La curva del tasso di profitto negli USA 1947-2010 |
Intervista a Guglielmo Carchedi*
a cura di Gianni Del Panta
Malgrado Carchedi sottovaluti i mutamenti di tipo sistemico indotti dalla finanziarizzazione (vedi anche gli ultimi articoli del Pasquinelli), ha ragione a mettere in risalto, di contro ai keynesiani, l'importanza del tasso di profitto, che Marx appunto considerava il criterio decisivo per capire le crisi cicliche.
D. Nel dibattito sulla natura dell’attuale crisi del sistema capitalistico, non mancano neanche a sinistra interpretazioni volte a presentarla come il portato di un’eccessiva finanziarizzazione dell’economia. Personalmente mi sembrerebbe invece corretto leggere il ricorso alla finanza come effetto e non causa delle presenti difficoltà economiche?
R. Ha perfettamente ragione, la finanziarizzazione dell’economia è certamente l’effetto e non la causa dell’attuale crisi. Mi permetta però in apertura di avanzare dubbi anche sulla bontà del termine. Infatti, il costante utilizzo della parola finanziarizzazione sembra presupporre una mutazione quasi genetica nel sistema. Tuttavia la realtà è in questo caso assai meno complessa di come vogliamo immaginarla: l’attuale sistema tende infatti necessariamente verso la crisi attraverso dei cicli economici. La traslazione di ingenti risorse dalle attività direttamente produttive a quelle speculative (dove il tasso di profitto è maggiore, almeno fino a quando la bolla speculativa non scoppia) è quindi semmai il tentativo di arginare una decrescente redditività del capitale investito, dovuto in primis alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Questa è a sua volta il portato dell’aumento di quella che Karl Marx chiamava la composizione organica del capitale, ovvero la riduzione del capitale variabile rispetto a quello costante, un fenomeno che deve essere considerato come l’effetto diretto delle innovazioni tecnologiche.
Simili letture non trovano però grande spazio sui principali media, spesso propensi a presentare l’attuale crisi come il portato di un debito pubblico eccessivo e di un allegra gestione della macchina statale da parte degli amministratori che si sono successi alla guida del Paese.
Quella che ho menzionato non è però l’unica interpretazione che cerca di affermare la bontà delle proprie riflessioni. Provando a semplificare un quadro certamente complesso possiamo sostenere come le teorie più rilevanti che tentano di fornire spiegazioni all’origine dell’attuale crisi siano sostanzialmente tre. La prima è quella che muove dalle riflessioni e dagli argomenti offerti dall’economista inglese John Maynard Keynes (1883-1946). In essenza, la cosiddetta teoria keynesiana individua l’origine della crisi nei salari eccessivamente bassi che determinerebbero una diminuzione nel potere d’acquisto delle classi lavoratrici e conseguenti difficoltà per i produttori nella vendita dei beni di consumo. Una siffatta situazione porterebbe quindi ad una riduzione dei profitti per i capitalisti, che di fronte ad una contrazione delle merci vendute risponderebbero con licenziamenti di massa. La spirale innescata, come è semplice da capire, tenderebbe quindi ad auto-alimentarsi.
La seconda teoria è quella neoliberista. Spesso mi riferisco a questa attraverso un neologismo: definendola quindi come “austeriana”, da austerità. La visione qui proposta è opposta alla precedente e si fonda, semplificando molto, sul presupposto che le crisi sarebbero provocate da salari eccessivamente elevati e da conseguenti limitati profitti per le imprese.
Lei però non crede alla bontà di nessuna delle due ricostruzioni che ha appena richiamato…
Proprio così, visto che entrambe queste interpretazioni presentano delle gravi lacune teoriche. Consideriamo l’approccio Keynesiano (molto in voga nella sinistra) e esaminiamo la fetta di economia statunitense che produce valore e plus-valore. E’ possibile dimostrare come il tasso di profitto in questa sezione cada dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino alla metà degli anni ottanta, per poi risalire. Leggendo questo dato contemporaneamente al rapporto tra salari e profitti noi vediamo chiaramente che quando il tasso di profitto scende il rapporto tra salario e profitto sale (siamo qui nel periodo temporale che corre fino alla metà degli anni ottanta), mentre quando il tasso di profitto sale il rapporto tra salari e profitti scende (situazione verificatasi a partire dal 1986). Questa rappresenta quindi una supporto empirico della correttezza della teoria di Marx e del fallimento della teoria keynesiana. Naturale quindi che il fallimento di questa teoria nella spiegazione della crisi, determini anche una sua incapacità nel trovare adeguate soluzioni alla presenti difficoltà economiche. Esiste però una terza interpretazione…
Immagino che questa richiami le riflessioni del “barbuto uomo di Treviri”, oggi forse più di ieri incredibilmente attuale, sbaglio?
Direi proprio di no. Si tratta infatti della teoria di Karl Marx, che a differenza delle precedenti non si basa sul concetto di consumo e quindi di profitto, ma bensì sul tasso di profitto. La differenza, che ad un primo sguardo potrebbe apparire non eccessivamente rilevante, è in realtà di grande importanza, dato che Marx mette in relazione il profitto realizzato con il capitale investito. Proprio questo ci permette di constatare come a partire dalla seconda guerra mondiale ad oggi la tendenza di lungo periodo del tasso di profitto realizzato dai capitalisti americani sia calante (nonostante tale tasso sia prima calante e poi crescente nei due sub-periodi). Ciò è dimostrato da un numero crescente di recenti studi empirici, anche a livello mondiale. Sostanzialmente si tratta quindi di un movimento secolare del capitale, un fenomeno che spiega le ragioni per cui ci siano sempre meno profitti in relazione al capitale investito. Tutto questo rende quindi necessario per i capitalisti colpiti da una minor profittabilità, ricercare strade alternative verso le quali indirizzare il proprio capitale. La via maestra, anche se non l’unica, è così quella di investire nella speculazione e nella finanza, che sono quindi il sintomo di una crisi che ha in realtà radici lontane.
Mi scusi, ma in precedenza non ci aveva parlato di una crescita del tasso di profitto a partire dalla metà degli anni ottanta fino ad oggi? Ora invece ci dice che la tendenza riscontrata è quella ad una interrotta decrescita negli ultimi settant’anni. Non capisco, dove mi sono perso?
Non si preoccupi, è semplicemente caduto in un errore che sono soliti commettere anche molti economisti che più o meno direttamente si richiamano alla teoria marxista.
Provi ad essere più esplicito…
Spesso in materia si confonde tra tendenze e contro-tendenze. Così facendo non si riesce a comprendere come la crescita nel tasso di profitto riscontrata a partire dal 1986 sia in realtà il frutto di un aumento colossale del tasso di sfruttamento. Infatti, se noi teniamo costante questa variabile e calcoliamo nuovamente il saggio di profitto, noteremo come la produzione, la generazione e la realizzazione del plus-valore prodotto relativamente al capitale investito decresca costantemente.
* Guglielmo Carchedi, è uno studioso marxista, professore di Economia Politica all’Università di York, Toronto (Canada) e per molti anni professore all'università di Amsterdam. Collabora da molti anni con Contropiano. Vedi il suo saggio "Dalla crisi di plusvalore alla crisi dell'euro" sull'ultimo numero della rivista Contropiano e la sua relazione nel volume "Il vicolo cieco del capitale" a cura della Rete dei Comunisti.
** intervista realizzata a Firenze da “La Prospettiva.eu” - Fonte: contropiano
Malgrado Carchedi sottovaluti i mutamenti di tipo sistemico indotti dalla finanziarizzazione (vedi anche gli ultimi articoli del Pasquinelli), ha ragione a mettere in risalto, di contro ai keynesiani, l'importanza del tasso di profitto, che Marx appunto considerava il criterio decisivo per capire le crisi cicliche.
D. Nel dibattito sulla natura dell’attuale crisi del sistema capitalistico, non mancano neanche a sinistra interpretazioni volte a presentarla come il portato di un’eccessiva finanziarizzazione dell’economia. Personalmente mi sembrerebbe invece corretto leggere il ricorso alla finanza come effetto e non causa delle presenti difficoltà economiche?
R. Ha perfettamente ragione, la finanziarizzazione dell’economia è certamente l’effetto e non la causa dell’attuale crisi. Mi permetta però in apertura di avanzare dubbi anche sulla bontà del termine. Infatti, il costante utilizzo della parola finanziarizzazione sembra presupporre una mutazione quasi genetica nel sistema. Tuttavia la realtà è in questo caso assai meno complessa di come vogliamo immaginarla: l’attuale sistema tende infatti necessariamente verso la crisi attraverso dei cicli economici. La traslazione di ingenti risorse dalle attività direttamente produttive a quelle speculative (dove il tasso di profitto è maggiore, almeno fino a quando la bolla speculativa non scoppia) è quindi semmai il tentativo di arginare una decrescente redditività del capitale investito, dovuto in primis alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Questa è a sua volta il portato dell’aumento di quella che Karl Marx chiamava la composizione organica del capitale, ovvero la riduzione del capitale variabile rispetto a quello costante, un fenomeno che deve essere considerato come l’effetto diretto delle innovazioni tecnologiche.
Guglielmo Carchedi |
Quella che ho menzionato non è però l’unica interpretazione che cerca di affermare la bontà delle proprie riflessioni. Provando a semplificare un quadro certamente complesso possiamo sostenere come le teorie più rilevanti che tentano di fornire spiegazioni all’origine dell’attuale crisi siano sostanzialmente tre. La prima è quella che muove dalle riflessioni e dagli argomenti offerti dall’economista inglese John Maynard Keynes (1883-1946). In essenza, la cosiddetta teoria keynesiana individua l’origine della crisi nei salari eccessivamente bassi che determinerebbero una diminuzione nel potere d’acquisto delle classi lavoratrici e conseguenti difficoltà per i produttori nella vendita dei beni di consumo. Una siffatta situazione porterebbe quindi ad una riduzione dei profitti per i capitalisti, che di fronte ad una contrazione delle merci vendute risponderebbero con licenziamenti di massa. La spirale innescata, come è semplice da capire, tenderebbe quindi ad auto-alimentarsi.
La seconda teoria è quella neoliberista. Spesso mi riferisco a questa attraverso un neologismo: definendola quindi come “austeriana”, da austerità. La visione qui proposta è opposta alla precedente e si fonda, semplificando molto, sul presupposto che le crisi sarebbero provocate da salari eccessivamente elevati e da conseguenti limitati profitti per le imprese.
Lei però non crede alla bontà di nessuna delle due ricostruzioni che ha appena richiamato…
Proprio così, visto che entrambe queste interpretazioni presentano delle gravi lacune teoriche. Consideriamo l’approccio Keynesiano (molto in voga nella sinistra) e esaminiamo la fetta di economia statunitense che produce valore e plus-valore. E’ possibile dimostrare come il tasso di profitto in questa sezione cada dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino alla metà degli anni ottanta, per poi risalire. Leggendo questo dato contemporaneamente al rapporto tra salari e profitti noi vediamo chiaramente che quando il tasso di profitto scende il rapporto tra salario e profitto sale (siamo qui nel periodo temporale che corre fino alla metà degli anni ottanta), mentre quando il tasso di profitto sale il rapporto tra salari e profitti scende (situazione verificatasi a partire dal 1986). Questa rappresenta quindi una supporto empirico della correttezza della teoria di Marx e del fallimento della teoria keynesiana. Naturale quindi che il fallimento di questa teoria nella spiegazione della crisi, determini anche una sua incapacità nel trovare adeguate soluzioni alla presenti difficoltà economiche. Esiste però una terza interpretazione…
Immagino che questa richiami le riflessioni del “barbuto uomo di Treviri”, oggi forse più di ieri incredibilmente attuale, sbaglio?
Direi proprio di no. Si tratta infatti della teoria di Karl Marx, che a differenza delle precedenti non si basa sul concetto di consumo e quindi di profitto, ma bensì sul tasso di profitto. La differenza, che ad un primo sguardo potrebbe apparire non eccessivamente rilevante, è in realtà di grande importanza, dato che Marx mette in relazione il profitto realizzato con il capitale investito. Proprio questo ci permette di constatare come a partire dalla seconda guerra mondiale ad oggi la tendenza di lungo periodo del tasso di profitto realizzato dai capitalisti americani sia calante (nonostante tale tasso sia prima calante e poi crescente nei due sub-periodi). Ciò è dimostrato da un numero crescente di recenti studi empirici, anche a livello mondiale. Sostanzialmente si tratta quindi di un movimento secolare del capitale, un fenomeno che spiega le ragioni per cui ci siano sempre meno profitti in relazione al capitale investito. Tutto questo rende quindi necessario per i capitalisti colpiti da una minor profittabilità, ricercare strade alternative verso le quali indirizzare il proprio capitale. La via maestra, anche se non l’unica, è così quella di investire nella speculazione e nella finanza, che sono quindi il sintomo di una crisi che ha in realtà radici lontane.
Mi scusi, ma in precedenza non ci aveva parlato di una crescita del tasso di profitto a partire dalla metà degli anni ottanta fino ad oggi? Ora invece ci dice che la tendenza riscontrata è quella ad una interrotta decrescita negli ultimi settant’anni. Non capisco, dove mi sono perso?
Non si preoccupi, è semplicemente caduto in un errore che sono soliti commettere anche molti economisti che più o meno direttamente si richiamano alla teoria marxista.
Provi ad essere più esplicito…
Spesso in materia si confonde tra tendenze e contro-tendenze. Così facendo non si riesce a comprendere come la crescita nel tasso di profitto riscontrata a partire dal 1986 sia in realtà il frutto di un aumento colossale del tasso di sfruttamento. Infatti, se noi teniamo costante questa variabile e calcoliamo nuovamente il saggio di profitto, noteremo come la produzione, la generazione e la realizzazione del plus-valore prodotto relativamente al capitale investito decresca costantemente.
* Guglielmo Carchedi, è uno studioso marxista, professore di Economia Politica all’Università di York, Toronto (Canada) e per molti anni professore all'università di Amsterdam. Collabora da molti anni con Contropiano. Vedi il suo saggio "Dalla crisi di plusvalore alla crisi dell'euro" sull'ultimo numero della rivista Contropiano e la sua relazione nel volume "Il vicolo cieco del capitale" a cura della Rete dei Comunisti.
** intervista realizzata a Firenze da “La Prospettiva.eu” - Fonte: contropiano
10 commenti:
Ci sono anche hacker fascistelli a quanto pare. Comunque il sito del Branka e' pulito gia' da ieri.
Lev
Secondo il mio punto di vista, la diminuzione reale del tasso di profitto nonostante lo spropositato tasso di sfruttamento, significa che la massa del capitale accumulato é tanto enorme da non trovare "materia e spazio" per investire nelle aree del pianeta dominate. Per massimizzare ulteriormente i profitti, la via più comoda ed immediata é una speculazione sempre più forsennata e rischiosa in direzione di una finanziarizzazione selvaggia.
Concorrono a tale dinamismo la non agibilià di aree dove esercitare lo sfruttamento tipicamente capitalistico, cioé con la scrematura delle plusvalenze derivanti dal lavoro (inagibili : Cina, URSS, India per qualche anno, Europa emergente - ormai alle corde - , Cuba, mercati medioorientali, sud est asiatico, Giappone); l'esaurirsi di materie prime (petrolio, rame ecc.) e l'incidenza del calo della domanda interna causato dal dissanguamento progressivo della classe lavoratrice mediante disoccupazione, le tasse, la famigerata politica dei redditi , i drastici tagli del welfare e l'austerity spinta (strangolamento della gallina dalle uova d'oro) allo stremo.
Il caos generato per altro dalla situazione di alto rischio degli investimenti speculativi (Banca ENRON) genera pulsioni guerrafondaie irresistibili del sistema capitalistico (guerre nel medio oriente, in Irak poi Afganistan e via così, con l'era Bush e successori, ieri Africa settentrionale, oggi Siria, domani Iran). Poiché le guerre costano ed esistono notevoli rischi nell'aggredire militarmente certe potenze competitrici (Cina in primo luogo o quel che resta dell'impero sovietico) non essendo i tempi ancora del tutto maturi, "é meglio rimandare a domani". Intanto però gli esperimenti prima con l'Albania, poi con l'Argentina, hanno suggerito al Capitalismo di conquista una via diversa da quella dello sfruttamento capitale-lavoro tradizionale e cioé quella del saccheggio dei beni (di ogni genere) accumulati o detenuti nei secoli dai popoli. La rapina avviene mediante manovre speculative d'assalto e l' indebitamenteo progressivo e insanabile agevolato da governi-fantoccio e dalla rinuncia degli stati alla sovranità monetaria, Zona Euro per prima. Si opera cioé agendo mediante strategie bancario finanziarie che apparentemente risultano incruente. I popoli vengono privati di tutto ciò che hanno, non da un giorno all'altro, ma lentamente come quando viene praticato il taglio delle vene ad un vitello. E così il Capitalismo si comporta poprio come un organismo in continua inarrestabile crescita, teso ad espandersi fino ad occupare tutto il territorio disponibile sul pianeta e che sa adattarsi a situazioni mutevoli secondo le leggi dell'evoluzione delle specie viventi. Esso sa adottare strategie adatte alle variazioni dell'ambiente. Pensarlo sempre con una certa schematicità fissa come faceva Marx, potrebbe essere poco producente.
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Compagni, Compagne: voglio consigliare a proposito della CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DEL PROFITTO, un documento in pdf di V.Giacchè e dal titolo "Il ritorno del rimosso: Marx, la caduta del saggio di profitto e la crisi".
Un documento da studiare e ristudiare, che chiarirà in maniera veramente esemplare, le cause e non certo gli effetti, di questa crisi sistemica che stiamo vivendo, che è forse la più grave crisi del capitalismo dalla sua nascita.
Ecco il link del pdf: wwwdata.unibg.it/dati/persone/46/3907.pdf
Auguro un buono studio, a quanti si cimenteranno nella lettura del documento da me segnalato.
Saluti da Franco
"Pensarlo sempre con una certa schematicità fissa come faceva Marx, potrebbe essere poco producente".
Caro anonimo delle 22 e 19, hai chiuso il tuo scritto,(la frase da me sopra virgolettata) con una... BOIATA PAZZESCA.
Saluti
L'apprezzamznto stronatorio non mi tocca molto perché apodittico, cioé non spiegato.
Nel mio intervento volevo dire soprattutto, ma forse troppo velatatmente, che questa crisi potrebbe anche non essere una "crisi patologica", ma solo la manifestazione di una fase diversa da quelle codificate, peraltro assai acutamente considerando la fase storica in cui si trovava a scrivere, da Marx il quale però sosteneva - ed é sorprendente - di non considerarsi "marxista".
Che il Capitalismo sappia trasformarsi, fa parte della sua natura e delle sue chances; In questo momento storico il Capitalismo, che a chi non tiene conto di certi aspetti sembra divorare sé stesso, a me sembra stia invece "affrettando" i tempi della fine (intesi pure in senso "biblico") secondo modalità d'azione iabbastanza inedite perché esercitate in dimensione planetaria.
Ma il discorso sarebbe troppo lungo. Chi vuole pensi pure che il Capitalismo, quello tradizionale di tipo ottocentesco, sia in agonia, se questo vale a consolarsi. La situazione storica e culturale dei nostri tempi é però un po' diversa da quella dei tempi di Marx.
Anonimo delle 11,41:
Per cortesia, Errata Corrige: stroncatorio invece di stronatorio
abbastanza inedite invece di iabbastanza inedite
sono refusi "tipofrafici" (!) di cui chiedo scusa.
Grazie.
La caduta del saggio di profitto è uno dei punti della teoria marxiana che non ho mai capito. Man mano che, a causa di avanzamenti tecnologici, i capitalisti investono in macchinari, che prendono il posto di lavoratori in carne e ossa, il tasso di profitto cala. Ma perchè?
Si suppone che solo il lavoro vivo produca plusvalore, ma mi pare un'affermazione "metafisica", indimostrabile. Una macchina, un robot, può fare lo stesso lavoro di un uomo, e perdipiù senza pretendere un salario! (pensiamo a una lavanderia automatica, a un casello autostradale ecc.). Il profitto semmai dovrebbe aumentare. Gengiss
"Una macchina, un robot, può fare lo stesso lavoro di un uomo, e perdipiù senza pretendere un salario! (pensiamo a una lavanderia automatica, a un casello autostradale ecc.). Il profitto semmai dovrebbe aumentare".
Caro Gengiss, vi è scritto nel documento in pdf
segnalato: wwwdata.unibg.it/dati/persone/46/3907.pdf quanto segue: "Soltanto il lavoro umano può creare valore e al tempo stesso conservare e sfruttare il valore già incluso nei macchinari (che altrimenti, se nessun lavoratore li facesse funzionare, non soltanto non creerebbero nuovo valore, ma perderebbero anche il valore che posseggono)".
Macchina o robot che siano, devono sempre essere azionati da un Lavoratore, altrimenti il valore incluso in essi, si perderebbe. E siccome "un bene ha valore solo in quanto viene oggettivato, o materializzato, in esso astratto lavoro umano", "è il lavoro umano in atto (il lavoro vivo) a procurare al capitalista i suoi profitti, fornendogli lavoro non pagato (pluslavoro), cioè ossia lavoro supplementare rispetto a quello necessario per riprodurre la forza lavoro (lavoro necessario): questo pluslavoro produce infatti un valore supplementare, un plusvalore, rispetto al valore della forza-lavoro affittata dal capitalista all’inizio del processo di produzione".
Spero di esserti stato di aiuto.
Saluti da Franco
Si sente dire non proprio così spesso come sarebbe opportuno, che la cosiddetta "crisi del capitalismo" (e per capitalismo si intende soprattutto quello occidentale USA) in realtà dipende dalle spropositate spese per gli innumeri conflitti armati (fra i primi quello del Viet Nam) che il "Capitalismo" ha sostenuto nonché per la forsennata corsa agli armamenti avvenuta durante la "Guerra Fredda".
Demetrio
Ho riletto il commento dell'Anonimo del 17 dicembre 2012 ore21
"Secondo il mio punto di vista, la diminuzione reale del tasso di profitto nonostante lo spropositato tasso di sfruttamento, significa che la massa del capitale accumulato é tanto enorme da non trovare "materia e spazio" per investire nelle aree del pianeta dominate."
Osservazione acutissima e di grande sintesi. Pure secondo me, significa che certi schemi rigidamente ancorati alla teoria marxista, sono obsoleti: siamo in una fase nuova che ha scavalcato ogni previsione: il Mostro Leviathano è divenuto tanto enorme da non trovare nutrimento sufficiente alle sue dimensioni. E' pronto per sgranocchiare il Mondo intero e lo sta già facendo con guerre a catena e con il saccheggio sistematico e spietato di ogni ricchezza accumulata nei secoli dai popoli. Anche certi beni naturali hanno maturato valore perché finora i popoli li hanno amministrati con saggezza e parsimonia. Il Mostro fagociterà anche quelli.
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