giovedì 27 agosto 2015

LA VIA MAESTRA (Manifesto del Movimento Popolare di Liberazione)

[ 27 agosto ]

"Occorre un fronte ampio in vista del governo popolare d'emergenza"

Il Movimento Popolare di Liberazione  nacque nel marzo 2012. Nel novembre era stato defenestrato Berlusconi per lasciare posto al governo Monti. Il nostro paese precipitava in un regime di protettorato euro-tedesco de facto, ovvero in uno strisciante "stato d'eccezione". L'assemblea costitutiva adottò questo Manifesto.


PER EVITARE LA CATASTROFE SOCIALE
LA VIA MAESTRA E' IL SOCIALISMO
      

Il capitalismo è come una trottola, può tenersi in equilibrio solo se gira vorticosamente attorno al proprio asse. Per ruotare ha bisogno di due fattori: una spinta che gli imprima movimento e una superficie perfettamente piana. Se viene a mancare anche solo uno di questi due fattori essa smette di ruotare, si accascia al suolo e si arresta.
La trottola del capitalismo occidentale sta schiantando perché la sua forza di spinta è venuta a mancare proprio mentre avrebbe dovuto accrescere a causa della superficie diventata accidentata, essendo la spinta il profitto e la superficie il mercato mondiale.




Il gioco vale la candela?

La forza motrice che muove lo sviluppo capitalistico non è il bene comune ma il profitto, il bene privato di chi detiene il capitale. Quando non può accrescere il profitto il capitale arresta la sua corsa, smette di investire, blocca la produzione, smantella impianti e dunque licenzia, crea disoccupazione, getta nella miseria anzitutto chi non ha altre risorse se non quella di vendere al miglior offerente la propria capacità lavorativa.
Queste recessioni cicliche, connaturate al capitalismo, vengono chiamate “crisi”. Ogni fase di espansione è seguita da una inevitabile contrazione. Alcune di queste crisi sono però più profonde, sono sistemiche, investono la gran parte dei settori economici e possono sfociare in depressioni di lungo periodo. Le conseguenze sociali e geopolitiche possono essere devastanti: pauperismo di massa, inasprimento dei conflitti sociali, caduta di governi e regimi, guerra aperta tra gli stati.
Con simili sconquassi vanno al tappeto i due dogmi che sorreggono l’ideologia dominante: quello per cui il capitale, facendo i propri interessi, realizza quelli di tutti, e quello per cui il “libero” mercato è il luogo che meglio assicura e distribuisce il benessere. La società è quindi costretta, quando il capitalismo mette in luce i suoi limiti congeniti, a considerare il rapporto tra i costi e i benefici del sistema, e ove decidesse che il gioco non vale la candela, a cercare una via d’uscita e a sperimentare nuovi modelli sociali e di vita.

Il boomerang

Di portata epocale fu la crisi che il capitalismo occidentale conobbe negli anni ’70 del secolo scorso. La tenace resistenza proletaria all’interno, l’avanzata delle lotte di liberazione dei popoli oppressi e l’esistenza del “blocco socialista” non consentirono al capitalismo di ricorrere alle vecchie terapie. La risposta alla crisi fu la globalizzazione.
All’interno: smantellamento delle protezioni sociali, privatizzazioni delle aziende e dei servizi pubblici, frantumazione delle grandi roccaforti industriali, precarizzazione del lavoro, agevolazione dei flussi migratori, lento abbassamento dei salari e dei redditi, boom del credito per sorreggere il consumismo di massa.
All’esterno, in classico stile coloniale, rapina sistematica delle risorse dei paesi poveri (non solo di materie prime, appunto, ma pure di forza-lavoro, manuale e intellettuale) e, grazie al ruolo guida imperiale degli Stati Uniti, aggressioni, guerre e pressioni di ogni tipo per soggiogare interi paesi e spazzare via i regimi considerati ostili. L’imperialismo, al prezzo di prosciugare le sue casse, ha vinto la “guerra fredda” e rovesciato regimi nazionali considerati “canaglia”, ma ciò ha prodotto nuovi esplosivi squilibri regionali e mondiali.
Il tutto nel quadro di una deregolamentazione sistematica dei mercati, dell’abbattimento di ogni barriera ai movimenti di capitale, della competizione selvaggia tra multinazionali e aziende, paesi e aree economiche. Questa globalizzazione dei mercati, che le potenze occidentali hanno tenacemente perseguito fino a spazzare via ogni ostacolo, si è rivelato un boomerang. L’ampia superficie piana per far girare la trottola si è trasformata in un terreno minato.

Il fallimento

La globalizzazione ha infatti prodotto alcuni effetti macroscopici.
Essa ha fatto emergere nuove potenze economiche, Cina in primis, che sfidano oramai apertamente quella supremazia che l'occidente - nel disperato tentativo di evitare un inesorabile declino - cerca di difendere in ogni modo, anche a rischio di nuove gravissime tensioni geopolitiche.
Al contempo la globalizzazione ha sprofondato nella recessione una serie di paesi poveri privi di materie prime, portando centinaia di milioni di persone alla fame, di qui grandi rivolte sociali, come quelle che hanno portato alla caduta di regimi totalitari nei paesi arabi.
Ma una delle conseguenze è che anche l’Occidente si è impoverito. I capitali occidentali, privi di freni, sono fuggiti via per fare razzie nei nuovi territori di caccia. In virtù dei bassi salari, dei regimi neoschiavistici di sfruttamento e repressione, dei sistemi fiscali di vantaggio dei paesi presi di mira, le imprese occidentali hanno accumulato enormi guadagni.
Questi tornavano sì in Occidente ma per finire nella grande bisca del capitalismo casinò, per essere gettati nel gioco d’azzardo di una speculazione finanziaria fondata sul debito. Somme colossali venivano offerte in prestito ai cittadini per sorreggere domanda interna e consumi in calo a causa della caduta del potere d’acquisto dei salari, e agli stati per puntellare i loro bilanci falcidiati da scellerate politiche privatizzatrici. In questo tritacarne sono quindi finiti gli Stati e le banche centrali. I primi accettando di gettare i debiti sovrani nei mercati finanziari internazionali, le seconde o stampando a tutto spiano carta moneta per sorreggere banche fallite o in procinto di fallire. Questo sollazzo non poteva durare all’infinito: moneta, obbligazioni e titoli per quanto simboli astratti sono pur sempre espressione di valori reali, sempre tenendo conto che il lavoro e la natura sono le due sole fonti da cui sgorga la ricchezza di una società.

Mutamenti epocali

La finanziarizzazione liberista dell’economia ha agito come una droga. Per sopravvivere il capitale aveva bisogno di dosi sempre più massicce di liquidità, acquistando dalle banche centrali denaro a basso costo per poi lucrare rivendendolo a tassi usurai. Ma nella bisca, il gioco è sempre a somma zero: a fronte di chi vince, c’è sempre qualcun altro che perde. Chi ci ha rimesso le penne è stato anzitutto il lavoro salariato, che in tre decenni si è visto scippato di buona parte delle sue conquiste ed ha subito una drastica riduzione della quota di reddito sociale a sua disposizione; scippo compensato dall’elargizione di crediti che hanno trasformato buona parte dei lavoratori in debitori permanentemente sotto ricatto.
La globalizzazione ha quindi indotto profonde trasformazioni nel corpo stesso delle società occidentali, sia in alto che in basso.
In alto: la rendita, ovvero il capitale finanziario speculativo (denaro che si accresce senza passare per il ciclo produttivo di merci) ha preso il sopravvento su quello industriale; e in esso il vero dominus è diventato il settore bancario predatorio (banche d’affari); in seno alla classe capitalista sono diventati prevalenti i ceti parassitari che vivono di rendita; gli stati nazionali sono stati privati della loro sovranità politica; parlamenti e governi, espropriati delle loro prerogative, sono diventati passacarte; i partiti si sono trasformati in meri comitati d’affari, selettori dei funzionari al servizio dell’oligarchia.
In basso i mutamenti non sono stati meno profondi. Il dato fondamentale è che al crollo del lavoro produttivo è corrisposta la crescita di quello improduttivo o direttamente parassitario. Il processo di deindustrializzazione e di smantellamento dei settori statali ha causato un vero e proprio sfaldamento del tessuto sociale. Scomparsi o quasi i grandi poli industriali, gran parte del lavoro è stato appaltato a piccole e medie aziende, dove i salari sono più bassi ed è molto più difficile per i lavoratori tutelare i propri interessi. Allo smembramento della vecchia classe operaia industriale è corrisposta la crescita dei settori impiegatizi, di mestieri del tutto nuovi, di lavori socialmente necessari ma spesso improduttivi. Il posto fisso ormai è stato in gran parte rimpiazzato dal lavoro precario e flessibile. Le conseguenze sono state devastanti: un disgregazione sociale senza precedenti causa prima dell’implosione dei tradizionali vincoli comunitari e dei tessuti aggregativi, e il sopravvento di un’ideologia individualistica pervasiva, refrattaria ad ogni istanza solidale e collettiva.

La crisi italiana

Nella crisi globale dell’Occidente imperialistico c’è la specifica crisi dell’Unione europea e dentro quest’ultima la crisi italiana. Essa si presenta come un processo che vede coinvolti simultaneamente l’economia, le istituzioni repubblicane, la società civile. All’evidente incapacità della classe dominante di governare il paese (il cui sfascio è emblematico), fa da contraltare la totale inadeguatezza delle classi subalterne a conformare un’alternativa. L’ingresso nell’Unione europea e l’adozione dell’euro, che le classi dominanti avevano pervicacemente perorato come la maniera per porre fine alle strutturali distorsioni italiane, si sono rivelati invece un fiasco totale. La sostanziale cessione di sovranità, monetaria, politica e istituzionale —accettata fideisticamente dalla classe dirigente italiana ma non da quelle tedesche e francesi, né tanto meno dai paesi che come il Regno Unito hanno rifiutato di accettare l’euro— ha finito per aggravare tutti gli squilibri, all’esterno come all'interno.
In questo contesto, l’inevitabile crollo dell’Unione e dell’euro rischiano di essere un evento catastrofico, le cui conseguenze più pesanti verranno fatte pagare al popolo lavoratore, privato oramai di ogni autodifesa.
L’alternativa secca è tra il subire questa catastrofe sociale —che non è un singolo evento fatidico, ma un processo già in atto— o sollevarsi per un vero e proprio cambio di sistema. Se questo rivolgimento non ci sarà presto, il paese sarà ridotto in macerie, col rischio che la miseria generale possa causare un devastante conflitto tra poveri ed infine lasciare spazio ad avventure populiste e reazionarie, animate da una borghesia che tiene sempre in serbo primigenie pulsioni reazionarie, senza nemmeno escludere l’eventualità di uno sgretolamento dello Stato-nazione. Conflitti aspri saranno inevitabili, così come una polarizzazione di forze contrapposte.
Di sicuro la crisi sprigionerà grandi energie sociali, energie che questo sistema politico marcio sarà incapace di ammansire e rappresentare. Queste forze sono la sola leva su cui si possa fare affidamento per cambiare radicalmente questo paese. Vanno quindi alimentate, aiutate ad emergere. Bisogna dare loro una consistenza politica, uno sbocco, una prospettiva. Per farlo non è sufficiente affermare dei no, occorre anche indicare quale possa essere l’alternativa, il nuovo modello sociale.
Questo è esattamente il compito che ci proponiamo come Movimento Popolare di Liberazione (MPL). Esso non consiste anzitutto nell’accendere fuochi di conflitto sociale, poiché essi già esistono come risultato di una resistenza diffusa che scaturisce da condizioni oggettive. Il compito nostro è quello di risvegliare le coscienze sopite, di chiamare a raccolta le migliori intelligenze, di raggruppare e dunque di far scendere in campo centinaia e migliaia di cittadini che di fronte alla miseria sociale e politica generale, sono decisi a prendersi ognuno la propria responsabilità, fino a quella di battersi per rovesciare lo stato di cose esistenti.

Fronte ampio e governo popolare 

Parallelamente alla fondazione di una nuova forza politica, il MPL, noi ci battiamo per unire tutte le forze che avvertono la minaccia incombente e che non solo si limitano ad opporre dei no, ma che vogliono sfidare le classi dominanti avanzando soluzioni efficaci e realistiche per portare il paese fuori dal marasma. Si tratta quindi di attivare un Fronte ampio che sappia candidarsi alla guida del paese per dar vita a un governo popolare di emergenza. Tanti sono i problemi, numerose le trasformazioni sociali necessarie, ma esse fanno capo a poche misure sostanziali.

- Abbandonare l’euro per riprenderci la sovranità monetaria.L’euro ci fu presentato come una panacea per curare i mali strutturali dell’economia italiana (tra cui l’alto debito pubblico e una competitività fondata solo sui bassi salari) e risolvere gli squilibri tra gli Stati comunitari. A dieci anni di distanza non solo il debito pubblico è aumentato, ma l’economia è in stagnazione e la competitività è diminuita. Le politiche antipopolari di austerità perseguite da tutti i governi, presentate come necessarie per restare nell’Unione e difendere l’euro si sono dimostrate del tutto inutili, se non nel fare dell’Italia un paese più povero. L’euro e i principi di Maastricht hanno accresciuto gli squilibri in seno all’Unione europea, determinando uno spostamento di risorse dall’Italia verso i paesi più “virtuosi”, la Germania anzitutto, che non hai mai messo i suoi propri interessi nazionali dietro a quelli comunitari.
La ricchezza di un paese non dipende certo dalla moneta, ma dal lavoro che la crea, e poi da come essa viene distribuita. La moneta è tuttavia una leva per agire sul ciclo economico, un mezzo per decidere come viene distribuita la ricchezza sociale. Un paese che non disponga della sovranità monetaria, tanto più se alle prese con la speculazione finanziaria globalizzata, è come una città assediata priva di mura di cinta. Occorre ritornare alla lira, ponendo la Banca d’Italia sotto stretto controllo pubblico, affinché l’emissione di moneta sia funzionale all’economia e al benessere collettivo e non alle speculazioni dei biscazzieri dell’alta finanza.

-Nazionalizzare il sistema bancario e i gruppi industriali strategici.Agli inizi degli anni ’80 venne permesso alle banche italiane, in ossequio ai dettami neoliberisti, di diventare banche d’affari, di utilizzare i risparmi dei cittadini per investirli e scommetterli nella bisca del capitalismo-casinò. Prese avvio una politica di privatizzazione delle banche e di concentrazione, che ha coinvolto anche gli enti assicurativi, gettatisi voraci sul malloppo dei fondi pensione. Banche e assicurazioni sono oggi le casseforti che custodiscono gran parte della ricchezza nazionale. Esse debbono essere nazionalizzate, affinché questa ricchezza, invece di partecipare al gioco d’azzardo finanziario, sia utilizzata per il bene del paese. Debbono poi ritornare in mano pubblica le aziende di rilevanza strategica, sottraendole agli artigli dei mercati finanziari e borsistici come dalla logica perversa del profitto d’impresa.
Contestualmente andrà rafforzata la gestione pubblica dei beni comuni come l’ambiente, l’acqua, l’energia, l’istruzione, la salute.

- Per una moratoria sul debito pubblico e la cancellazione di quello esteroIl debito pubblico accumulato dallo Stato è usato da un decennio come la Spada di Damocle per tagliare le spese sociali, giustificare le misure d’austerità ed una tra le più alte imposizioni fiscali del mondo. Esso è diventato fattore distruttivo da quando, agli inizi degli anni ’90, i governi hanno immesso i titoli di debito nella giostra delle borse e dei mercati finanziari internazionali. Da allora i creditori divennero i fondi speculativi, le grandi banche d’affari estere e italiane. Il debito pubblico, gravato di interessi crescenti, non è niente altro che un drenaggio di risorse dall’Italia verso la finanza speculativa, banche italiane comprese.
Per questo riteniamo ingiusto, antipopolare e suicida per il futuro del paese fare del pagamento del debito un dogma. La rinascita dell’Italia richiede la protezione dell’economia nazionale dal saccheggio dei predoni della finanza imperialista. Ciò implica impedire ogni fuga di capitali verso l’estero, incluso il pagamento del debito estero perché esso non è altro che una forma di espatrio legalizzato, di rapina autoinflitta. Non rimborsare gli strozzini della finanza globale non è una opzione, ma una necessità.
Non solo è ingiusto, ma in base al rapporto costi/benefici è economicamente irrazionale tentare di rispettare la clausola del Trattato di Maastricht che impone un rapporto debito/Pil non superiore al 60%. Ciò implica ripetere per ben 25 anni, e non è detto che sia sufficiente a causa della depressione economica, manovre d’austerità da 30 miliardi all’anno.
Sbaglia dunque chi si fa spaventare dagli strozzini che evocano lo spauracchio del “default”. Il male minore per l’Italia è un default programmato e pianificato, una moratoria e dunque una rinegoziazione del debito, che i creditori dovranno accettare, pena il ripudio vero e proprio. Per quanto riguarda il debito con le banche e le assicurazioni italiane, dal momento che saranno nazionalizzate, esso sarà de facto cancellato. Il solo debito pubblico che lo Stato rimborserà, a tassi e scadenze compatibili con le esigenze della rinascita economica e sociale del paese, sarà quello posseduto dalle famiglie italiane.

- Debellare la disoccupazione con un piano nazionale per il lavoroLa natura e il lavoro sono le sole fonti da cui sgorgano il benessere e la ricchezza sociale. Proteggere l’ambiente e assicurare a tutti i cittadini un lavoro sono le due priorità di un governo popolare. Ciò implica che esso, liberatosi dal feticcio della cosiddetta “crescita economica” misurata in Pil, dovrà sottomettere l’economia, pubblica e privata, alla politica, ovvero ad una visione coerente della società, in cui al centro ci siano l’uomo e la sua qualità della vita. Non si vive per lavorare ma si deve lavorare per vivere. Si produrrà il giusto per consumare il necessario. Solo così si potrà uscire dalla trappola produzione-consumo per affermare un nuovo paradigma produzione-benessere.

- Uscire dalla NATO e dall’Unione europea, scegliere la neutralità.Attraverso la NATO l’Italia è incatenata ad un patto strategico che oltre a farla vassalla dell’Impero americano, la obbliga a seguire una politica estera aggressiva, neocolonialista e guerrafondaia. Uscire dalla NATO e chiudere le basi e i centri strategici militari americani in Italia è necessario per riacquisire la piena sovranità nazionale, scegliere una posizione di neutralità attiva e una politica di pace. L’uscita dall’Unione europea, inevitabile se si ripudiano, come occorre fare, i Trattati di Maastricht e di Lisbona, non vuol dire chiudere l’Italia in un guscio autarchico, al contrario, vuol dire puntare a diversi orizzonti geopolitici, aprendosi alla cooperazione più stretta con l’area Mediterranea, stringendo rapporti di collaborazione con l’America latina, l’Africa e l’Asia.

- Rafforzare la Costituzione repubblicana per un’effettiva sovranità popolareLa cosiddetta “Seconda repubblica” si è fatta avanti calpestando i dettami della carta costituzionale. L’abolizione delle legge elettorale proporzionale, il bipolarismo coatto, i poteri crescenti dell’Esecutivo, la trasformazione del Parlamento in un parlatoio per replicanti spesso corrotti, erano misure necessarie per assecondare i torbidi affari di banchieri e pescecani del grande capitale, nonché per sottomettere il paese e la politica ai diktat e agli interessi della finanza globale. La Costituzione va difesa contro i suoi rottamatori, se necessario dando vita ad una Assemblea costituente incaricata di rafforzarne i dispositivi democratici a tutela della piena ed effettiva sovranità popolare.

Sovranità nazionale e socialismo

Non vediamo oggi, in seno alle classi dominanti italiane componenti disposte a battersi sul serio per uscire dall’Unione europea, sganciare l’Italia dalla morsa della globalizzazione liberista per ricollocarla dentro nuovi scenari geopolitici. Ove domani si manifestassero il popolo lavoratore non dovrebbe esitare a costituire un’alleanza comune.
Compito pressante dell’oggi è costruire un fronte ampio del popolo lavoratore, un'alleanza solida tra il proletariato e parti consistenti delle classi medie. Dentro questa alleanza il proletariato non dovrà stare a rimorchio ma agire da forza motrice. E per questo serve un soggetto politico rivoluzionario, che aiuti la classe degli sfruttati a diventare classe dirigente nazionale. Solo un fronte popolare con al centro i lavoratori può avere la forza e la determinazione per un cambio di sistema capace di portare l’Italia fuori dal marasma.
 

E' da questo contesto che discendono i compiti, le funzioni e il profilo del Movimento Popolare di Liberazione.

Ma essi dipendono anche dalla nostre finalità, dai nostri scopi ultimi.
Vi è ancora chi considera l’uscita dall’Unione europea e l’abbandono dell’euro come idee velleitarie ed estremistiche. E’ vero esattamente il contrario. Il disfacimento dell’Unione europea e la fine dell’euro sono processi oggettivi, oramai irreversibili. Velleitari sono coloro che si illudono di fermare queste tendenze facendo gli esorcismi, mettendo toppe che sono peggiori del buco. Estremisti psicotici sono gli oligarchi di Francoforte e Bruxelles, disposti a dissanguare intere nazioni pur di tenere in vita una moneta moribonda e ingrassare la rendita parassitaria. Il problema non è se abbandonare l’euro o meno, il problema è chi guiderà questo processo. Se al potere resteranno i servi politici del capitalismo finanziario ne faranno pagare le salate conseguenze alle masse lavoratrici. Se sarà un governo popolare a pilotare l’uscita, i sacrifici, certo inevitabili, saranno anzitutto addossati ai parassiti, e i frutti di questi sacrifici saranno utilizzati per il bene comune della maggioranza e la rinascita del paese.
E’ in questo quadro che il MPL considera la riconquista della sovranità nazionale una stella polare. Senza sovranità nazionale non c’è quella popolare, non c’è democrazia. Solo riconquistando questa sovranità politica, economica e monetaria il paese può risorgere su nuove basi, sganciandosi dalla soffocante morsa dei mercati finanziari internazionali per proiettarsi verso altri orizzonti regionali e mondiali. Se Un’Europa dei popoli vedrà un giorno luce essa nascerà sulle macerie di quella di Maastricht.
Siccome è sotto gli occhi di tutti che non siamo alle prese con una recessione ciclica ma con una crisi storico-sistemica di un modello di produzione e di vita, dovere di chi guarda al futuro è immaginare un’alternativa di società e agire per realizzarla. Sarebbe assurdo fare grandi sacrifici per poi ritrovarci alle prese con una società esposta a crisi cicliche devastanti, incapace di assicurare un reale benessere collettivo, generatrice di diseguaglianze e squilibri, lacerata dai conflitti sociali.

Il MPL scende in campo per contrastare questa crisi e soprattutto per uscire dal sistema neoliberista globalizzato che ha fatto del capitalismo un dogma. Per liberare il paese dalla corruzione, dalle ingiustizie, dalla dittatura delle banche e della finanza internazionale. Per liberarci dalla dittatura del mercato. Scende in campo per non accettare supinamente la distruzione sistematica della natura, della nostra vita e del futuro delle nuove generazioni; per affermare che l'alternativa è una società socialista che metta l'economia al servizio della collettività e della difesa di tutti i beni comuni.
Sappiamo che questo approdo è ancora lontano, che occorrono tempi lunghi affinché lavoratori e cittadini possano riuscire a prendere in mano i loro destini. Solo allora la società sarà matura per fare a meno del mercato, per togliere ai mezzi di produzione e di scambio la loro forma capitalistica e ai beni la loro forma di merce.
Fino ad allora coesisteranno forme diverse di proprietà, quelle capitalistiche e quelle statali, quelle pubbliche e quelle autogestite. Fermo restando che il governo popolare dovrà aiutare il nuovo a crescere e il vecchio a perire.

L’alternativa di oggi è lottare o soccombere. Quella di domani sarà la liberazione o il ritorno a forme più brutali di oppressione.

Chianciano Terme
Marzo 2012

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