[ 11 agosto ]
«Se l’ordoliberalismo poté conquistare la maggioranza dei tedeschi, poco prima in massima parte convinta della responsabilità del capitalismo nell’avvento del nazismo, fu anche grazie a una imponente campagna di marketing condotta tutta nel segno della Guerra fredda.
La democrazia economica venne infatti denigrata come variante dello stalinismo, mentre per l’ordoliberalismo, dottrina perfezionatasi durante il nazismo, si trovò un nuovo nome: economia sociale di mercato»
Il Trattato di Lisbona del 2007, nella parte in cui elenca i fondamenti dell’Unione europea, menziona una formula carica di ambiguità: economia sociale di mercato. Molti ritengono che sia un richiamo al capitalismo dal volto umano, quindi a un ordine economico incompatibile con lo sconcertante epilogo della crisi del debito greco. Non è così: quella formula ha una lunga storia, tutta tedesca e tutta in linea con quanto avviene ad Atene.
Come si sa, il nazismo esattamente come il fascismo affossarono la democrazia ma non anche il capitalismo: la prima venne anzi sacrificata sull’altare del secondo, fatto che alla conclusione del secondo conflitto mondiale era considerato pacifico dai più. Tanto che nello scontro sulla costituzione economica della rinata democrazia tedesca era nettamente prevalente l’opzione per la democrazia economica: la situazione in cui lo Stato disciplina il mercato per renderlo un luogo nel quale le persone possono emanciparsi, se del caso contro il principio di concorrenza.
Gli oppositori della democrazia economica, detti ordoliberali, ritenevano invece che un mercato retto dalla concorrenza consentisse la migliore distribuzione della ricchezza, e che a queste condizioni l’inclusione sociale coincidesse con l’inclusione nel mercato. Per questo lo Stato doveva limitarsi a imporre la concorrenza per legge, spoliticizzando il mercato e dunque azzerando le concentrazioni di potere: i cartelli tra imprese ma anche e soprattutto i sindacati dei lavoratori.
Gli ordoliberali, però, erano in minoranza: il loro credo era sponsorizzato solo dall’ala dei Cristianodemocratici vicina al mondo imprenditoriale, quella capeggiata da Konrad Adenauer. Peraltro anche gli Statunitensi, ansiosi di ancorare la Germania all’occidente capitalista, sostenevano l’opzione ordoliberale, che anche per questo finì per prevalere assieme al suo principale sponsor: Adenauer, che divenne Cancelliere nel 1949 e conservò la carica sino al 1963.
Se l’ordoliberalismo poté conquistare la maggioranza dei tedeschi, poco prima in massima parte convinta della responsabilità del capitalismo nell’avvento del nazismo, fu anche grazie a una imponente campagna di marketing condotta tutta nel segno della Guerra fredda.
La democrazia economica venne infatti denigrata come variante dello stalinismo, mentre per l’ordoliberalismo, dottrina perfezionatasi durante il nazismo, si trovò un nuovo nome: economia sociale di mercato.
È significativo che a trovarlo fu Alfred Müller-Armack, braccio destro di Adenauer, iscritto al Partito nazista dal 1933 al 1939. Altrettanto significativo è che il suo intento era proprio quello di ingannare i tedeschi: il riferimento al “sociale” significava per un verso che il mercato era un’istituzione sociale in quanto tale, e per un altro che le prestazioni sociali erano ammesse, tuttavia in assenza di diritti sociali e nella misura necessaria e sufficiente a produrre cooperazione tra capitale e lavoro.
Nel tempo l’economia sociale di mercato è divenuta il punto di riferimento, oltre che per i Cristianodemocratici, anche per i Socialdemocratici e i Verdi tedeschi. E recentemente è stata richiamata come fondamento per l’unificazione tedesca: nel Trattato sull’unione economica, monetaria e sociale tra le due Germanie, infatti, l’economia sociale di mercato viene richiamata come punto di riferimento per la Germania unita, e definita come ordine fondato su «proprietà privata, libera concorrenza, libera formazione dei prezzi e circolazione fondamentalmente libera di lavoro, capitali, beni e servizi». Tutto il contrario di un capitalismo dal volto umano, un capitalismo sociale fatto di inclusione piuttosto che di esclusione, e nulla di più vicino alla tragedia umana, che l’Europa a immagine e somiglianza della Germania ha provocato, e continua a provocare in Grecia.
Il dibattito sulle criticità presenti nell’ormai lontano Rapporto Delors del 1989, sull’integrazione economica e monetaria lungo il processo di adozione della moneta unica, appare come un lascito utile a chi scrive di storia su ciò che “avrebbe potuto essere e non è stato”. Ed oggi proprio il Rapporto Completing Europe’s Economic and Monetary Union[2], a cura di Juncker, Tusk, Dijsselbloem, Draghi, Schulz, a capo delle istituzioni europee, evidenzia come il connubio tra rigore fiscale, riforme strutturali e sostenibilità dell’euro sia l’agenda dell’Europa che abbiamo da qui al prossimo futuro.
Certo, l’evoluzione dell’Unione Europea non è stata un processo lineare all’insegna dell’ordoliberalismo. Ad una Europa costruita sull’idea cardine della supremazia del mercato e della concorrenza è stata affiancata una Europa delle regole sociali e delle grandi visioni di crescita, inclusione, piena occupazione, della Costituzione fondante un progetto che cercava di tenere assieme un numero sempre maggiore di Paesi su principi non solo economici, ma anche sociali e politici. La Costituzione europea non è però mai stata approvata, anzi è stata bocciata da singoli paesi, e si è ripiegati su Trattati ed Accordi, ad iniziare da quello di Maastricht del 1992 sulla moneta comune, l’Euro, per poi approdare a quello di Lisbona del 2007, l’accordo strategico[3]. L’Europa delle grandi visioni politiche è stata relegata al lunghissimo periodo, mentre le istituzioni europee procedevano con il progetto One money, one market del 1990 che ha rilanciato il tema dell’unione economica in un contesto di moneta unica ove il principio della concorrenza era il pilastro portante.
Non vi è dubbio che sono state sviluppate due visioni, antagoniste più che complementari: da un lato, quella che è rintracciabile ancora oggi in alcuni tratti dell’Agenda 2020, con le ambizioni di giustizia sociale[4], ambientale ed energetica, dei diritti sociali dei cittadini; dall’altro, quella dei Trattati e degli Accordi intergovernativi con i quali viene determinata la politica economica e finanziaria dell’Unione Europea, e nello specifico dell’Eurozona. Le due visioni non si sono confrontate molto, ma nei fatti la seconda ha nettamente prevalso sulla prima.
Questo progetto, One money, One market, invece di farci volare alto, ha costruito le basi per una Europa in gabbia, nella trappola dell’Euro. La convergenza economica che intendeva realizzare e con essa la spinta per una convergenza pure politica, ha prodotto crescente divergenza, ha favorito i paesi forti e relegato ai margini quelli deboli. Per tenere assieme gli uni agli altri, si è poi pensato bene di procedere a strappi con il metodo intergovernativo, l’opposto di quello costituzionale che prevedeva invece la centralità del Parlamento europeo. Il metodo intergovernativo ha ridotto ulteriormente la legittimità democratica delle decisioni, e dei quasi Trattati e Patti che ne son seguiti. Questi hanno istituzionalizzato un metodo di politica economica europea, con il quale le prescrizioni dell’austerità e delle riforme strutturali hanno caricato a fronte della crisi tutto il costo dell’aggiustamento sui paesi deboli, rafforzando i paesi forti, svalutando il lavoro e premiando il capitale finanziario.
L’Europa è oggi in una gabbia perché intrappolata dall’Euro per la cui sostenibilità si impongono cure a base di fanatismo ordoliberale. Il rifiuto di negoziare superando le politiche di austerità può essere interpretata come la prova che esiste un connubio quasi inscindibile tra la moneta unica e l’austerità fiscale; questo è ciò che peraltro è stato dichiarato dai sostenitori delle politiche tedesche più oltranziste. Qualora alle presenti condizioni si passasse da una unione monetaria ad una unione fiscale come viene auspicato da coloro che domandano oggi “più Europa” come soluzione della crisi dell’Eurozona, il rischio è che tutto ciò venga istituzionalizzato, con ulteriori cessioni di sovranità alle attuali istituzioni europee che risulteranno rafforzate senza peraltro un effettivo controllo democratico.
Se questo rischio apparisse fondato, allora l’epilogo che è stato scritto per la Grecia[5]dovrebbe indurre molti anche a sinistra a interrogarsi su quanto poco e come sia oggi difficilmente riformabile l’Europa della moneta unica o quanto addirittura sia preferibile una opzione Exit, se quella della Voice viene negata.
PS. Gli autori consigliano una lettura, pur consapevoli di peccare di autoreferenzialità: Alessandro Somma, La dittatura dello spread. Germania, Europa e crisi del debito, Derive Approdi, 2014 (23 Luglio 2015)
* Paolo Pini è professore di Economia Politica, Alessandro Somma è professore di Diritto Privato Comparato, entrambi all’Università di Ferrara.
** Fonte: Micromega
NOTE
[1] Gli autori ringraziano Annaflavia Bianchi e Roberto Romano per i commenti ad una prima versione del presente testo.
[2] Completing Europe’s Economic and Monetary Union, report by Jean-Claude Juncker in close cooperation with Donald Tusk, Jeroen Dijsselbloem, Mario Draghi, and Martin Schulz, European Commission, Bruxelles, 22 giugno 2015:http://ec.europa.eu/priorities/economic-monetary-union/index_en.htm
[3] Per una ricostruzione si veda Paolo Pini, “What Europe Needs to Be European”,Economia Politica, vol.30, n.1, pp.3-12, 2013.
[4] Che viene declinata spesso ed in modo riduttivo in termini di integrazione sociale e di prestazioni sociali. Temi quali reddito di cittadinanza rimarranno fuori dall’agenda, mentre è stata aperta la discussione su un sussidio di disoccupazione europeo come primo strumento per realizzare trasferimenti di reddito tra paesi.
[5] Si veda Paolo Pini su questa rivista “Quali prospettive per la Grecia e per l’Europa”:
http://temi.repubblica.it/micromega-online/quali-prospettive-per-la-grecia-e-per-l%E2%80%99europa/
e su Economia e Politica, “La Grecia si salverà? E l’Europa è riformabile?”:
http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/grecia-verso-una-lenta-agonia-ma-leuropa-e-ancora-riformabile/.
«Se l’ordoliberalismo poté conquistare la maggioranza dei tedeschi, poco prima in massima parte convinta della responsabilità del capitalismo nell’avvento del nazismo, fu anche grazie a una imponente campagna di marketing condotta tutta nel segno della Guerra fredda.
La democrazia economica venne infatti denigrata come variante dello stalinismo, mentre per l’ordoliberalismo, dottrina perfezionatasi durante il nazismo, si trovò un nuovo nome: economia sociale di mercato»
Il Trattato di Lisbona del 2007, nella parte in cui elenca i fondamenti dell’Unione europea, menziona una formula carica di ambiguità: economia sociale di mercato. Molti ritengono che sia un richiamo al capitalismo dal volto umano, quindi a un ordine economico incompatibile con lo sconcertante epilogo della crisi del debito greco. Non è così: quella formula ha una lunga storia, tutta tedesca e tutta in linea con quanto avviene ad Atene.
Come si sa, il nazismo esattamente come il fascismo affossarono la democrazia ma non anche il capitalismo: la prima venne anzi sacrificata sull’altare del secondo, fatto che alla conclusione del secondo conflitto mondiale era considerato pacifico dai più. Tanto che nello scontro sulla costituzione economica della rinata democrazia tedesca era nettamente prevalente l’opzione per la democrazia economica: la situazione in cui lo Stato disciplina il mercato per renderlo un luogo nel quale le persone possono emanciparsi, se del caso contro il principio di concorrenza.
Gli oppositori della democrazia economica, detti ordoliberali, ritenevano invece che un mercato retto dalla concorrenza consentisse la migliore distribuzione della ricchezza, e che a queste condizioni l’inclusione sociale coincidesse con l’inclusione nel mercato. Per questo lo Stato doveva limitarsi a imporre la concorrenza per legge, spoliticizzando il mercato e dunque azzerando le concentrazioni di potere: i cartelli tra imprese ma anche e soprattutto i sindacati dei lavoratori.
Gli ordoliberali, però, erano in minoranza: il loro credo era sponsorizzato solo dall’ala dei Cristianodemocratici vicina al mondo imprenditoriale, quella capeggiata da Konrad Adenauer. Peraltro anche gli Statunitensi, ansiosi di ancorare la Germania all’occidente capitalista, sostenevano l’opzione ordoliberale, che anche per questo finì per prevalere assieme al suo principale sponsor: Adenauer, che divenne Cancelliere nel 1949 e conservò la carica sino al 1963.
Se l’ordoliberalismo poté conquistare la maggioranza dei tedeschi, poco prima in massima parte convinta della responsabilità del capitalismo nell’avvento del nazismo, fu anche grazie a una imponente campagna di marketing condotta tutta nel segno della Guerra fredda.
La democrazia economica venne infatti denigrata come variante dello stalinismo, mentre per l’ordoliberalismo, dottrina perfezionatasi durante il nazismo, si trovò un nuovo nome: economia sociale di mercato.
È significativo che a trovarlo fu Alfred Müller-Armack, braccio destro di Adenauer, iscritto al Partito nazista dal 1933 al 1939. Altrettanto significativo è che il suo intento era proprio quello di ingannare i tedeschi: il riferimento al “sociale” significava per un verso che il mercato era un’istituzione sociale in quanto tale, e per un altro che le prestazioni sociali erano ammesse, tuttavia in assenza di diritti sociali e nella misura necessaria e sufficiente a produrre cooperazione tra capitale e lavoro.
Nel tempo l’economia sociale di mercato è divenuta il punto di riferimento, oltre che per i Cristianodemocratici, anche per i Socialdemocratici e i Verdi tedeschi. E recentemente è stata richiamata come fondamento per l’unificazione tedesca: nel Trattato sull’unione economica, monetaria e sociale tra le due Germanie, infatti, l’economia sociale di mercato viene richiamata come punto di riferimento per la Germania unita, e definita come ordine fondato su «proprietà privata, libera concorrenza, libera formazione dei prezzi e circolazione fondamentalmente libera di lavoro, capitali, beni e servizi». Tutto il contrario di un capitalismo dal volto umano, un capitalismo sociale fatto di inclusione piuttosto che di esclusione, e nulla di più vicino alla tragedia umana, che l’Europa a immagine e somiglianza della Germania ha provocato, e continua a provocare in Grecia.
Il dibattito sulle criticità presenti nell’ormai lontano Rapporto Delors del 1989, sull’integrazione economica e monetaria lungo il processo di adozione della moneta unica, appare come un lascito utile a chi scrive di storia su ciò che “avrebbe potuto essere e non è stato”. Ed oggi proprio il Rapporto Completing Europe’s Economic and Monetary Union[2], a cura di Juncker, Tusk, Dijsselbloem, Draghi, Schulz, a capo delle istituzioni europee, evidenzia come il connubio tra rigore fiscale, riforme strutturali e sostenibilità dell’euro sia l’agenda dell’Europa che abbiamo da qui al prossimo futuro.
Certo, l’evoluzione dell’Unione Europea non è stata un processo lineare all’insegna dell’ordoliberalismo. Ad una Europa costruita sull’idea cardine della supremazia del mercato e della concorrenza è stata affiancata una Europa delle regole sociali e delle grandi visioni di crescita, inclusione, piena occupazione, della Costituzione fondante un progetto che cercava di tenere assieme un numero sempre maggiore di Paesi su principi non solo economici, ma anche sociali e politici. La Costituzione europea non è però mai stata approvata, anzi è stata bocciata da singoli paesi, e si è ripiegati su Trattati ed Accordi, ad iniziare da quello di Maastricht del 1992 sulla moneta comune, l’Euro, per poi approdare a quello di Lisbona del 2007, l’accordo strategico[3]. L’Europa delle grandi visioni politiche è stata relegata al lunghissimo periodo, mentre le istituzioni europee procedevano con il progetto One money, one market del 1990 che ha rilanciato il tema dell’unione economica in un contesto di moneta unica ove il principio della concorrenza era il pilastro portante.
Non vi è dubbio che sono state sviluppate due visioni, antagoniste più che complementari: da un lato, quella che è rintracciabile ancora oggi in alcuni tratti dell’Agenda 2020, con le ambizioni di giustizia sociale[4], ambientale ed energetica, dei diritti sociali dei cittadini; dall’altro, quella dei Trattati e degli Accordi intergovernativi con i quali viene determinata la politica economica e finanziaria dell’Unione Europea, e nello specifico dell’Eurozona. Le due visioni non si sono confrontate molto, ma nei fatti la seconda ha nettamente prevalso sulla prima.
Questo progetto, One money, One market, invece di farci volare alto, ha costruito le basi per una Europa in gabbia, nella trappola dell’Euro. La convergenza economica che intendeva realizzare e con essa la spinta per una convergenza pure politica, ha prodotto crescente divergenza, ha favorito i paesi forti e relegato ai margini quelli deboli. Per tenere assieme gli uni agli altri, si è poi pensato bene di procedere a strappi con il metodo intergovernativo, l’opposto di quello costituzionale che prevedeva invece la centralità del Parlamento europeo. Il metodo intergovernativo ha ridotto ulteriormente la legittimità democratica delle decisioni, e dei quasi Trattati e Patti che ne son seguiti. Questi hanno istituzionalizzato un metodo di politica economica europea, con il quale le prescrizioni dell’austerità e delle riforme strutturali hanno caricato a fronte della crisi tutto il costo dell’aggiustamento sui paesi deboli, rafforzando i paesi forti, svalutando il lavoro e premiando il capitale finanziario.
L’Europa è oggi in una gabbia perché intrappolata dall’Euro per la cui sostenibilità si impongono cure a base di fanatismo ordoliberale. Il rifiuto di negoziare superando le politiche di austerità può essere interpretata come la prova che esiste un connubio quasi inscindibile tra la moneta unica e l’austerità fiscale; questo è ciò che peraltro è stato dichiarato dai sostenitori delle politiche tedesche più oltranziste. Qualora alle presenti condizioni si passasse da una unione monetaria ad una unione fiscale come viene auspicato da coloro che domandano oggi “più Europa” come soluzione della crisi dell’Eurozona, il rischio è che tutto ciò venga istituzionalizzato, con ulteriori cessioni di sovranità alle attuali istituzioni europee che risulteranno rafforzate senza peraltro un effettivo controllo democratico.
Se questo rischio apparisse fondato, allora l’epilogo che è stato scritto per la Grecia[5]dovrebbe indurre molti anche a sinistra a interrogarsi su quanto poco e come sia oggi difficilmente riformabile l’Europa della moneta unica o quanto addirittura sia preferibile una opzione Exit, se quella della Voice viene negata.
PS. Gli autori consigliano una lettura, pur consapevoli di peccare di autoreferenzialità: Alessandro Somma, La dittatura dello spread. Germania, Europa e crisi del debito, Derive Approdi, 2014 (23 Luglio 2015)
* Paolo Pini è professore di Economia Politica, Alessandro Somma è professore di Diritto Privato Comparato, entrambi all’Università di Ferrara.
** Fonte: Micromega
NOTE
[1] Gli autori ringraziano Annaflavia Bianchi e Roberto Romano per i commenti ad una prima versione del presente testo.
[2] Completing Europe’s Economic and Monetary Union, report by Jean-Claude Juncker in close cooperation with Donald Tusk, Jeroen Dijsselbloem, Mario Draghi, and Martin Schulz, European Commission, Bruxelles, 22 giugno 2015:http://ec.europa.eu/priorities/economic-monetary-union/index_en.htm
[3] Per una ricostruzione si veda Paolo Pini, “What Europe Needs to Be European”,Economia Politica, vol.30, n.1, pp.3-12, 2013.
[4] Che viene declinata spesso ed in modo riduttivo in termini di integrazione sociale e di prestazioni sociali. Temi quali reddito di cittadinanza rimarranno fuori dall’agenda, mentre è stata aperta la discussione su un sussidio di disoccupazione europeo come primo strumento per realizzare trasferimenti di reddito tra paesi.
[5] Si veda Paolo Pini su questa rivista “Quali prospettive per la Grecia e per l’Europa”:
http://temi.repubblica.it/micromega-online/quali-prospettive-per-la-grecia-e-per-l%E2%80%99europa/
e su Economia e Politica, “La Grecia si salverà? E l’Europa è riformabile?”:
http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/grecia-verso-una-lenta-agonia-ma-leuropa-e-ancora-riformabile/.
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