[ 4 giugno ]
IL 2 E 3 LUGLIO si svolgerà l'Assemblea-Seminario di P101. Uno dei temi che verrà affrontato sarà: "Il nuovo soggetto politico e la questione del populismo". Relatori: Manolo Monereo e Diego Melegari
Sulla questione se si possa e si debba "imparare" la lezione populista nella prospettiva del rovesciamento dell'ordine oligarchico vigente, era già intervenuto su questo blog Moreno Pasquinelli.
Presentando la sessione P101 scrive:
«Un nuovo fantasma si aggira per l’Europa: il "populismo". Ogni movimento, ogni forza politica che osa opporsi al regime ed al pensiero unico delle oligarchie viene etichettato come populista. Ma cos’è il populismo?
Dal punto di vista teorico, ormai non siamo più soli a sostenere che ci si debba confrontare seriamente con questa categoria. Ma è dal punto di vista pratico che la questione ha un’importanza capitale. Oggi, in un certo senso, l’intera lotta politica, e la stessa lotta di classe, sembrano svolgersi dentro il “campo da gioco” del populismo.
Vi è dunque un populismo dei dominanti (si pensi a Renzi), ed un populismo dei dominati. Se per il potere il populismo è una necessità dovuta alla straordinaria crisi di consenso di cui soffre, per le classi popolari esso può essere, dopo il tracollo verticale delle tradizionali organizzazioni politiche e sindacali, lo strumento della riscossa.
Occorre perciò attrezzarsi per combattere la battaglia su questo terreno. Da ciò derivano conseguenze assai rilevanti sul tipo di soggetto politico da costruire, sulle rotture teoriche da operare, sulle modalità dell’azione politica, su modi e linguaggi utili a veicolare il nuovo messaggio politico, sociale ed anche ideale».
« [...] Il fatto è che nella corsa presidenziale americana si sta delineando un fenomeno forse decisivo. E cioè che mentre alcuni sondaggi già ora cominciano a non dar più la Clinton come vincitrice sicura in un duello con Trump, viceversa non sembrano esserci dubbi sul fatto che Sanders batterebbe di sicuro il candidato repubblicano. In altre parole, sarebbe il populismo progressista, non già la sinistra democratica «per bene», la posizione davvero capace di sconfiggere il populismo reazionario.
P er l’Europa si tratterebbe di una lezione importantissima. Da tempo i suoi sistemi politici e i suoi partiti tradizionali sono squassati dai venti di tempesta di una spinta antioligarchico-populistica carica di volontà di riaffermazione nazionale: una spinta che finora è stata puntualmente sequestrata da formazioni di destra, intrise di umori xenofobi e autoritari. Incanalata in un simile alveo questa spinta costituisce una vera minaccia per la democrazia dei nostri Paesi. Ma proprio perché le cose stanno così, l’esempio americano potrebbe indicare quella che forse è la sola via d’uscita da una situazione che invece oggi, qui in Europa, vede le forze democratiche paralizzate, incapaci di trovare idee ed energie per una controffensiva, e perciò destinate inevitabilmente prima o poi, se il quadro resta quello attuale, a una sconfitta rovinosa.
La via d’uscita è per l’appunto quella incarnata dal senatore Sanders: il populismo democratico. A un populismo di destra opporre un populismo di sinistra pronto naturalmente — come farebbe senz’altro per primo Sanders, se mai dovesse essere lui il candidato democratico — a rinunciare al «socialismo» e a stipulare preliminarmente un compromesso con alcuni settori chiave del mondo della produzione e degli affari. È la via che a suo tempo prese Roosevelt per uscire dalla crisi del ’29: per esempio non esitando a ricorrere con spregiudicatezza all’appello al popolo contro il formalismo giuridico della Corte Suprema che sbarrava il passo al suo programma audacemente riformatore. È la medesima via indicata all’inizio del Novecento da Max Weber, quando vedeva la salvezza delle democrazie nel futuro burrascoso che si annunciava solo nel potere conferito a un «Cesare democratico».
Ma che cosa vuol dire quest’espressione? Che significa in concreto un populismo democratico? Molte cose: dallo stare dalla parte del «piccolo uomo» (il piccolo produttore, il piccolo risparmiatore, il consumatore, il popolo minuto) contro il Big Business; dalla parte della produzione contro le rendite finanziarie; dalla parte dei bisogni e dei diritti dei più contro gli interessi dei pochi smascherando questi interessi e i loro abituali camuffamenti; stare dalla parte dell’espansione contro la deflazione e l’austerità; stare dalla parte della politica contro l’economia, favorendo la possibilità istituzionale di decisioni non contrattate e non compromissorie (come invece vorrebbe il parlamentarismo dei bravi democratici «per bene»).
Populismo democratico significa tutto questo ma in più qualcos’altro, che però — si badi — è un ingrediente essenziale per qualificarne la diversità rispetto a quello reazionario. Significa innanzi tutto un «discorso» diverso. E cioè un’alta «retorica» sui principi della comunità, sul suo destino, sul suo vivere insieme per adempiere un fine inclusivo, per raggiungere un traguardo positivo che alla fine riguarda tutti (anche le oligarchie nemiche). Significa la capacità di richiamarsi credibilmente agli ideali, di costruire un’immagine all’insegna del disinteresse personale, suggerendo l’idea di un impegno politico al servizio di una speranza collettiva da opporre alla paura del declino e del declassamento sociale. Ecco quanto il Cesare democratico dovrebbe mostrarsi in grado di fare e specialmente di esprimere: grazie alla parola e al gesto simbolico. Rivolgendosi al cuore anziché alla pancia, come invece è spinto a fare il suo omologo reazionario. Il primo è un profeta ragionevole che addita la salvezza, il secondo uno stregone che evoca i demoni sancendo tutti i tabù».
L’Europa però non sembra capace di produrre alcuna figura di Cesare democratico. È la riprova del venir meno nelle sue élite e nelle sue culture politiche egemoni di ogni autentico sfondo ideale, della loro assoluta incapacità di rispondere alla drammatica novità dei tempi, di mantenere un rapporto vero con il sentire profondo delle proprie società. È la conferma altresì di una selezione ai posti di maggiore responsabilità che da tempo si attua dappertutto pressoché esclusivamente sulla base di meccanismi di tipo sostanzialmente burocratico. In realtà nessun luogo come oggi l’Europa continentale a ovest dell’Elba ha conosciuto una simile eclisse dello Stato nazionale e di conseguenza del «politico» costringendosi, come attualmente è costretta, a confidare per il suo futuro sui tribunali e sulle finanze, sulle banche e sulle «direttive» di Bruxelles: sotto la guida trascinante dell’avvocato Jean–Claude Juncker.
IL 2 E 3 LUGLIO si svolgerà l'Assemblea-Seminario di P101. Uno dei temi che verrà affrontato sarà: "Il nuovo soggetto politico e la questione del populismo". Relatori: Manolo Monereo e Diego Melegari
Presentando la sessione P101 scrive:
«Un nuovo fantasma si aggira per l’Europa: il "populismo". Ogni movimento, ogni forza politica che osa opporsi al regime ed al pensiero unico delle oligarchie viene etichettato come populista. Ma cos’è il populismo?
Dal punto di vista teorico, ormai non siamo più soli a sostenere che ci si debba confrontare seriamente con questa categoria. Ma è dal punto di vista pratico che la questione ha un’importanza capitale. Oggi, in un certo senso, l’intera lotta politica, e la stessa lotta di classe, sembrano svolgersi dentro il “campo da gioco” del populismo.
Vi è dunque un populismo dei dominanti (si pensi a Renzi), ed un populismo dei dominati. Se per il potere il populismo è una necessità dovuta alla straordinaria crisi di consenso di cui soffre, per le classi popolari esso può essere, dopo il tracollo verticale delle tradizionali organizzazioni politiche e sindacali, lo strumento della riscossa.
Occorre perciò attrezzarsi per combattere la battaglia su questo terreno. Da ciò derivano conseguenze assai rilevanti sul tipo di soggetto politico da costruire, sulle rotture teoriche da operare, sulle modalità dell’azione politica, su modi e linguaggi utili a veicolare il nuovo messaggio politico, sociale ed anche ideale».
Parole profetiche leggendo l'editoriale apparso questa mattina sul Corriere della Sera a firma di Galli Della Loggia.
A quel che ci risulta è la prima volta che il termine "populismo" viene sdoganato da una importante tribuna del pensiero unico come una soluzione plausibile alla crisi del mondo politico dei dominanti.
Questa riflessione parte dall'osservazione di quanto va accadendo negli Stati Uniti (che sono pur sempre il centro dell'impero da cui diversi fenomeni partono per irradiarsi nelle periferie) quindi i due personaggi Trump e Sanders. Due "populisti" ma, come segnala Della Loggia, entrambi interni all'establishment...
L'editoriale contiene quindi diversi spunti politici su cui vale la pena ragionare.
Il Cesare democratico che non c'è
di Ernesto Galli Della Loggia
« [...] Il fatto è che nella corsa presidenziale americana si sta delineando un fenomeno forse decisivo. E cioè che mentre alcuni sondaggi già ora cominciano a non dar più la Clinton come vincitrice sicura in un duello con Trump, viceversa non sembrano esserci dubbi sul fatto che Sanders batterebbe di sicuro il candidato repubblicano. In altre parole, sarebbe il populismo progressista, non già la sinistra democratica «per bene», la posizione davvero capace di sconfiggere il populismo reazionario.
P er l’Europa si tratterebbe di una lezione importantissima. Da tempo i suoi sistemi politici e i suoi partiti tradizionali sono squassati dai venti di tempesta di una spinta antioligarchico-populistica carica di volontà di riaffermazione nazionale: una spinta che finora è stata puntualmente sequestrata da formazioni di destra, intrise di umori xenofobi e autoritari. Incanalata in un simile alveo questa spinta costituisce una vera minaccia per la democrazia dei nostri Paesi. Ma proprio perché le cose stanno così, l’esempio americano potrebbe indicare quella che forse è la sola via d’uscita da una situazione che invece oggi, qui in Europa, vede le forze democratiche paralizzate, incapaci di trovare idee ed energie per una controffensiva, e perciò destinate inevitabilmente prima o poi, se il quadro resta quello attuale, a una sconfitta rovinosa.
La via d’uscita è per l’appunto quella incarnata dal senatore Sanders: il populismo democratico. A un populismo di destra opporre un populismo di sinistra pronto naturalmente — come farebbe senz’altro per primo Sanders, se mai dovesse essere lui il candidato democratico — a rinunciare al «socialismo» e a stipulare preliminarmente un compromesso con alcuni settori chiave del mondo della produzione e degli affari. È la via che a suo tempo prese Roosevelt per uscire dalla crisi del ’29: per esempio non esitando a ricorrere con spregiudicatezza all’appello al popolo contro il formalismo giuridico della Corte Suprema che sbarrava il passo al suo programma audacemente riformatore. È la medesima via indicata all’inizio del Novecento da Max Weber, quando vedeva la salvezza delle democrazie nel futuro burrascoso che si annunciava solo nel potere conferito a un «Cesare democratico».
Ma che cosa vuol dire quest’espressione? Che significa in concreto un populismo democratico? Molte cose: dallo stare dalla parte del «piccolo uomo» (il piccolo produttore, il piccolo risparmiatore, il consumatore, il popolo minuto) contro il Big Business; dalla parte della produzione contro le rendite finanziarie; dalla parte dei bisogni e dei diritti dei più contro gli interessi dei pochi smascherando questi interessi e i loro abituali camuffamenti; stare dalla parte dell’espansione contro la deflazione e l’austerità; stare dalla parte della politica contro l’economia, favorendo la possibilità istituzionale di decisioni non contrattate e non compromissorie (come invece vorrebbe il parlamentarismo dei bravi democratici «per bene»).
Populismo democratico significa tutto questo ma in più qualcos’altro, che però — si badi — è un ingrediente essenziale per qualificarne la diversità rispetto a quello reazionario. Significa innanzi tutto un «discorso» diverso. E cioè un’alta «retorica» sui principi della comunità, sul suo destino, sul suo vivere insieme per adempiere un fine inclusivo, per raggiungere un traguardo positivo che alla fine riguarda tutti (anche le oligarchie nemiche). Significa la capacità di richiamarsi credibilmente agli ideali, di costruire un’immagine all’insegna del disinteresse personale, suggerendo l’idea di un impegno politico al servizio di una speranza collettiva da opporre alla paura del declino e del declassamento sociale. Ecco quanto il Cesare democratico dovrebbe mostrarsi in grado di fare e specialmente di esprimere: grazie alla parola e al gesto simbolico. Rivolgendosi al cuore anziché alla pancia, come invece è spinto a fare il suo omologo reazionario. Il primo è un profeta ragionevole che addita la salvezza, il secondo uno stregone che evoca i demoni sancendo tutti i tabù».
L’Europa però non sembra capace di produrre alcuna figura di Cesare democratico. È la riprova del venir meno nelle sue élite e nelle sue culture politiche egemoni di ogni autentico sfondo ideale, della loro assoluta incapacità di rispondere alla drammatica novità dei tempi, di mantenere un rapporto vero con il sentire profondo delle proprie società. È la conferma altresì di una selezione ai posti di maggiore responsabilità che da tempo si attua dappertutto pressoché esclusivamente sulla base di meccanismi di tipo sostanzialmente burocratico. In realtà nessun luogo come oggi l’Europa continentale a ovest dell’Elba ha conosciuto una simile eclisse dello Stato nazionale e di conseguenza del «politico» costringendosi, come attualmente è costretta, a confidare per il suo futuro sui tribunali e sulle finanze, sulle banche e sulle «direttive» di Bruxelles: sotto la guida trascinante dell’avvocato Jean–Claude Juncker.
5 commenti:
A parte il fatto che quando sento parlare di Sanders (ma devo dire anche di Iglesias) il mio pensiero corre subito a Tripras, Varufakis e così via prendendo per i fondelli il popolo, Della Loggia o voi, compagni, sapreste indicarmi per favore, al di là del linguaggio "sobrio" e politicamente corretto, qualche impegno concreto in politica estera da parte di Sanders che lo differenzi in qualche modo da Trump e dalla Clinton (e che possa farmelo preferire)?
Che non so, per esempio la rinuncia al TIPPS, o al sostegno ai nazisti ucraini, o ai genocidi di Israele, o l' impegno a ritirare truppe più o meno "private" (o segrete) da Siria, Iraq, Libia, il ripristino di un trattato con la Russia per vietare "scudi antimissile" o "guerre stellari", ecc.?
Grazie per l' attenzione.
Giulio Bonali
Questi servi del regime, dopo aver fatto per 30 anni gli intellettuali organici del capitalismo di rapina e delle multinazionali d'assalto, cominciano a capire che il sistema non regge senza un make-up che principalmente ne mascheri, ma anche un po' ne civilizzi la smania rapinatrice.
Da veri impiegati di concetto remunerati per difendere le posizioni dei loro datori di lavoro, da un mese all'altro, con sconvolgente disinvoltura, si buttano alle spalle le idee sostenute per tutta la vita e si mettono alla ricerca di una classe e di una narrazione politiche in grado di puntellare il capitalismo terminale. Naturalmente le trovano nella sinistra (parlamentare), da cui non c'è pericolo che giungano pulsioni autenticamente destabilizzanti per il sistema.
La cosa più bella è che un neoliberista parli della necessità di difendere la democrazia, che lui e i suoi colleghi hanno svuotata di sostanza come un'ostrica. Ma il discorso si rende comprensibile quando si pensi che "le oligarchie finanziarie preferiscono i governi democratici a quelli autoritari. La stabilità del sistema è consolidata da periodiche consultazioni popolari che ratificano l’operato dei governi – questo e non altro è il normale significato delle elezioni parlamentari democratiche – ed evitano all’oligarchia alcuni pericoli molto reali di dittatura personale o militare" (Baran e Sweezy, Il capitalismo monopolistico).
La mia opinione è che Trump può essere considerato come l'ultimo conato di orgoglio del maschio bianco in occidente.
Lungi da me l'idea di fomentare maschilismi fascistoidi o celodurismi bossiani.
Credo però che un partito comunista oggi dovrebbe assumere una postura dichiaratamente "virile" quindi in particolare nel linguaggio e nel modo di confrontarsi per esempio nei dibattiti televisivi.
Per cortesia, non ho detto che bisogna fare continue allusioni sessuali, dire parolacce, minacciare di risolvere le questioni a calci o dimostrarsi omofobi.
I concetti, come appunto "essere virili", si interpretano, non hanno una loro valenza e significato fissi definiti una volta per tutte.
Moreno giustamente parla di cercare un nuovo linguaggio che sia "populista di sinistra" e secondo me una delle caratteristiche perché funzioni nei nostri tempi è questa.
Probabilmente non ce n' era bisogno, ma devo precisare che nel mio precedente "intervento-disperata invocazione" TIPPS (un acronimo medico che uso talora professionalmente: mammamia, l' Alzheimer é per lo meno in agguato! Che Dio me la mandi buona!) stava ovviamente per TTIP.
Grazie.
G.B.
Buona la citazione da Baran e Sweezy che le oligarchie mondialiste preferiscono democrazie formali, deboli e truccate, a regimi bonapartisti in cui un solo uomo sia al comando. vedi gli attacchi di E. Scalfari e De Bortoli a Renzi.....
LA ragione è semplice: la politica, comunque declinata, deve essere debole, sovraordinata dall'economia e dai mercati, leggi dalle grandi multinazionali finanziarie e industriali che non sopportano i lacci della politica, quindi degli stati nazionali e vogliono scorrazzare come meglio credono.
Siccome sono stato tirato in ballo sul concetto di "populismo di sinistra" non mi sottraggo.
Sì, penso che in questa concreta fase sociale e politica, per chi voglia tenere accesa la fiaccola dei valori e dei principi egualitari e di farternità della sinistra, quella di un "populismo di sinistra" è la sola via percorribile.
ma di questo discuteremo all'assemblea-seminario del 2 e 3 luglio di P101.
Moreno Pasquinelli
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