[ 12 giugno]
«C’è anche una situazione generale che non è affatto rosea, e che porterà probabilmente a esiti catastrofici contro i quali forse poco potremo fare. Quella che sto provando ad indicare è solo una direzione di fondo, una direzione di fondo che però potrebbe cominciare ad operare già nel presente».
«C’è anche una situazione generale che non è affatto rosea, e che porterà probabilmente a esiti catastrofici contro i quali forse poco potremo fare. Quella che sto provando ad indicare è solo una direzione di fondo, una direzione di fondo che però potrebbe cominciare ad operare già nel presente».
Da quanto ho scritto in precedenza, e che è stato pubblicato su Sollevazione il primo giugno, mi sembra di poter sostenere l’inadeguatezza dell’apparato concettuale keinesiano a fondare una politica economica per il presente.
Si pone allora la domanda su con che cosa possiamo sostituirlo. Posto per certo che per chi scrive il lavoro di Marx resta la base per la comprensione della società esistente, è meno facile rintracciare in questo pensiero indicazioni pratiche per l’intervento nella società del capitalismo maturo. A parte che, notoriamente, Marx non scriveva “ricette per la cucina dell’avvenire”, è evidente che la nostra società è così ampiamente partecipata da essere molto diversa dal capitalismo liberale dell’800.
Con cosa sostituire Keynes, allora?
A me sembra che all’interno dello stesso pensiero economico accademico ci siano spunti critici di grande importanza, molto più significativi della stessa critica keynesiana, che però non vengono generalmente sufficientemente considerati e valutati.
Pensiamo alla questione, conosciuta dai marginalisti, delle “esternalità”: cioè alla considerazione che quando due soggetti contrattano, il prezzo che si forma non è indicativo dei reali costi sociali perché gran parte di questi ricadono su soggetti esterni alle persone che scambiano. Il mercato, in altri termini, non può essere uno strumento di allocazione ottimale delle risorse. Ma non nei due o tre mercati considerati da Keynes.. ma in TUTTI…!
O d’altra parte la questione delle “asimmetrie informative”: il suo significato è che quando fra un datore di lavoro e il suo dipendente esiste un rapporto conflittuale e non cooperativo, il risultato della loro contrattazione è diverso da quello ottimale.
Se combiniamo insieme queste due affermazioni, usando un linguaggio marxiano, potremmo concludere che il capitalismo non può funzionare né dal lato della circolazione dei beni (esternalità) né sul piano della produzione (asimmetrie informative).
E’ vero, replicherà qualcuno, i temi delle “esternalità” e delle “asimmetrie informative” sono importanti sul piano teorico, ma quali strumenti individuano per intervenire politicamente? Almeno Keynes aveva individuato lo strumento della spesa pubblica.
Però non è così.
Da questo punto di vista ci aiuta Pigou (o chi per lui) parlando dell’ “analisi costi- benefici”. Quando lo stato o un altro soggetto pubblico interviene nell’economia non può ragionare né in termini di costi e ricavi (per ovvi motivi) né con l’ottica di pareggio di bilancio. Deve ragionare in altri termini, cioè deve considerare le ricadute di qualsiasi genere che la sua azione avrà sull’insieme dei soggetti economici e dei cittadini. Dovrà ragionare sulla utilità dei servizi che propone, e della loro efficienza; della equità e efficacia del sistema tributario, sia dal punto di vista complessivo sia su quello della esazione; dovrà considerare in che modo quell’intervento agisce sulla matrice dei costi, le conseguenze sull’ambiente, sul territorio urbano, sulla circolazione dei veicoli, le conseguenze sulla distribuzione del reddito, sull’occupazione, sull’impiego delle risorse. Le considerazioni keynesiane sulla domanda effettiva possono essere un importante sottoinsieme di queste considerazioni.
I marginalisti e Pigou impiegavano strumenti tecnici complicati e forse discutibili. Però il significato pratico che a mio parere se ne può dedurre è che i soggetti pubblici, per quanto in loro competenza, devono ragionare in termini di PIANIFICAZIONE. Di pianificazione, si badi bene, nell’ambito delle proprie competenze: non sto immaginando una pianificazione integrale dell’economia: considero l’iniziativa privata, sia in termini di creatività che in termini di intelligenza diffusa una risorsa insostituibile della nostra società.
Ma per intervenire in termini di pianificazione non è affatto necessario controllare tutto il sistema economico: pianificazione è un metodo, significa tener conto che il fine di ogni ente pubblico è il Bene Comune; significa ricordare che la ragione dell’esistenza dello Stato Interventista è nel Fallimento del Mercato. Significa ricordare che il ruolo dello Stato è di creare ESTERNALITÀ positive per tutto il sistema economico. Significa infine ricordare che lo Stato è il principale attore del sistema economico ed è anch’esso un Produttore
Facendo un esempio banale, se c’è da costruire un ponte che riduce, poniamo, i costi a mezzo milione di imprese, la domanda “Ma deve essere finanziato in deficit o in pareggio di bilancio” risulta piuttosto stravagante. Meglio in deficit, verrebbe da dire, e poi recuperarne i costi con le imposte sul reddito. Ma chiaramente non è l’argomento centrale.
L’argomento centrale per un soggetto pubblico è: i servizi che organizzo sono utili? Sono organizzati in modo efficiente? La loro utilità è valida anche se confrontata con l’uso delle risorse? Le risorse che utilizzo sono raccolte in modo equo, ed in modo efficiente (che sono due cose diverse)? Gli stipendi che distribuisco sono adeguati e giustificati? Le assunzioni del personale sono clientelari o democratiche? Le spese per gli acquisti e per gli investimenti sono giustificate? Quali sono gli effetti dei miei investimenti e della mia produzione sul sistema economico e sulla società più in generale? Chiaramente questo insieme di questioni è un po’ più ampio delle considerazioni keynesiane sulla domanda effettiva.
Qualcuno si chiederà: ma la teoria accademica ci dice anche qualcosa sull’economia internazionale e sull’assurdità dell’ Unione Europea…?
Ma certo che lo dice. Non c’è bisogno di ricorrere alla teoria delle aree valutarie ottimali di Mundell, che poi si scopre che il suo inventore dice: «L’Unione Europea..? E’ completamente irrazionale, è bellissimo! E’ Reagan in Europa…!»
Né di fare considerazioni sugli effetti devastanti e criminali delle politiche di austerità dell’Unione Europea. Bastano le equazioni walrasiane dell’equilibrio economico generale per capire come il principio fondamentale di tale equilibrio, cioè l’uguaglianza del prezzo di ogni singola merce sui vari mercati, sia contraddetto dalla libera circolazione dei capitali, che permette al capitale dei paesi centrali di speculare sulla differenza di salari fra i paesi. Il sistema della libera circolazione dei capitali, e quindi anche l’ Unione Europea, è cioè completamente infondato anche dal punto di vista della teoria neoclassica.
Si potrebbe continuare mostrando come la teoria ricardiana dei costi comparati indichi un percorso per degli scambi fra paesi cooperativi e mutualmente vantaggiosi diverso da quello della libera circolazione dei capitali.
Ma si divagherebbe troppo. La questione, fatte le premesse precedenti é: se noi ridefiniamo l’oggetto dell’intervento politico nei termini della qualità, della razionalità intesa come pianificazione, dei soggetti pubblici, posto che i luoghi delle decisioni di rilevanza collettiva sono migliaia, forse milioni, come si può pensare di agire in modo efficace su questi? Quale organizzazione può mai proporsi realisticamente di intervenire in questi milioni di luoghi?
SULL’AZIONE POLITICA. L’IO E IL NOI
La sola risposta realistica all’ultima domanda a mio avviso è: quell’organizzazione non si può costruire.
Non c’è riuscito in 50 anni il Partito Comunista Italiano, con il suo milione e mezzo di militanti, erede della organizzazione socialista, formatosi nella temperie della guerra civile spagnola e della seconda guerra mondiale, a costruire un organizzazione che incidesse in modo significativo in tutti i luoghi rilevanti dell’agire politico, dovremmo riuscirci noi, che siamo per lo più eredi eterodossi di qualche corrente minoritaria del pensiero critico?
Con cosa sostituire Keynes, allora?
A me sembra che all’interno dello stesso pensiero economico accademico ci siano spunti critici di grande importanza, molto più significativi della stessa critica keynesiana, che però non vengono generalmente sufficientemente considerati e valutati.
Pensiamo alla questione, conosciuta dai marginalisti, delle “esternalità”: cioè alla considerazione che quando due soggetti contrattano, il prezzo che si forma non è indicativo dei reali costi sociali perché gran parte di questi ricadono su soggetti esterni alle persone che scambiano. Il mercato, in altri termini, non può essere uno strumento di allocazione ottimale delle risorse. Ma non nei due o tre mercati considerati da Keynes.. ma in TUTTI…!
O d’altra parte la questione delle “asimmetrie informative”: il suo significato è che quando fra un datore di lavoro e il suo dipendente esiste un rapporto conflittuale e non cooperativo, il risultato della loro contrattazione è diverso da quello ottimale.
Se combiniamo insieme queste due affermazioni, usando un linguaggio marxiano, potremmo concludere che il capitalismo non può funzionare né dal lato della circolazione dei beni (esternalità) né sul piano della produzione (asimmetrie informative).
E’ vero, replicherà qualcuno, i temi delle “esternalità” e delle “asimmetrie informative” sono importanti sul piano teorico, ma quali strumenti individuano per intervenire politicamente? Almeno Keynes aveva individuato lo strumento della spesa pubblica.
Però non è così.
Da questo punto di vista ci aiuta Pigou (o chi per lui) parlando dell’ “analisi costi- benefici”. Quando lo stato o un altro soggetto pubblico interviene nell’economia non può ragionare né in termini di costi e ricavi (per ovvi motivi) né con l’ottica di pareggio di bilancio. Deve ragionare in altri termini, cioè deve considerare le ricadute di qualsiasi genere che la sua azione avrà sull’insieme dei soggetti economici e dei cittadini. Dovrà ragionare sulla utilità dei servizi che propone, e della loro efficienza; della equità e efficacia del sistema tributario, sia dal punto di vista complessivo sia su quello della esazione; dovrà considerare in che modo quell’intervento agisce sulla matrice dei costi, le conseguenze sull’ambiente, sul territorio urbano, sulla circolazione dei veicoli, le conseguenze sulla distribuzione del reddito, sull’occupazione, sull’impiego delle risorse. Le considerazioni keynesiane sulla domanda effettiva possono essere un importante sottoinsieme di queste considerazioni.
I marginalisti e Pigou impiegavano strumenti tecnici complicati e forse discutibili. Però il significato pratico che a mio parere se ne può dedurre è che i soggetti pubblici, per quanto in loro competenza, devono ragionare in termini di PIANIFICAZIONE. Di pianificazione, si badi bene, nell’ambito delle proprie competenze: non sto immaginando una pianificazione integrale dell’economia: considero l’iniziativa privata, sia in termini di creatività che in termini di intelligenza diffusa una risorsa insostituibile della nostra società.
Ma per intervenire in termini di pianificazione non è affatto necessario controllare tutto il sistema economico: pianificazione è un metodo, significa tener conto che il fine di ogni ente pubblico è il Bene Comune; significa ricordare che la ragione dell’esistenza dello Stato Interventista è nel Fallimento del Mercato. Significa ricordare che il ruolo dello Stato è di creare ESTERNALITÀ positive per tutto il sistema economico. Significa infine ricordare che lo Stato è il principale attore del sistema economico ed è anch’esso un Produttore
Facendo un esempio banale, se c’è da costruire un ponte che riduce, poniamo, i costi a mezzo milione di imprese, la domanda “Ma deve essere finanziato in deficit o in pareggio di bilancio” risulta piuttosto stravagante. Meglio in deficit, verrebbe da dire, e poi recuperarne i costi con le imposte sul reddito. Ma chiaramente non è l’argomento centrale.
L’argomento centrale per un soggetto pubblico è: i servizi che organizzo sono utili? Sono organizzati in modo efficiente? La loro utilità è valida anche se confrontata con l’uso delle risorse? Le risorse che utilizzo sono raccolte in modo equo, ed in modo efficiente (che sono due cose diverse)? Gli stipendi che distribuisco sono adeguati e giustificati? Le assunzioni del personale sono clientelari o democratiche? Le spese per gli acquisti e per gli investimenti sono giustificate? Quali sono gli effetti dei miei investimenti e della mia produzione sul sistema economico e sulla società più in generale? Chiaramente questo insieme di questioni è un po’ più ampio delle considerazioni keynesiane sulla domanda effettiva.
Qualcuno si chiederà: ma la teoria accademica ci dice anche qualcosa sull’economia internazionale e sull’assurdità dell’ Unione Europea…?
Ma certo che lo dice. Non c’è bisogno di ricorrere alla teoria delle aree valutarie ottimali di Mundell, che poi si scopre che il suo inventore dice: «L’Unione Europea..? E’ completamente irrazionale, è bellissimo! E’ Reagan in Europa…!»
Né di fare considerazioni sugli effetti devastanti e criminali delle politiche di austerità dell’Unione Europea. Bastano le equazioni walrasiane dell’equilibrio economico generale per capire come il principio fondamentale di tale equilibrio, cioè l’uguaglianza del prezzo di ogni singola merce sui vari mercati, sia contraddetto dalla libera circolazione dei capitali, che permette al capitale dei paesi centrali di speculare sulla differenza di salari fra i paesi. Il sistema della libera circolazione dei capitali, e quindi anche l’ Unione Europea, è cioè completamente infondato anche dal punto di vista della teoria neoclassica.
Si potrebbe continuare mostrando come la teoria ricardiana dei costi comparati indichi un percorso per degli scambi fra paesi cooperativi e mutualmente vantaggiosi diverso da quello della libera circolazione dei capitali.
Ma si divagherebbe troppo. La questione, fatte le premesse precedenti é: se noi ridefiniamo l’oggetto dell’intervento politico nei termini della qualità, della razionalità intesa come pianificazione, dei soggetti pubblici, posto che i luoghi delle decisioni di rilevanza collettiva sono migliaia, forse milioni, come si può pensare di agire in modo efficace su questi? Quale organizzazione può mai proporsi realisticamente di intervenire in questi milioni di luoghi?
SULL’AZIONE POLITICA. L’IO E IL NOI
La sola risposta realistica all’ultima domanda a mio avviso è: quell’organizzazione non si può costruire.
Non c’è riuscito in 50 anni il Partito Comunista Italiano, con il suo milione e mezzo di militanti, erede della organizzazione socialista, formatosi nella temperie della guerra civile spagnola e della seconda guerra mondiale, a costruire un organizzazione che incidesse in modo significativo in tutti i luoghi rilevanti dell’agire politico, dovremmo riuscirci noi, che siamo per lo più eredi eterodossi di qualche corrente minoritaria del pensiero critico?
Ma non ci possiamo riuscire, in più, perché il liberalismo ha impregnato profondamente tutta la società italiana: non solo le classi dominanti politiche e finanziarie, e la larga area di clientela e di convenienza legata alla prima, ma tutti gli ordini professionali, a partire da magistrati e avvocati, tutte le associazioni imprenditoriali, i sindacati, e gli stessi oppositori di questo sistema. Infatti, per fare un esempio, le decine o centinaia di micro gruppi ed organizzazioni che negli anni recenti si sono schierati contro l’Euro o contro l’ Unione Europea non sono mai riusciti a coalizzarsi e la ragione principale sta nella loro visione individualistica/liberale. Non ci può riuscire, infine, perché sono infinite le competenze diffuse nella società, e nessun soggetto politico può nemmeno lontanamente immaginare di dar loro indicazioni, e qui sarebbe necessario quel bagno di umiltà che ogni militante politico può fare discutendo con chi esercita una professione, magari un contadino.
Allora, qual è il compito degli intellettuali, o di chi, come noi, più modestamente si pone il problema di una alternativa allo stato di cose presenti?
C’è una intervista, una delle tante che Diego Fusaro ha fatto a Costanzo Preve e che ha messo su internet (su Marx, Fichte, Kant) in cui a un certo punto il filosofo torinese dice:
Allora, qual è il compito degli intellettuali? A parere di chi scrive, la critica del liberalismo, cioè delle ideologie dell’irresponsabilità.
C’è una linea diretta, a mio parere, fra gli scritti di Guglielmo di Occam, il protestantesimo, il capitalismo moderno e i vaneggiamenti di Mario Monti sulla Grecia come “Più grande successo dell’euro”. La linea diretta sta nella separazione del bene individuale dal Bene Comune.
Occam, in contrapposizione a Tommaso D’ Aquino e alla sua “Summa Theologiae” affermava l’inconoscibilità della verità (“Chi siamo noi per giudicare gli Universali”?) e l’inadeguatezza della ragione per conoscere il reale (“Dio potrebbe agire anche violando il principio di non–contraddizione”: dunque la ragione è inutile) .
Allora, qual è il compito degli intellettuali, o di chi, come noi, più modestamente si pone il problema di una alternativa allo stato di cose presenti?
C’è una intervista, una delle tante che Diego Fusaro ha fatto a Costanzo Preve e che ha messo su internet (su Marx, Fichte, Kant) in cui a un certo punto il filosofo torinese dice:
«Negli anni ’60 eravamo ossessionati dalla metafora della “durezza”. Duro era il capitalismo, dura era la resistenza della borghesia. Si era dimenticato che il reale era duro in quanto NON-IO. È vero che il Reale è “duro”, ma la sua durezza è la durezza di un NON-IO il cui IO ha dimenticato di essere lui stesso ad averlo posto e che lui stesso, avendolo posto, lo può revocare».Che poi, anche se con altro linguaggio, non è diverso dall’idea marxiana di riportare alla coscienza i rapporti fra gli individui sottostanti alle relazioni umane che riappaiono in forma alienata nel mercato.
Allora, qual è il compito degli intellettuali? A parere di chi scrive, la critica del liberalismo, cioè delle ideologie dell’irresponsabilità.
C’è una linea diretta, a mio parere, fra gli scritti di Guglielmo di Occam, il protestantesimo, il capitalismo moderno e i vaneggiamenti di Mario Monti sulla Grecia come “Più grande successo dell’euro”. La linea diretta sta nella separazione del bene individuale dal Bene Comune.
Occam, in contrapposizione a Tommaso D’ Aquino e alla sua “Summa Theologiae” affermava l’inconoscibilità della verità (“Chi siamo noi per giudicare gli Universali”?) e l’inadeguatezza della ragione per conoscere il reale (“Dio potrebbe agire anche violando il principio di non–contraddizione”: dunque la ragione è inutile) .
Dopo di lui, conseguentemente, i protestanti hanno sostenuto che ognuno avrebbe potuto “leggere la Bibbia da solo” (cioè farsi individualmente giudice del Bene Comune) e poi Adam Smith ha sostenuto che la cosa migliore era che ognuno cercasse il proprio utile (che tanto poi c’era la “Mano Invisibile” a mettere a posto le cose).
Il liberalismo, se è valida la mia ipotesi di lettura, ha sempre interpretato la via di realizzazione dell’uomo come “emancipazione” (emancipazione vuol dire “rottura delle catene”), cioè come liberazione dai vincoli della totalità. Questo poteva essere comprensibile storicamente (la borghesia doveva liberarsi dal potere feudale e dalla Chiesa) ma ha generato ideologie dell’Irresponsabilità. Sono tali infatti il liberismo (cerco il mio utile, al resto ci pensa la mano Invisibile), il neo-liberismo (l’importante sono gli affari, i popoli possono fottersi), il keynesismo (l’importante è la spesa, poi si vedrà), ma anche il sindacalismo e, in parte, il comunismo.
Negli anni ’70 e ’80 chi ha fatto parte della sinistra consiliare si ricorderà che il leit-motiv era “ricostruire il blocco sociale antagonista”. Quella ricostruzione è impossibile. Sulla base della sola rivendicazione dei propri bisogni non si ricostruisce niente. Sulla base di “diritti e responsabilità” forse sì.
Cioè, non c’è nessuna legge per la quale la lotta di ciascuno per i propri bisogni si possa ricomporre magicamente in qualcosa di simile ad un Bene Comune. Immaginarlo significa far del misticismo. E’ la versione proletaria di Adam Smith. E’ una cattiva teologia.
D’altra parte anche il comunismo marxiano è stato forse, per certi versi, una ideologia dell’irresponsabilità.
Ha individuato efficacemente l’aspetto dello sfruttamento, ma ha messo in ombra che quello dello sfruttamento era il polo di un rapporto di produzione in cui si cede libertà in cambio di sicurezza, si concede schiavitù delegando responsabilità e decisione. Il proletariato doveva solamente “rompere le proprie catene”. Però, quando i partiti comunisti hanno avuto a che fare con la gestione reale di qualche società, quella Totalità, quella Necessità, temporaneamente messe da parte, si ripresentavano come Necessità nella interpretazione indiscutibile e senza mediazioni che ne dava il Partito.
Dicevo prima che quella organizzazione adeguata alla necessità di guidare la ripresa del controllo della società sull’interezza dei rapporti economici non si può costruire. E’ una dichiarazione di pessimismo?
Credo che in questa domanda si faccia confusione fra l’ “Io” e il “Noi”. L’Io cioè il Partito che guida la rivoluzione, forse non si può costruire. Il “Noi” che la fa, forse sì.
La nostra società, qualunque siano i tentativi di Renzi, è e resterà estremamente partecipata. “Noi” siamo già presenti in migliaia di Comuni, in migliaia di società per azioni, in decine di migliaia di consigli di fabbrica o Rsu, in migliaia di assemblee locali delle associazioni professionali, in centinaia di assemblee delle banche cooperative, in migliaia di Consigli di Istituto, in centinaia di migliaia di consigli di classe, in... 20 milioni di famiglie.
L’idea che va diffusa presso 60 milioni di italiani è: Bene Comune. Dobbiamo cioè strappare il velo dell’ideologia liberale che ci spinge a dimenticare il bene comune a favore del nostro tornaconto personale. L’uomo è un animale politico. L’individualismo promosso dal capitalismo è una insopportabile riduzione dell’umano.
Certo, poi c’è la situazione storica concreta. Ci sono le elezioni e dovremo probabilmente scegliere il male minore, ci sono le lotte quotidiane, ci sono i tentativi comunque necessari di costruire comunità pensanti. C’è anche una situazione generale che non è affatto rosea, e che porterà probabilmente a esiti catastrofici contro i quali forse poco potremo fare. Quella che sto provando ad indicare è solo una direzione di fondo, una direzione di fondo che però potrebbe cominciare ad operare già nel presente.
Il liberalismo, se è valida la mia ipotesi di lettura, ha sempre interpretato la via di realizzazione dell’uomo come “emancipazione” (emancipazione vuol dire “rottura delle catene”), cioè come liberazione dai vincoli della totalità. Questo poteva essere comprensibile storicamente (la borghesia doveva liberarsi dal potere feudale e dalla Chiesa) ma ha generato ideologie dell’Irresponsabilità. Sono tali infatti il liberismo (cerco il mio utile, al resto ci pensa la mano Invisibile), il neo-liberismo (l’importante sono gli affari, i popoli possono fottersi), il keynesismo (l’importante è la spesa, poi si vedrà), ma anche il sindacalismo e, in parte, il comunismo.
Negli anni ’70 e ’80 chi ha fatto parte della sinistra consiliare si ricorderà che il leit-motiv era “ricostruire il blocco sociale antagonista”. Quella ricostruzione è impossibile. Sulla base della sola rivendicazione dei propri bisogni non si ricostruisce niente. Sulla base di “diritti e responsabilità” forse sì.
Cioè, non c’è nessuna legge per la quale la lotta di ciascuno per i propri bisogni si possa ricomporre magicamente in qualcosa di simile ad un Bene Comune. Immaginarlo significa far del misticismo. E’ la versione proletaria di Adam Smith. E’ una cattiva teologia.
D’altra parte anche il comunismo marxiano è stato forse, per certi versi, una ideologia dell’irresponsabilità.
Ha individuato efficacemente l’aspetto dello sfruttamento, ma ha messo in ombra che quello dello sfruttamento era il polo di un rapporto di produzione in cui si cede libertà in cambio di sicurezza, si concede schiavitù delegando responsabilità e decisione. Il proletariato doveva solamente “rompere le proprie catene”. Però, quando i partiti comunisti hanno avuto a che fare con la gestione reale di qualche società, quella Totalità, quella Necessità, temporaneamente messe da parte, si ripresentavano come Necessità nella interpretazione indiscutibile e senza mediazioni che ne dava il Partito.
Dicevo prima che quella organizzazione adeguata alla necessità di guidare la ripresa del controllo della società sull’interezza dei rapporti economici non si può costruire. E’ una dichiarazione di pessimismo?
Credo che in questa domanda si faccia confusione fra l’ “Io” e il “Noi”. L’Io cioè il Partito che guida la rivoluzione, forse non si può costruire. Il “Noi” che la fa, forse sì.
La nostra società, qualunque siano i tentativi di Renzi, è e resterà estremamente partecipata. “Noi” siamo già presenti in migliaia di Comuni, in migliaia di società per azioni, in decine di migliaia di consigli di fabbrica o Rsu, in migliaia di assemblee locali delle associazioni professionali, in centinaia di assemblee delle banche cooperative, in migliaia di Consigli di Istituto, in centinaia di migliaia di consigli di classe, in... 20 milioni di famiglie.
L’idea che va diffusa presso 60 milioni di italiani è: Bene Comune. Dobbiamo cioè strappare il velo dell’ideologia liberale che ci spinge a dimenticare il bene comune a favore del nostro tornaconto personale. L’uomo è un animale politico. L’individualismo promosso dal capitalismo è una insopportabile riduzione dell’umano.
Certo, poi c’è la situazione storica concreta. Ci sono le elezioni e dovremo probabilmente scegliere il male minore, ci sono le lotte quotidiane, ci sono i tentativi comunque necessari di costruire comunità pensanti. C’è anche una situazione generale che non è affatto rosea, e che porterà probabilmente a esiti catastrofici contro i quali forse poco potremo fare. Quella che sto provando ad indicare è solo una direzione di fondo, una direzione di fondo che però potrebbe cominciare ad operare già nel presente.
(fine)
7 commenti:
Bisogna partire da un "noi"...
Bisogna fondare quel "noi" sull'idea di bene comune...bene comune che si suppone sarà per "noi"...
Chiavacci mi spiega cortesemente come si fa a evitare di finire al "prima noi" della Lega?
Caro "Anonimo"
A parte che non ho i titoli per meritare il "Lei", e spero che non sia un titolo sufficiente l'età. Ma il Noi a cui ho fatto riferimento è quello che si forma dalla comprensione dell'interrelazione della nostra esistenza e delle nostre scelte con tutta la società circostante. Che io consideri (e la considero) la Lega un soggetto da non demonizzare non significa che essa sia in nessun modo interprete di un "Noi" da apprezzare.
A.C.
@A.C.
Grazie per la risposta.
Ho capito il punto ma rimane il problema di riuscire a veicolare delle rivendicazioni sulla base di questa "comprensione delle interrelazioni" e non solo di rivendicazioni particolaristiche di corto respiro. Non mi pare che ci si stia riuscendo.
Dici che gli intellettuali dovrebbero criticare il liberalismo.
Ma sono decenni che lo fanno e senza risultati.
Da una parte il motivo, secondo me, è che in realtà il liberalismo non esiste, siamo in un regime monopolistico o nei casi migliori oligopolistico, esistono divieti e regolamenti strettissimi da tutte le parti che favoriscono gli stessi che parlano in maniera del tutto surrettizia di liberismo.
Questo discorso - come si vede nei fatti - fa presa in maniera solo sentimentale sui lavoratori e spaventa i piccoli e medi imprenditori.
Dall'altra l'idea di una necessaria "comprensione delle interrelazioni" ossia il discorso delle esternalità sposta l'orizzonte del momento risolutivo in un futuro che ai cittadini appare banalmente utopistico.
Il problema è che qualsiasi proposta politica funziona solo se prima (e non dopo) esiste un "noi" quindi quando nascono degli ideali appassionati, quando si nomina un nemico immediatamente individuabile che ovviamente NON può essere una semplice teoria economica ma devono essere gruppi e persone precisi.
Il compito degli intellettuali è fondamentale specialmente se si parla di un'idea di sinistra e quindi non ci si può limitare alla "critica degli economisti".
Occorre stabilire dei rapporti diretti fra intellettuali e popolo, occorre cambiare linguaggio naturalmente senza semplificazioni che svuotano i contenuti.
Detto in parole povere bisogna elaborare un vero populismo di sinistra che parta da una condivisione della rabbia, della voglia di riscatto, delle stesse impellenti necessità materiali quotidiane del popolo a cui ci si rivolge, soprattutto dalla rivelazione dell'inganno del sistema (che può essere svelata solo dagli intellettuali).
Questo non lo stiamo facendo e ci limitiamo a far presente in maniera impersonale che "le cose non vanno".
Bisogna incazzarsi davvero perché solo così anche la gente si incazza e solo così nasce il "noi".
Caro...Lei
lei dice: " l'idea di una necessaria "comprensione delle interrelazioni" ossia il discorso delle esternalità sposta l'orizzonte del momento risolutivo in un futuro che ai cittadini appare banalmente utopistico."
Mi sembra che quello che dico sia veramente poco utopistico. Forse è più utopistico (anzi lo è) immaginarsi di creare un gruppo che, avendo una rofonda comprensione della realtà, possa guidare la trasformazione sociale. P101 è riuscita, per esempio, in alcuni anni, a riunire qualche centinaio di iscritti. Di dimensioni analoghe è il "Fronte sovranista" di D' Andrea. Invece quì proviamo a rivolgerci, fra gli altri, a qualche milione di individui che lavorano nella pubblica amministrazione (per chi lavora nel privato, mi rendo conto, l problema è più difficile), e che perciò hanno giurato (o avrebbero dovuto giurare) fedeltà al Bene Comune. Per questi 4 milioni di individui dire "Il vostro fine è il Bene Comune, e non la "domanda effettiva" di Keynes non è indifferente. Poi, se Lei invece fa riferimento alla creazione di una "idea di sinistra", allora le dico "Mi dispiace, abbiamo già dato" oppure" No, grazie, non pratico più". La sinistra è una corrente del liberalismo, e il fine di questo scritto è anche quella di demolirla.
A.C.
@A.C.
Per cortesia mi indichi un punto dove ti ho dato del lei nei miei due post? Ne basta uno.
No, "Chiavacci mi spiega" non era un "lei", era come dire "Il 'non compagno' Chiavacci mi spiega?".
Sulla pubblica amministrazione portatrice di istanze anti liberiste fondate sul bene comune non sai proprio di cosa parli.
Li conosco perfettamente dai bassi livelli fino ai vertici e due cosa non possono proprio fare: lottare in nome del bene comune e una opposizione al potere.
Ma capisco che uno che non abbia delle conoscenze dall'interno possa coltivare queste nobili speranze.
Sulla sinistra non mi interessa che ci sia la denominazione "sinistra", vorrei un movimento di popolo che però da solo evidentemente non riesce a nascere e che in fondo nessuno vuole davvero.
Restano i M5S e quindi voterò per loro ma voglio vedere cosa succederà quando la situazione diventerà realmente "difficile". Secondo me si splittano subito in moderati-acquiescenti e confusamente-antagonisti ma la "real thing" non la concepiscono nemmeno.
Stammi bene.
Non mi sembra importante il Lei o il Tu. Ho scritto "Caro Lei" perché non avevo un altro nome per chiamarla. Per il resto, visto il tono della sua lettera, penso che possiamo anche chiudere quì la discussione. Magari, visto che Lei dichiara conoscenza della P.A. "dai bassi livelli fino ai vertici", magari la prossima volta si firmi. La prossima, ora non importa
Saluti
A.C.
Amico mio, hai cominciato tu con la storia del lei e adesso, per dirla alla romana, ce vai in puzza rivolgendoti addirittura con la maiuscola.
Ma Noi non ci formalizziamo, non ti preoccupare.
Rilassati.
Chiudiamo pure ma non hai risposto nemmeno su un punto e questo resta scritto.
Ciao, lei.
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