[ 30 dicembre ]
L'ITALIA NON ESISTE (PER NON PARLARE DEGLI ITALIANI), è un pamphlet del 2011. L'anno in cui l'Unione europea subì il suo primo, grande collasso, l'anno horribilis in cui, imposto dalle oligarchie europee, arrivò Mario Monti a palazzo Chigi. L'autore, Fabrizio Rondolino, famigerato giornalista dell'Unità, uno dei più aggressivi sciacalli piddini.
Ci pare utile segnalare ai lettori alcuni brani di questo pamphlet: un concentrato esplosivo di disprezzo del concetto di nazione, di vero e proprio odio auto-razzista dell'Italia e del popolo italiano. Un inno sperticato del "vincolo esterno" euro-tedesco, sotto le mentite spoglie di quel cosmpolitismo "progressista" di cui si ammanta la globalizzazione capitalistica.
Leggere attentamente per capire cosa hanno in testa e dove vogliono portarci le élite dominanti.
«Tanto per cominciare, l’Italia non esiste. È un’espressione geografica, uno stivale che s’allunga pigro nel Mediterraneo, una graziosa penisola purtroppo in gran parte rovinata dagli italiani. L’idea di farne uno Stato, una Nazione con la maiuscola, come se fossimo la Spagna o l’Inghilterra, è una sciocchezza sesquipedale, che perdoniamo al conte di Cavour soltanto perché, maturato nella lingua e nella cultura d’Oltralpe, pensava in buona fede di vivere in Francia.
L’Italia non è mai stata una nazione, e non lo sarà mai. Mi piace pensare che se Cavour avesse vissuto qualche anno in più – abbastanza per conoscere l’Italia – si sarebbe senz’altro dato da fare, con l’arguzia solerte che gli era propria, per smantellare un tale improbabile accrocchio.
Chiunque sia stato una volta nella vita a Cosenza e a Varese – o in qualsiasi altra coppia di città distanti almeno trecento chilometri tra loro – sa benissimo che l’Italia non esiste. Pretendere di esistere è il peccato originale delle nostre classi dirigenti, e la radice primaria di tutti i mali del nostro Paese.
L’unità d’Italia che pomposamente si festeggia o si dileggia, a seconda delle opportunità politiche, è la più grande catastrofe abbattutasi sulla nostra penisola. Meglio dieci Pompei, meglio cento calate degli Unni che l’unità d’Italia. I soli ad avvantaggiarsene veramente sono stati i preti, che hanno esteso i confini dello Stato della Chiesa fino a farli coincidere con quelli della penisola. L’Italia unita è un ipertrofico Stato pontificio, dal quale ha ereditato le sue due caratteristiche principali: la corruzione e l’ipocrisia.
(...) Storicamente, l’idea dello Stato-nazione nasce nell’Ottocento, come lo spiritismo, le fiabe dei fratelli Grimm, il dagherrotipo e l’idealismo tedesco: ha un suo fondamento e, forse, una sua necessità, ma non è un’idea valida per sempre. Nel caso dell’Italia, poi, l’idea di cui parliamo è completamente estranea non soltanto alla sua storia, ma alla sua cultura e alla sua tradizione. Direi persino alla sua civiltà. Nel grande equivoco risorgimentale, al netto delle mire espansionistiche dei Savoia, si legge in nuce una caratteristica fondamentale e duratura dell’italiano medio: copiare quello che gli altri hanno fatto all’estero, nella convinzione o nella speranza, s’immagina, di dissimulare una natura di cui evidentemente ci si vergogna.
Siccome in Europa la presa dell’impero absburgico andava allentandosi, e si andava diffondendo la moda degli Stati nazionali, ad un certo numero di intellettuali nostrani è venuto in mente di salire sull’onda e di inventarsi uno Stato italiano. L’aspetto forse più paradossale della vicenda sta nel fatto che costoro pretendevano di rappresentare la borghesia, motore e soggetto dell’annunciata rivoluzione risorgimentale, mentre è precisamente la borghesia che è sempre clamorosamente mancata nel nostro paese, dove l’unica struttura sociale riconosciuta e funzionante è la famiglia. Non è vero, come a volte si sostiene, che abbiamo inventato il fascismo: lo Stato totalitario di massa arriva a Mussolini (e a Hitler dopo di lui) dall’Unione sovietica; il nostro contributo alla storia dei sistemi politici e delle organizzazioni sociali è la mafia.
Impancandosi a portavoce di una classe che non è mai esistita, la borghesia, gli intellettuali ottocenteschi per il successo dell’impresa decisero persino di inventare una nuova lingua, l’italiano appunto, sciacquando in Arno una koinè immaginaria, e tutta letteraria, e spudoratamente artificiosa, che doveva certo soddisfare qualche accademico e qualche lacché, ma che nessuno, mai, avrebbe parlato.
Secondo le stime di Tullio De Mauro, nel 1860 gli italofoni della penisola erano 600.000, due terzi dei quali concentrati in Toscana, pari al 2,5% della popolazione totale; secondo un altro studioso, Arrigo Castellani, la percentuale complessiva doveva essere un po’ più alta, intorno al 9-10%.
Il risultato centocinquant’anni dopo è miserando: straparliamo come bestie una lingua di cui evidentemente ignoriamo anche gli aspetti più elementari. Importiamo massicciamente parole straniere di cui ignoriamo, oltre alla pronuncia, il significato (su un campione di 158 anglicismi recenti, lo Zingarelli ne registra 121, contro i 42 dello spagnolo Clave e i 34 del francese Petit Robert). In compenso abbiamo smarrito completamente il dialetto, con il quale i nostri nonni contadini riuscivano ad esprimersi perfettamente, e senza fare strafalcioni. L’italiano è sempre stato una lingua letteraria, da Cavalcanti a Calvino, e mai una lingua nazionale. Ora che non esistono più gli scrittori, è una lingua morta.
Questi intellettualini risorgimentali, va sottolineato, importando la moda dello Stato unitario inventarono senza neppure accorgersene la qualità essenziale dell’intellettuale nostrano: il provincialismo. L’erbaccia del vicino, per i nostri intellettuali, è sempre più verde. Si tratta, con ogni evidenza, di un vistoso complesso di inferiorità. Da allora, dalla grande truffa risorgimentale, è stato tutto un rincorrersi di esterofilia militante, e ancor oggi discutiamo accanitamente di modello tedesco e modello francese e cultura anglosassone e spirito americano, e il più brillante è sempre quello che guarda più lontano da casa e la spara più grossa, citando a casaccio studiosi sconosciuti e località ignote, perché così vorrebbe dimostrare, da vero provinciale, di conoscere il mondo.
Fortunatamente, siamo gli unici sul pianeta ad imitare forsennatamente gli altri: a nessuno, grazie al cielo, è mai venuto in mente di imitare noi.
Del resto, i primi a disprezzare gli italiani furono proprio gli intellettuali risorgimentali, che qualche idea del loro paese se l’erano pur dovuta fare. ”Gl’Italiani – scriveva Massimo d’Azeglio nei Miei ricordi, la cui stesura cominciò nel 1863 – hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; [...] pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro”.
(...)
L’unità d’Europa cui stanno lavorando alacremente frotte di burocrati nazionalisti ha di buono che, recuperando l’idea sovranazionale, finisce giocoforza col mettere in crisi l’idea di nazione, svelandone l’intima inconsistenza. Quest’idea appartiene a tutti gli effetti alle brutture del Novecento, il quale a sua volta è la sanguinosa messa in pratica delle bizzarre idee del secolo precedente.
La sciocca parentesi unitaria che ancora ci affligge, e che come abbiamo visto non ha alcun fondamento storico o culturale, è dunque destinata a concludersi in ogni caso, vuoi per l’evaporazione della sovranità nazionale verso l’alto delle istituzioni europee o del mercato globale o dell’impero americano, vuoi per l’implosione silenziosa e inarrestabile nelle comunità, nelle culture e nelle civiltà preesistenti.
(...)
L’Italia, per fortuna, è spacciata. Nell’ultimo secolo l’hanno tenuta insieme a forza prima Mussolini, poi i grandi partiti di massa, e infine Berlusconi. Tolto Silvio Berlusconi, che certo non per caso viene dalla televisione commerciale generalista, e dunque si occupa per mestiere di fasce di pubblico e di picchi di audience, di target pubblicitari e di spot aspirazionali, e molto meno di politica o di virtù civili, oggi non c’è rimasto nessuno – neppure la Nazionale di calcio – in grado di rendere credibile la favola dell’Italia unita.
Del resto si tratta di una favola cui nessuno, qui in Italia, ha mai creduto davvero. Così come l’idea stessa dell’unità nazionale è stata il frutto di una moda straniera, similmente gli unici ad averla interpretata con una certa fermezza, e ad aver dunque governato la penisola come se effettivamente si trattasse di uno Stato nazionale, sono stati, a tutti gli effetti, dei non-italiani. L’Italia dei primi anni del Dopoguerra, forse la sola decente dopo il 1870, era retta da stranieri: De Gasperi era stato deputato al Parlamento di Vienna e aveva trascorso gli anni migliori della sua vita nelle biblioteche del Vaticano; Togliatti veniva da Mosca e, pur con tutta la geniale flessibilità del personaggio, non se ne era mai veramente allontanato.
Il Partito comunista e la Democrazia cristiana, le due architravi della Prima repubblica, erano in realtà due potenze straniere, come gli Absburgo o i Borbone, e i loro leader sono stati a tutti gli effetti i vicerè peninsulari dell’Unione sovietica e dello Stato pontificio. Quando hanno cominciato ad italianizzarsi, anche il Pci e la Dc sono rapidamente diventati inservibili e inguardabili, l’uno sprofondando nell’estremismo parolaio antitaliano, l’altra inabissandosi nella corruzione straitaliana: negli anni Ottanta anche i comunisti e i democristiani erano finalmente diventati italiani.
Anche Mussolini, che un giorno ebbe a dire con estrema saggezza che governare gli italiani non era difficile, ma inutile, utilizza l’idea di nazione, portandola alle sue più estreme, tragiche, ma non meno coerenti conseguenze, soltanto per scopi essenzialmente politici e di potere. È evidente il suo disprezzo inconsolabile per l’Italia, gli italiani, i preti e il Re (nessuno che prenda sul serio i suoi interlocutori o che li consideri qualcosa di più di scimmie da ammaestrare parlerebbe come parlava il Duce in pubblico). Tutto l’apparato propagandistico-culturale del regime, tuttavia, è subito all’opera per diffondere e promuovere l’italianità in ogni suo aspetto, dalle arti alla toponomastica, dalla Fiat Balilla alla battaglia del grano. Ma nessuno ci crede davvero, e anche la dittatura finisce rapidamente in burletta (prima che in tragedia).
In generale, nessun modello sociale o statuale immaginato da qualche solerte apostolo dell’umanità e sommariamente assemblato in laboratorio ha alcuna possibilità di funzionare. Normalmente produce infelicità, distruzione e morte; ma fortunatamente non riesce mai a durare a lungo. Gli esempi più vistosi ci vengono dalle società perfette del Novecento: il comunismo eurasiatico e la sua variante mitteleuropea, il nazionalsocialismo, hanno prodotto più morti di tutto il resto della storia dell’umanità messa assieme, ma dopo settant’anni si sono infine schiantati.
L’unità d’Italia ha avuto conseguenze meno drammatiche, e anzi tendenzialmente ridicole: ma sul piano teorico condivide con ogni altro modello artificiale di Stato la medesima arroganza intellettuale, la medesima violenza ideologica, e le medesima vocazione al fallimento. Il motivo fondamentale per cui l’Italia non funziona, dunque, è perché esiste».
L’Italia non è mai stata una nazione, e non lo sarà mai. Mi piace pensare che se Cavour avesse vissuto qualche anno in più – abbastanza per conoscere l’Italia – si sarebbe senz’altro dato da fare, con l’arguzia solerte che gli era propria, per smantellare un tale improbabile accrocchio.
Chiunque sia stato una volta nella vita a Cosenza e a Varese – o in qualsiasi altra coppia di città distanti almeno trecento chilometri tra loro – sa benissimo che l’Italia non esiste. Pretendere di esistere è il peccato originale delle nostre classi dirigenti, e la radice primaria di tutti i mali del nostro Paese.
L’unità d’Italia che pomposamente si festeggia o si dileggia, a seconda delle opportunità politiche, è la più grande catastrofe abbattutasi sulla nostra penisola. Meglio dieci Pompei, meglio cento calate degli Unni che l’unità d’Italia. I soli ad avvantaggiarsene veramente sono stati i preti, che hanno esteso i confini dello Stato della Chiesa fino a farli coincidere con quelli della penisola. L’Italia unita è un ipertrofico Stato pontificio, dal quale ha ereditato le sue due caratteristiche principali: la corruzione e l’ipocrisia.
(...) Storicamente, l’idea dello Stato-nazione nasce nell’Ottocento, come lo spiritismo, le fiabe dei fratelli Grimm, il dagherrotipo e l’idealismo tedesco: ha un suo fondamento e, forse, una sua necessità, ma non è un’idea valida per sempre. Nel caso dell’Italia, poi, l’idea di cui parliamo è completamente estranea non soltanto alla sua storia, ma alla sua cultura e alla sua tradizione. Direi persino alla sua civiltà. Nel grande equivoco risorgimentale, al netto delle mire espansionistiche dei Savoia, si legge in nuce una caratteristica fondamentale e duratura dell’italiano medio: copiare quello che gli altri hanno fatto all’estero, nella convinzione o nella speranza, s’immagina, di dissimulare una natura di cui evidentemente ci si vergogna.
Siccome in Europa la presa dell’impero absburgico andava allentandosi, e si andava diffondendo la moda degli Stati nazionali, ad un certo numero di intellettuali nostrani è venuto in mente di salire sull’onda e di inventarsi uno Stato italiano. L’aspetto forse più paradossale della vicenda sta nel fatto che costoro pretendevano di rappresentare la borghesia, motore e soggetto dell’annunciata rivoluzione risorgimentale, mentre è precisamente la borghesia che è sempre clamorosamente mancata nel nostro paese, dove l’unica struttura sociale riconosciuta e funzionante è la famiglia. Non è vero, come a volte si sostiene, che abbiamo inventato il fascismo: lo Stato totalitario di massa arriva a Mussolini (e a Hitler dopo di lui) dall’Unione sovietica; il nostro contributo alla storia dei sistemi politici e delle organizzazioni sociali è la mafia.
Impancandosi a portavoce di una classe che non è mai esistita, la borghesia, gli intellettuali ottocenteschi per il successo dell’impresa decisero persino di inventare una nuova lingua, l’italiano appunto, sciacquando in Arno una koinè immaginaria, e tutta letteraria, e spudoratamente artificiosa, che doveva certo soddisfare qualche accademico e qualche lacché, ma che nessuno, mai, avrebbe parlato.
Secondo le stime di Tullio De Mauro, nel 1860 gli italofoni della penisola erano 600.000, due terzi dei quali concentrati in Toscana, pari al 2,5% della popolazione totale; secondo un altro studioso, Arrigo Castellani, la percentuale complessiva doveva essere un po’ più alta, intorno al 9-10%.
Il risultato centocinquant’anni dopo è miserando: straparliamo come bestie una lingua di cui evidentemente ignoriamo anche gli aspetti più elementari. Importiamo massicciamente parole straniere di cui ignoriamo, oltre alla pronuncia, il significato (su un campione di 158 anglicismi recenti, lo Zingarelli ne registra 121, contro i 42 dello spagnolo Clave e i 34 del francese Petit Robert). In compenso abbiamo smarrito completamente il dialetto, con il quale i nostri nonni contadini riuscivano ad esprimersi perfettamente, e senza fare strafalcioni. L’italiano è sempre stato una lingua letteraria, da Cavalcanti a Calvino, e mai una lingua nazionale. Ora che non esistono più gli scrittori, è una lingua morta.
Questi intellettualini risorgimentali, va sottolineato, importando la moda dello Stato unitario inventarono senza neppure accorgersene la qualità essenziale dell’intellettuale nostrano: il provincialismo. L’erbaccia del vicino, per i nostri intellettuali, è sempre più verde. Si tratta, con ogni evidenza, di un vistoso complesso di inferiorità. Da allora, dalla grande truffa risorgimentale, è stato tutto un rincorrersi di esterofilia militante, e ancor oggi discutiamo accanitamente di modello tedesco e modello francese e cultura anglosassone e spirito americano, e il più brillante è sempre quello che guarda più lontano da casa e la spara più grossa, citando a casaccio studiosi sconosciuti e località ignote, perché così vorrebbe dimostrare, da vero provinciale, di conoscere il mondo.
Fortunatamente, siamo gli unici sul pianeta ad imitare forsennatamente gli altri: a nessuno, grazie al cielo, è mai venuto in mente di imitare noi.
Del resto, i primi a disprezzare gli italiani furono proprio gli intellettuali risorgimentali, che qualche idea del loro paese se l’erano pur dovuta fare. ”Gl’Italiani – scriveva Massimo d’Azeglio nei Miei ricordi, la cui stesura cominciò nel 1863 – hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; [...] pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro”.
(...)
L’unità d’Europa cui stanno lavorando alacremente frotte di burocrati nazionalisti ha di buono che, recuperando l’idea sovranazionale, finisce giocoforza col mettere in crisi l’idea di nazione, svelandone l’intima inconsistenza. Quest’idea appartiene a tutti gli effetti alle brutture del Novecento, il quale a sua volta è la sanguinosa messa in pratica delle bizzarre idee del secolo precedente.
La sciocca parentesi unitaria che ancora ci affligge, e che come abbiamo visto non ha alcun fondamento storico o culturale, è dunque destinata a concludersi in ogni caso, vuoi per l’evaporazione della sovranità nazionale verso l’alto delle istituzioni europee o del mercato globale o dell’impero americano, vuoi per l’implosione silenziosa e inarrestabile nelle comunità, nelle culture e nelle civiltà preesistenti.
(...)
L’Italia, per fortuna, è spacciata. Nell’ultimo secolo l’hanno tenuta insieme a forza prima Mussolini, poi i grandi partiti di massa, e infine Berlusconi. Tolto Silvio Berlusconi, che certo non per caso viene dalla televisione commerciale generalista, e dunque si occupa per mestiere di fasce di pubblico e di picchi di audience, di target pubblicitari e di spot aspirazionali, e molto meno di politica o di virtù civili, oggi non c’è rimasto nessuno – neppure la Nazionale di calcio – in grado di rendere credibile la favola dell’Italia unita.
Del resto si tratta di una favola cui nessuno, qui in Italia, ha mai creduto davvero. Così come l’idea stessa dell’unità nazionale è stata il frutto di una moda straniera, similmente gli unici ad averla interpretata con una certa fermezza, e ad aver dunque governato la penisola come se effettivamente si trattasse di uno Stato nazionale, sono stati, a tutti gli effetti, dei non-italiani. L’Italia dei primi anni del Dopoguerra, forse la sola decente dopo il 1870, era retta da stranieri: De Gasperi era stato deputato al Parlamento di Vienna e aveva trascorso gli anni migliori della sua vita nelle biblioteche del Vaticano; Togliatti veniva da Mosca e, pur con tutta la geniale flessibilità del personaggio, non se ne era mai veramente allontanato.
Il Partito comunista e la Democrazia cristiana, le due architravi della Prima repubblica, erano in realtà due potenze straniere, come gli Absburgo o i Borbone, e i loro leader sono stati a tutti gli effetti i vicerè peninsulari dell’Unione sovietica e dello Stato pontificio. Quando hanno cominciato ad italianizzarsi, anche il Pci e la Dc sono rapidamente diventati inservibili e inguardabili, l’uno sprofondando nell’estremismo parolaio antitaliano, l’altra inabissandosi nella corruzione straitaliana: negli anni Ottanta anche i comunisti e i democristiani erano finalmente diventati italiani.
Anche Mussolini, che un giorno ebbe a dire con estrema saggezza che governare gli italiani non era difficile, ma inutile, utilizza l’idea di nazione, portandola alle sue più estreme, tragiche, ma non meno coerenti conseguenze, soltanto per scopi essenzialmente politici e di potere. È evidente il suo disprezzo inconsolabile per l’Italia, gli italiani, i preti e il Re (nessuno che prenda sul serio i suoi interlocutori o che li consideri qualcosa di più di scimmie da ammaestrare parlerebbe come parlava il Duce in pubblico). Tutto l’apparato propagandistico-culturale del regime, tuttavia, è subito all’opera per diffondere e promuovere l’italianità in ogni suo aspetto, dalle arti alla toponomastica, dalla Fiat Balilla alla battaglia del grano. Ma nessuno ci crede davvero, e anche la dittatura finisce rapidamente in burletta (prima che in tragedia).
In generale, nessun modello sociale o statuale immaginato da qualche solerte apostolo dell’umanità e sommariamente assemblato in laboratorio ha alcuna possibilità di funzionare. Normalmente produce infelicità, distruzione e morte; ma fortunatamente non riesce mai a durare a lungo. Gli esempi più vistosi ci vengono dalle società perfette del Novecento: il comunismo eurasiatico e la sua variante mitteleuropea, il nazionalsocialismo, hanno prodotto più morti di tutto il resto della storia dell’umanità messa assieme, ma dopo settant’anni si sono infine schiantati.
L’unità d’Italia ha avuto conseguenze meno drammatiche, e anzi tendenzialmente ridicole: ma sul piano teorico condivide con ogni altro modello artificiale di Stato la medesima arroganza intellettuale, la medesima violenza ideologica, e le medesima vocazione al fallimento. Il motivo fondamentale per cui l’Italia non funziona, dunque, è perché esiste».
4 commenti:
No semplicemente dicono quello che veramente pensano: L'Europa non esiste culture diverse, interessi diversi, giursdizione diversa welfare....
Ho sempre sospettato che "il sogno"Europa fosse una abdicazione ai teconocrati del nord dei nostri vizi atavici.
Il ceto politico ha abdicato
Quindi dato che l italia non può funzionare perché gli italiani sono troppo diversi...DOVREBBE FUNZIONARE l EUROPA UNITA??? È per questo che Trump ha vinto. Che ha vinto la brexit e in italia il No.
Perché i lacchè di regime ormai sono così ridicoli che pure il popolino più ignorante li ha smascherati. Ci fanno tanto stupidi ma i veri stupidi sono loro se pensano di poter condizionare la gente con roba del genere.
E difatti perdono regolarmente ogni consultazione elettorale.
Dai che ce la facciamo.
Indubbiamente lo spirito autolesionista "unifica" tutto lo scritto, ma ad una persona che, almeno territorialmente parlando appartiene alla nostra "espressione geografica" da generazioni, appare anche desolatamente disfattista. Oltre 1500 anni di storia sono difficili da amalgamare con le idee di Mazzini e di Garibaldi (certamente Massoni ma forse non proprio internazionalisti politicamente). Di questi tempi e schockante sentire gli italiani del sud rimpiangere i Borboni specie quando si definiscono "duo-siciliani". I celebri "staterelli" amalgamati stentatamente dai Savoia hanno fatto magra figura in questi quasi due secoli: prima con la campagna d'Abissinia, poi con la triplice intesa, poi con un ventennio di dominio fascista, poi con la seconda guerra mondiale in cui la Nazione è stata sbranata dalle bombe e dalla sconfitta militare, infine con l'infestazione pseudo democratica dei politicanti e gli stati uniti d'Europa. Per dare il tocco finale a questa sfortunata "Nazione" mancava solo lo tsunami dei migranti africani. e dei profughi. Cerchiamo di consolarci visitando i nostri musei e le nostre Città d'Arte.
Quests non existente negli anni 80 era la 4 potenza economica mondiale!
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