potenziamento dell’autonomia individuale, la maggiore scelta e l’avanzamento meritocratico per le donne e uomini[2] dall’altra. Questa ambivalenza, che lo rendeva disponibile a diversi esiti storici è stata risolta negli ultimi anni in direzione liberista-individualista.
Ma qui si arriva al punto: il femminismo della seconda ondata si è reso disponibile ad essere utilizzato a portare acqua al neoliberismo non in modo passivo, ma proprio perché ha contribuito a far vincere nella società questa posizione[3]. Come dice:
“A mio avviso, l'ambivalenza del femminismo è stata risolta negli ultimi anni a favore del secondo scenario liberista-individualista, ma non perché fossimo vittime passive delle seduzioni neoliberiste. Al contrario, noi stessi abbiamo contribuito con tre idee importanti a questo sviluppo.”
Le tre mosse vincenti sono queste:
La prima idea è stata la critica al “salario familiare”, ovvero ad una remunerazione del lavoro che prevedesse un capofamiglia (tradizionalmente maschio) che guadagnava abbastanza da riprodurre la propria forza-lavoro includendo in ciò la famiglia. In altre parole, come ricorda anche Marx ed Engels, il capitalismo tradizionale, anche prima di quello welfarista, remunera il lavoratore al livello che gli consente di portare avanti la famiglia, quindi nel suo salario è conteggiato socialmente l’onere della moglie casalinga e dei figli. Questo “ideale” (ovvero questa consuetudine sociale e questa organizzazione generale della vita) era al centro del capitalismo organizzato dallo Stato[4]. Ma questa critica finisce per legittimare il “capitalismo flessibile”, in quanto l’accesso delle donne al lavoro di massa è proprio la leva che ha scardinato il patto sociale del lavoro, progressivamente allargando l’offerta di lavoro disponibile e cogliendo il mutamento del rapporto di forza per imporre forme crescenti di flessibilità ed una generalizzata riduzione relativa dei salari[5]. Il famoso grafico di Mishel mostra l’effetto a partire dai primi assi settanta.
E’ proprio la trasformazione della base produttiva verso i servizi, ai quali le donne hanno avuto accesso massivo, insieme a molti fattori convergenti che ha prodotto, a partire dagli anni sessanta e settanta, la divaricazione tra remunerazione del lavoro e produttività. Questa divaricazione è molto differenziata in relazione al livello del lavoratore nel Rapporto di Mishel[6] che si concentra sulle stratificazioni di classe e funzionali più che su quelle di genere.
Si è avuto, progressivamente ed in tutto il mondo, il passaggio dal “capitalismo statale”, ovvero più propriamentedal lavoro stabile ad alto salario maschile, alla “norma più recente e più moderna -apparentemente sancita dal femminismo – della famiglia bireddito”. Peccato che i due redditi siano spesso inferiori a quello unico precedente e che in vece del lavoro stabile ad alto salario si sia determinata la dominazione del lavoro intermittente a basso salario. La realtà è che in questo modo si è aperta la strada, distruggendo la condizione di relativo pieno impiego della fase welfarista, alla depressione del livello dei salari, al declino degli standard di vita, al forte aumento delle ore lavorate a salario per famiglia, il doppio (o triplo) lavoro come obbligo, e il doppio o triplo ruolo per la donna, l’aumento della povertà.
Per Fraser il neoliberismo ha venduto tutto questo come un “borsellino di seta” (mentre è “l’orecchio di una scrofa”) grazie ad una narrazione di empowerment femminile che in realtà “imbriglia il sogno dell’emancipazione delle donne al motore dell’accumulazione di capitale”[7]. Dunque, come scrive nel 2015[8] “cercare di sfondare il tetto di cristallo non ci salverà”, perché a farlo saranno sempre in poche, perché concentrarsi sul corpo, l’identità, la conquista dei vertici della società, lascerà sempre indietro i e le precarie, chi soffre per il ritiro del welfare, proprio perché è la forma attuale dell’accumulazione capitalista (cosiddetta “flessibile”) a richiederlo. Con le sue stesse parole: “Ora che il lavoro è precario, per le donne è necessario lavorare. La nuova forma di capitalismo neoliberista non vuole le donne a casa come madri full time, anzi: le vuole lavoratrici, ma con stipendi bassi”.
Il secondo contributo all’etica neoliberale nasce dalla critica per la concentrazione della visione politica marxista che si concentrava sulla disuguaglianza di classe (uomini e donne poveri verso uomini e donne ricchi), e tendeva a dimenticare le ingiustizie “non economiche” come la violenza domestica, la violenza sessuale, e l’oppressione riproduttiva. Le ‘femministe della seconda ondata’ hanno dunque rifiutato l’economicismo per politicizzare “il personale”[9], ampliando in questo modo l’agenda politica per sfidare le gerarchie di status e le costruzioni culturali della differenza di genere.
Ma invece di estendere la lotta ad economia e cultura, si è finito per focalizzarsi solo sulla “identità di genere” a scapito dei problemi di “pane e burro”. In questo modo il femminismo ha finito per portare acqua alla tensione del neoliberismo per la liquidazione dell’egualitarismo economico welfarista. Come dice Fraser: “in effetti, abbiamo assolutizzato la critica del sessismo culturale proprio nel momento in cui le circostanze avrebbero richiesto di raddoppiare l’attenzione intorno alla critica dell’economia politica”.
Il terzo contributo è stato l’attacco al paternalismo dello Stato Sociale. Anche questo attacco è stato sincrono alla guerra che il neoliberismo ha spietatamente portato allo “Stato balia” ed al suo “cinico abbraccio alle Ong”. Quel che invece accade è che “anche in questo caso l’ideale femminista è stato ripreso dal neoliberismo. Una prospettiva originariamente finalizzata a democratizzare lo stato, responsabilizzando i cittadini, viene impiegata ora per legittimare la mercificazione e il disgregarsi dello stato sociale”.
In tutte e tre le dimensioni l’ambivalenza[10] originaria del femminismo si è risolta comunque in favore del (neo)individualismo liberista. Ovvero in direzione del suo immaginario essenziale che è libertario ed egualitario dal punto di vista del genere[11].
La proposta di Fraser è di ri-prendere la traccia del “femminismo solidale”, rompendo la relazione pericolosa con il neoliberismo in tre direzioni:
1 - Rompendo il falso legame tra la critica al “salario familiare” e il lavoro precario, “combattendo per una forma di vita che non metta al centro il lavoro di scambio ma valorizzi le attività che producono valore d’uso, tra cui – ma non solo – il lavoro di cura”[12].
2 - Fermando lo scivolamento della critica all’economicismo verso la politica identitaria, connettendo i due ordini del discorso.
3 - Recidendo il legame tra la critica alla statalizzazione e l’esito in termini di fondamentalismo di mercato, recuperando le forme di democrazia partecipativa[13].
Avevo già letto due articoli della Fraser in “Contro il neoliberismo”, del 2017, nei quali attacca il “neoliberismo progressista”[14], che unisce l’egemonia del capitale alla liberazione ed emancipazione individuale e competitiva ed è espressione della cattura ideologica dei movimenti della differenza, femminismo e LGBTQ, verso l’accettazione della meritocrazia e l’etica individualista. Questa forma di femminismo ha spostato l’attenzione dalla produzione di cambiamenti sociali nelle condizioni economiche alla retorica della liberazione individuale.
Come nel 2013, e nel 2014, ma con un certo slittamento di tono, la filosofa e giurista Nancy Fraser, nata nel 1947 e dunque biograficamente legata alla prima ondata del movimento del ’68, propone alla fine la creazione di un nuovo blocco, che chiama “progressista-populista”[15] capace di unire l’emancipazione alla protezione sociale. L’idea sarebbe riconnettere in un unico progetto politico la coalizione multicolore “progressista”[16], alla ‘vecchia’ classe abbandonata della ‘rust belt’, ai ‘deplorevoli’ che hanno votato Trump e non Clinton.
Una sorta di alleanza che superi quella “clintoniana” tra “imprenditori, abitanti dei suburbi della classe media, nuovi movimenti sociali e giovani che proclamano la fede moderna, progressista, abbracciando la diversità, il multiculturalismo ed i diritti delle donne”.
In “Fortune del femminismo”, del 2013, ed in particolare nel saggio del 2005 “Reinquadrare la giustizia in un mondo globalizzato”, e riprendendo le posizioni di Ulrich Beck[17] contro il ‘nazionalismo metodologico’, dichiara ormai inevitabile la transnazionalizzazione ed il superamento del quadro westfaliano. Il quadro delle disuguaglianze, e delle richieste di riconoscimento, dovrebbero essere ormai affrontate a livello transnazionale.
È qui che la sua “alleanza” dovrebbe trovare forma.
Sospetto che non abbia la minima idea di come riuscirvi (non è l’unica).
* Fonte: Nella fertilità cresce il tempo
NOTE
[1] - Il 23 aprile 2014 Arwa Mahdawi pubblica “Come il femminismo è diventato un ottimo modo per vendere qualunque cosa”, nel quale denuncia lo stratagemma di marketing di molte imprese di aderire ad agende ‘femministe’ per catturare simpatia.
[2] - Quel che nel dibattito italiano si chiama “femminismo dell’uguaglianza”.
[3] - Anche se l’autrice non sembra cosciente di questo, si tratta di una interessante sopravvalutazione delle influenze culturali ed un esercizio profondamente anti-materialista. La grande trasformazione che induce il passaggio dalla società welfarista a quella neoliberale, e la forma di accumulazione fordista in quella ‘flessibile’ è ricondotta a variabili culturali, peraltro queste ristrette alle idee di alcune élite sostanzialmente borghesi. Queste variabili esistono ed hanno qualche rilevanza, naturalmente, ma, come vedremo ad esempio leggendo il recente ed ottimo libro di Thomas Fazi e William Mitchel “Sovranità o barbarie” è di gran lunga più complesso di così. Magari ci sono cose banali come l’eccesso di risparmi rispetto all’investimento, citato da Keynes come causa delle crisi, o per i più antiquati la caduta tendenziale del saggio di profitto, del Capitale di Marx, la carenza di domanda globale, la naturale instabilità del capitalismo (ancora Keynes e Minsky) a causa della presenza sia del mercato delle merci sia di quello della moneta. Oppure entra in qualcosa, certo intrecciata strettamente con le cause di cui sopra, la riduzione per via politica delle barriere regolatorie, al commercio, al movimento dei capitali, il crollo dell’impero sovietico. Come sia ne abbiamo provato a parlare in “La globalizzazione come crisi”, ma che sia stato il femminismo a determinare questo straordinario effetto, sinceramente, non era venuto in mente. È vero che sotto il ‘benevolo’ controllo americano, ed all'ombra delle numerosissime sue basi militari, è sembrato a molti che la storia complessa del novecento fosse davvero finita e restasse solo la promessa di arricchirsi da raccogliere però individuo per individuo, l’uno contro l’altro. Una società dei consumi, felice di competere nella quale il migliore possa sempre trovare la propria strada. Una società che si incardina su un potentissimo e pervasivo dispositivo nascosto che fa leva su bisogni e desideri dei singoli, chiedendogli di pensarsi come potenza del desiderio in atto non come produttori, e quindi collettivamente, ma come consumatori e capaci di piacere e desiderio individuale. Questa promessa di vita e di energia individuale ha prodotto un immaginario irresistibile che però ha un rovescio: il dominio e lo sfruttamento di coloro la quale potenza resta in attesa, spesso per sempre, e che devono essere sfruttati perché quella di pochi passi ‘in atto’. Dimenticando la linea di ombra, la società generata dalla competizione senza freni, fatta sistema, della mondializzazione neoliberale finisce quindi per costruire una narrazione avvincente, accompagnata dallo spettacolo multiforme della tecnica, che prevale sulle trascendenze alternative e concorrenti: sulla teologia politico-economica del marxismo, nelle sue diverse forme, e sulla teologia politico-sociale del cristianesimo.
[4] - In realtà anche prima, come detto.
[5] - Questo è un punto decisivo,
[7] - La cosa si potrebbe porre in questo modo: questo femminismo diventa un’arma per la promozione sociale di una élite di donne borghesi o aspiranti tali, implicitamente fondata sulla meccanica del ‘potere matriarcale’ che basa la sua presa di potenza sulla colpevolizzazione ed il ricatto affettivo, ovvero attraverso la lamentela, il rimprovero e l’accusa. Ad una forma di ‘potere patriarcale’, esistente ma derivante da epoche trascorse e presente residualmente, che comanda e disciplina frontalmente, si contrappone una forma di volontà di potenza che si nega come tale ed esige anzi che il soggetto ceda al suo desiderio e vi aderisca con tutto se stesso dietro minaccia implicita di vedersi distrutto nella sua autostima.
[8] - Si veda “Modaiolo e neoliberista: il femminismo ci ha tradite”.
[9] - Si ricorda lo slogan del 1968 “il personale è politico”.
[10] - Ambivalenza che è implicita nell’essere per costruzione un progetto interclassista.
[11] - Si veda, Nancy Fraser “La fine della cura”, p.42. Ma anche, per una interessante ed a raggio più ampio analisi Jean-Claude Michéa “L’impero del male minore”.
[12] - La formula è ambigua e frettolosa, potrebbe collegarsi con le intuizioni portate avanti in Europa da Andrè Gorz, si veda ad esempio “Metamorfosi del lavoro”, 1988. La soluzione per Gorz, sulla base di una complessa analisi filosofica dei concetti, è di sfruttare la tendenza al ritrarsi del tempo di lavoro socialmente necessario per produrre i beni utili alla vita (l’aumento della produttività e l’irrompere della rivoluzione informatica e dell’automazione avanzata) non per allargare i “lavori mercificati” (ad esempio attraverso l’economia delle piattaforme), ma superando le categorie del ‘lavoro servile’ o della ‘prostituzione’ (come l’utero in affitto) in favore dell’espansione del ‘lavoro di cura’ in entrambi i sessi. Le due forme del ‘lavoro di cura’ e del ‘lavoro per sé’ (quel che sto facendo adesso) devono essere liberati dalla regolazione attraverso il denaro. Ovvero bisogna riprendere nelle proprie mani il compito del controllo politico dell’economia.
[13] - Qui ed in altri luoghi, l’idea della Fraser va in direzione della ‘Teoria dell’agire comunicativo’ di Jurgen Habermas, come si legge nella prefazione di “Fortune del femminismo”, del 2013. La ricerca sarebbe di una “terza via” tra il neoliberismo e lo statalismo (ovvero da coloro che cercano di “difendere la società”, colma di gerarchie ed esclusioni), cercando di unire protezione e sicurezza sociale con la ‘libertà negativa’ del liberalismo. Nel 2013 la posizione ricercata è, insomma, espressamente post-marxista e liberale-radicale.
[14] - Il ‘neoliberismo progressista’ è un allineamento ed alleanza tra le correnti dominanti dei nuovi movimenti sociali libertari (femminismo, anti-razzismo, multiculturalismo, e diritti LGBTQ è l’elenco) e i “settori di business di fascia alta ‘simbolica’ e basati sui servizi (Wall Street, Silicon Valley, e Hollywood)”. In altre parole, le cosiddette “forze progressiste sono effettivamente unite con le forze del capitalismo cognitivo, in particolare della finanziarizzazione”.
Quel che è successo è che le prime “hanno prestato il loro carisma” alle seconde, trasferendo il valore di ideali come la “diversità” e la “responsabilizzazione” in chiave neoliberale a servizio della flessibilizzazione e della messa in contatto che serve alla finanziarizzazione. Cioè, per come la mette la Fraser, “ora danno lustro a politiche che hanno devastato la produzione e quelle che un tempo erano le vite della classe media”.
[15] - Probabilmente con un’accezione nordamericana al termine e facendo espresso riferimento a Bernie Sanders.
[16] - Che nomina con “immigrati, femministe, persone di colore”, ovviamente anche la galassia LGBTQ.
[17] - Che sostenne sempre una posizione espressamente cosmopolita, e fornì decisivo appoggio culturale alla ‘terza via’, si veda ad esempio, “Potere e contropotere nell’età globale”, in cui argomenta in modo molto sofisticato e certamente culturalmente molto avvertito per oltre 400 pagine.
1 commento:
io sospetto che razer non abbia idea che la destra la stia sorpassando alla velocità della luce sugli stessi temi.
"l’oppressione riproduttiva"... roba da matti, quanto male hanno fatto certe formule da malati mentali!
dice che non è mai troppo tardi... ma consapevolezze come queste della frazer io le comunicavo ai compagni/e già nel 1980 (ero adolescente), e ne comunicavo anche di peggiori: prevedevo che il femminismo sarebbe diventato un suprematismo alienante e scardinatore ella natura umana, nel suo odio contro il maschio, il sesso e la riproduzione.
gino.
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