15 aprile. Siamo dentro una crisi epocale, che
segna il passaggio ad un ordine sociale nuovo. Se esso sarà più avanzato
o regressivo rispetto a quello attuale dipenderà da diversi fattori,
anzitutto dall'esito della lotta tra le forze reazionarie e quelle
rivoluzionarie. Questa lotta, che domani si deciderà sul terreno
pratico, oggi avviene su quello delle idee. Qui ci occupiamo della
teoria dello Stato. La prossima parte del concetto di Libertà. La terza
parte di quello di Sovranità. La quarta di quello di Democrazia.
Dalla critica dello Stato di diritto post-moderno alla ricostruzione di una teoria socialista del Diritto e dello Stato. (Prima parte)
Dalla critica dello Stato di diritto post-moderno alla ricostruzione di una teoria socialista del Diritto e dello Stato. (Prima parte)
di Moreno Pasquinelli*
Lo Stato e della Res Publica
«Non
condividiamo, poiché semplicistica, la tesi della vulgata marxista secondo cui lo Stato sorge solo ove
la comunità si sia divisa in classi ostili e antagoniste, e che esso sia dunque
soltanto o anzitutto un apparato coercitivo armato posto a difesa della classe
dominante.
Dove c’è comunità, insieme di uomini associati, anche liberi ed
eguali, anche quand’essa fosse armonicamente autogovernata, li avremo
quantomeno statualità (Polis o Res Publica), poiché non esiste comunità qualsivoglia senza ordine,
amministrazione, norme giuridiche, strumenti atti a tutelarle e finalità
politiche.
Il non-Stato è l’anarchia,
e non vogliamo dar credito all’idea errata che quest’ultima sia l’equivalente o
il sinonimo di comunismo. L’anarchismo presuppone infatti l’uomo come essere perfettibile, il suo
carattere divino, cosi che la società non deve normare e indirizzare le sue
congenite facoltà, deve soltanto lasciare che si dispieghino liberamente e
senza freni. L’anarchismo è una robinsonata,
un liberale benthamismo estremistico.
In realtà l’uomo come mero individuo non può essere posto al centro di nulla.
La comunità, pur riconoscendo le istanze singolari e individualistiche di cui
esso è portatore, non può poggiare su di esse, bensì su quelle di tutti, ciò
che implica la mediazione della politica.
L’autogoverno non è se non la forma
più alta di ordine sociale. Se lo Stato è solo una delle forme possibili della Res Publica, una forma coercitiva,
storicamente determinata, il comunismo come regno
della libertà, non è se non una Res
Publica nella sua forma più organica, una auto-statualità della comunità.
Marx aveva
ragione affermando che la fisiologia dell’uomo ci consente di capire quella
della scimmia. Se è così dobbiamo respingere la metodologia hegeliana, ripresa
tale e quale da Engels, che parte
sempre metafisicamente dall’analisi dell’elemento originario e primordiale per
spiegare, sul filo di una catena progressiva di eventi causali, quello
conclusivo. Dobbiamo invece partire dallo Stato
capitalistico postmoderno (così abbiamo scelto di chiamare sistema politico
imperialistico occidentale e la cui anatomia è decisamente più complicata di
quella presente a Marx), che è la forma più complessa e sofisticata sin qui
esistita, qualcosa di molto più ampio e articolato che una pura e semplice
“banda armata”.
Il suo
carattere di apparato coercitivo a disposizione della classe dominante si manifesta solo in ultima istanza,
contestualmente ad un insieme di funzioni
che esulano il crudo esercizio della forza. Queste funzioni debbono concorrere tutte alla conservazione dell’ordine
sociale esistente, ma l’ordine esistente è una nozione astratta, la società
essendo un disordine reale e dunque sempre mutevole, che può essere normato e
tenuto in piedi solo a condizione che il sistema sia policentrico e inclusivo, che sappia cioè inglobare
nel suo seno le molteplici spinte dei diversi ceti sociali, assicurando loro
non solo una porzione della ricchezza sociale, ma uno Status adeguato, che non sia solo giuridico, ma politico e sociale.
In questo
quadro lo Stato capitalistico postmoderno
non può tutelare solo gli interessi di un "pugno di capitalisti", ma quelli di un
articolato e ampio blocco sociale plebeale di cui la borghesia
capitalistica è solo l’apice. Chiamiamo plebeale
questo blocco, volendo sottolineare che esso include, oltre alla classe
economicamente dominante, la piccola borghesia produttiva (che lungi
dall’estinguersi è diventata più numerosa), la zona alta dello sterminato ceto
medio impiegatizio (le cui file, con la terziarizzazione della società moderna,
si sono infittite). Ma il tratto davvero distintivo dei sistemi imperialistici,
è che essi hanno inglobato buona parte della stessa classe proletaria, quella
classe che per un lungo periodo, soprattutto in Europa, era stata la fonte di
un’accanità conflittualità.
Si capisce che
l’egemonia capitalistica non è data automaticamente, solo in virtù delle sue
posizioni di forza nella sfera dei rapporti di produzione. Lo stesso blocco
dominante è infatti segnato da una permanente conflittualità interna, da una
dinamica lotta tra le componenti, i cui equilibri sono sempre instabili e
precari. Se quella capitalistica fosse una società castale, diremmo che la
sovranità non appartiene ad una sola, ma ad un aggregato mutevole, i cui
confini non sono mai dati una volta per tutte. Lo Stato è anche il garante di questa dinamica inclusiva e cooptativa,
assicura che questa competizione avvenga in base a norme certe, ciò allo scopo
di impedire che la competizione interna al blocco dei ceti e delle classi
dominanti si trasformi in conflitto aperto, col rischio che parte di esso
decida di raggiungere coloro i quali sono esclusi e tenuti fuori dal perimetro
sociale in cui si esercita la sovranità politica.
Lo Stato è dunque tanto più saldo quanto
più agisce come custode del carattere ampio e inclusivo del blocco dei
dominanti, quando non si manifesta in prima battuta come uno Stato di classe,
ma come arbitrale soggetto interclassista, luogo di sintesi delle molteplici
soggettività che compongono la formazione
sociale capitalistica e in primis
di quelle che sono a vario titolo interessate alla sua conservazione.
La sua potenza
si esprime ovviamente nella sua capacità di contrastare le spinte eversive
proletarie e dei ceti esclusi
dall’esercizio della sovranità politica. Questa funzione di contrasto è prima
di tutto capacità di neutralizzazione, consiste nell’impedire agli esclusi di
prendere coscienza dei loro interessi, nell’inibire la loro soggettivizzazione
politica, nel soffocare le spinte alla nascita di un loro contropotere. Quando
questa funzione preventiva si inceppa, solo allora lo Stato si manifesta
crudamente come apparato di coercizione, come Stato di Polizia. Allora esso si spoglia dei suoi panni
democratici, si toglie la sua veste arbitrale, per ostentare la sua muscolare
aggressività.
Ma resta che
esso è tanto più è forte tanto meno deve ricorrere alla forza per contenere sia
le tensioni al suo interno che quelle che si presentano come antagonistiche.
Entro i confini nazionali (verso l’esterno periferico le modalità sono di ben
altro segno) esso esercita infatti
le sue funzioni non tanto con la critica delle armi —che vengono
brandite come deterrente e usate comunque verso quegli strati proletari che
vivono ai margini del processo di produzione e riproduzione capitalistici e che
come detto non accedono alla Sovranità
poiché il loro diritti di cittadinanza
sono sostanzialmente menomati—, ma con le armi della critica. La sua potenza, dello Stato, è
infatti prima di tutto politica, consiste nella sua capacità di esercitare
egemonia ideologica, di assicurare, oltre all’unità del blocco sociale
dominante, la possibilità di quest’ultimo di integrare nel suo seno anche
quelli esclusi.
L’egemonia è
il primato di una concezione del mondo,
che nel caso dello Stato capitalistico
postmoderno consiste si nel conferire sovranità al Capitale ma solo in
quanto suprema forza motrice del mercato, un mercato il quale si manifesta come
luogo aperto, pervasivo, in costante espansione e, quel che più conta, come
cornice che consente una crescita costante del progresso e del benessere
collettivo. Ove il mercato non assicuri questa diffusione del benessere
l’egemonia capitalistica vacilla e il sistema scricchiola (che è esattamente che quel sta accadeno oggi con questa crisi sistemica, Ndr).
In questo
senso, se il Capitale è l’astratto demiurgo che sta alle spalle dello Stato, questo si presenta in verità come
organo proteiforme, tentacolare, plurifunzionale.
Accanto agli organismi
attraverso cui esso esercita sovranità
diretta (esecutivo, legislativo, giudiziario, poliziesco), v’è un sistema
multiforme di sovranità indiretta
composto non soltanto da istituzioni collaterali quali scuole, media, chiese,
fondazioni, enti filantropici, organizzazioni non governative, ecc, ma pure da
partiti, sindacati e spesso movimenti —apparentemente eversivi e che invece
spesso sono soltanto la forma con cui ceti sociali esclusi, emarginati o
vittime di una perdita di status,
tentano di forzare le compatibilità di sistema per entrare o rientrare entro il
campo del blocco dei dominanti. Tutto quello che passa comunemente sotto il
nome di società civile.
Deve esserci
una relazione di coessenzialità e di osmosi tra gli apparati della sovranità diretta o statuale e quelli
della sovranità indiretta o della società civile. I primi non possono
esercitare potere in maniera unilaterale e autoreferenziale, ma solo grazie al
vitale supporto della società civile.
Quest’ultima alimenta gli apparati della sovranità
diretta in svariate e modulari maniere, riciclando l’ideologia dominante,
aggiornandola e scrostandola dagli elementi obsolescenti, assicurando il
ricambio del personale politico dirigente, fornendo gli intellettuali senza i
quali semplicimente il sistema rischierebbe di perdere la sua plasticità e
capacità egemonica.
Quando questa
relazione cortocircuita e si spezza abbiamo quella che possiamo chiamare crisi di egemonia, crisi che diventa
rivoluzionaria solo ove l’avversario del Capitale, soggettivizzatosi
politicamente, sia riuscito e costruire attorno a sé un blocco sociale non meno
largo e rappresentativo di quello dominante; sia cioè riuscito a rappresentarsi
come potenza generale e costituente,
quindi attorno ad una concezione del mondo non meno universalistica e pervasiva
di quella mercantile di cui il Capitale si fa interprete e campione.
Quando affermiamo,
sviluppando il ragionamento di Gramsci, che lo Stato capitalistico postmoderno compone l’insieme degli apparati
della sovranità diretta e di quelli
della sovranità indiretta, stiamo in
effetti correggendo Marx il quale, torcendo non poco la tesi di Hegel, riteneva
la società civile mera sede dei “rapporti
materiali d’esistenza”, cioè dei rapporti di produzione e di scambio, ovvero la
reale struttura economica sulla quale
si ergeva la sovrastruttura statuale.
Se dovessimo ricorrere ad una metafora anatomica (che come ogni analogia va presa
con le pinse), parzialmente accogliendo le tesi althusseriane, diremo che
l’organismo sociale che chiamiamo sistema capitalistico è una struttura, le cui parti tutte
concorrono, a seconda delle loro specifiche funzioni, alla sua complessiva
vitalità e riproduzione. Se i rapporti di proprietà sono il sistema osseo di
questo organismo, gli apparati statuali della sovranità diretta o coercitiva costituiscono il suo sistema
nervoso, mentre quelli della sovranità
indiretta o società civile
corrispondono al resto: sistemi muscolare, cutaneo e circolatorio, gli apparati
digerente, respiratorio e escretore.
Se il marxismo
ortodosso, col suo rigido schema binario struttura-sovrastruttura, non ha
saputo spiegare lo Stato capitalistico
postmoderno, tanto meno possono farlo le scuole liberali borghesi. La
realtà ha infatti smentito e superato tutte le dottrine. Esso non è il
rousseauviano ente che rappresenta e incarna la volontà generale. Non è un
contrattualistico patto di individui atomizzati dotati di potere costituente.
Non è una pura e semplice formazione giuridica o democrazia costituzionale. Non
è lo Stato dei liberali che supponevano la perfetta coincidenza tra interesse
privato e quello pubblico, né l’apparato puramente amministrativo dei
liberisti, né quello di Hegel o Croce che lo dipingevano come l’ingresso di Dio
nel mondo o l’incarnazione dell’Io
assoluto.
Esso, lo Stato, è in
Occidente, al suo per ora ultimo stadio di sviluppo, un organismo complesso che
può governare la formazione sociale
solo in quanto può rappresentarla in modo autoritario ma pluralisticamente, ed
anche, foucaultianamente, perché abbisogna che i cittadini abbiano introiettato
come naturale non solo lo scambio mercantile ma pure la necessità della propria
autocoercizione.
Come vedremo
più avanti lo Stato capitalistico
postmoderno è infine polimorfico, contiene in sé elementi democratici,
aristocratici, oligarchici e monarchici, il cui dosaggio cambia a seconda delle
tradizioni nazionali, delle circostanze sociali, delle sue necessità di
autopreservazione.
Erodoto
distingueva tre forme di governo: di uno
solo, di pochi, di tutti. Noi diremo che lo Stato postmoderno, che negli U.S.A. si è venuto strutturando prima
che altrove, riesce ad essere democratico in quanto consente alla moltitudine ci concorrere alle decisioni
politiche, ma nell’ambito di un sistema istituzionale blindato che si avvicina
al Leviatano di Hobbes, ovvero ad un onnipotente Stato di Polizia».
-Prossima Parte: Il concetto di Libertà
* Questo scritto apparve, col titolo Libertà e comunità, nel marzo 2003, nella rivista PRAXIS n.31. Era preceduto dalla Premessa qui sotto.
«Marx si
promise di trattare scientificamente le problematiche relative alle Stato, ma
non riuscì a farlo. Tra tutti i suoi epigoni Lenin fu il solo a tentare una
sistemazione teorica che avesse una sufficiente coerenza. Lo fece, pressato
dalla temperie rivoluzionaria russa, con l’intento di contrastare le
deformazioni riformistico-legalitarie diventate da almeno un ventennio egemoni
nel movimento socialista internazionale, e di difendere il marxismo come
“dottrina rivoluzionaria”. Senza esitazioni egli accolse la tesi engelsiana
(sostenuta dallo stesso Marx) per cui lo Stato appare solo ad un certo grado
dell’evoluzione storico-sociale, quando gli antagonismi sociali sono inconciliabili
e la classe dominante si dota di un apparato coercitivo allo scopo di tutelare
i suoi interessi e conservare la propria supremazia. Sotto questa luce lo Stato
era dunque anzitutto una “banda armata”.
Dopo Lenin,
Gramsci fu il solo a porre l’esigenza di un’analisi più articolata e rigorosa
dello Stato, che nei paesi a più alto
sviluppo delle forze produttive, come vedremo, non è soltanto un apparato
coercitivo, ma uno strumento complesso di fabbricazione di egemonia ideologica
e sociale. L’assenza di una seria ricerca scientifica sullo Stato moderno era una prova della lenta
agonia teorica che il marxismo ha conosciuto, soprattutto dopo la seconda
guerra mondiale. Un’agonia che si spiega anche con l’apparente irreversibile ascesa del socialismo reale, che sembrava risolvere
praticamente e storicisticamente gli ossimori e i nodi teorici irrisolti.
Stessa sorte è
toccata alla questione delo Stato di
Diritto (in quanto sistema giuridico-normativo di una data società) e al Diritto Soggettivo (ovvero alle libertà
e alle facoltà individuali).
Come spiegare
il fatto che questo silenzio ha coinvolto anche la sinistra radicale e le sette
ereticali di vario stampo? Se lo stalinismo, prigioniero com’era o
dell’apologia del modello russo o dello storicismo,
poteva solo rimuovere la problematica, i marxismi ereticali avrebbero dovuto,
proprio per dare respiro e rigore alla loro critica del “socialismo reale”,
sviluppare analisi più accurate. Non lo hanno fatto a causa del loro dogmatismo
dottrinario. Stato e Diritto, essendo mere sovrastrutture sociali, non
meritavano indagine scientifica. Una volta scomparse le classi lo Stato, e con esso il Diritto (concepito come suo mero
rivestimento giuridico), non potevano che automaticamente e inesorabilmente
dissolversi nel corpo della società socialista. Stessa sorte toccava ai diritti soggettivi fondamentali e a
quale sorte spettasse loro nel passaggio al comunismo: l’indagine era superflua
in quanto un’autentica società senza classi sarebbe stata il regno della
libertà totale e dispiegata. Avveniva insomma una torsione meccanicistica ed
economicistica di quella che al tempo fu una fondamentale scoperta
materialistico-storica di Marx: «Sono stato dai miei studi condotto alla
conclusione che sia i rapporti giuridici sia le forme dello stato non potevano
essere compresi né di per se stessi né per il cosiddetto sviluppo generale
dello spirito umano, ma che sono radicati nei rapporti materiali
dell’esistenza, il cui complesso è abbracciato da Hegel con il nome di Società civile: l’anatomia di questa Società civile dev’essere cercata
nell’economia politica». (Per la critica
dell’economia politica)
Gli eretici
usando vuote tautologie o limitandosi alla sterile esegesi filologica del testo
di Marx, gli staliniani adottando una machiavellica realpolitik, andavano dunque nella stessa direzione. Non è per
caso che la penosa implosione dell’URSS abbia trascinato con sé tutte le
eresie, nessuna esclusa.
Vi è forse
un’altra ragione, più profonda e che attiene ad un aspetto sottaciuto ma
costitutivo del marxismo. Dietro alla supponenza con la quale i marxisti
ortodossi di tutte le chiese hanno liquidato l’etica come ideologia, in realtà
di annidava un’incoffessata accettazione dell’etica rousseauviana. La natura
umana è buona. Conflitti e ostilità sono sorti con la comparsa della proprietà
e la fissazione dei diritti di proprietà. Ergo:
aboliti questa e quelli gli uomini sarebbero tornati alla beatitudine dello
stato di natura. Tutto molto semplice, tutto molto metafisico. Il comunismo
come aristotelica entelechia: la
compiuta e finale realizzazione della innata potenza umana.
E’ nostra
intenzione tentare di mettere ordine in questo campo, per giungere a delle
conclusioni (che se non sono delle congetture
popperiane sono pur sempre passibili di falsificazione),
per quanto attiene alle sorti dello Stato,
del Diritto e dei Diritti
soggettivi nella società comunista. Per farlo dobbiamo transitare un
territorio minato e saldamente presidiato dal pensiero politico borghese, ricostruendo
i concetti di Stato, Sovranità, Libertà,
Popolo Democrazia e Stato di Diritto. Ai lettori stabilire se le nostre
fatiche abbiano prodotto un impianto concettuale, se non già rigorosamente
scientifico, almeno potenzialmente tale».
4 commenti:
Condivido molto quest'ultima analisi "Come vedremo più avanti lo Stato capitalistico postmoderno è infine polimorfico, contiene in sé elementi democratici, aristocratici, oligarchici e monarchici, il cui dosaggio cambia a seconda delle tradizioni nazionali, delle circostanze sociali, delle sue necessità di autopreservazione."
Per colpire almeno in parte questo modello sposterei l'attenzione e quindi la problematica dello stato capitalistico sul piano delle risorse dell'ecosistema e del suo sfruttamento. In una visione a medio lungo periodo lo stato si dovrebbe occupare di come ridistribuire le risorse tra i membri della società e sopratutto mantenute e preservate per le generazioni future.
Quindi il problema nella sfera delle risorse limitate è che il capitalismo è di per se poco efficiente perché guarda al profitto nel breve periodo esternalizzando i costi nel medio lungo periodo portando alla distruzione o comunque un disequilibrio nel futuro..."ora mangio poi si vedrà, magari troveremo un metodo per creare acqua potabile dal niente"
Ê un articolo veramente interessante, ma mi sembra che questa analisi sia un pò "ingiusta" nei confronti degli anarchici.
Anni fa lessi l'Anarchia di Errico Malatesta e, francamente, non mi pare che il tipo di società auspicato dagli anarchici fosse così strampalato come ero in origine incline a pensare o come sembra esserlo anche in questa analisi.
In effetti, se non ricordo male, in quel testo emergono due concetti
interessanti ed essenzialmente veri:
- Lo Stato viene in genere percepito come un potere sociale astratto, mentre gli anarchici lo considerano come la collettività dei soggetti che lo compongono.
- Partendo da questa impostazione
emerge come quest'ultimo possa essere "deviato" per fare gli interessi delle classi dominanti.
Ora...io credo non si possa dare tutti i torti agli anarchici:
Hanno infatti ragione quando sostengono che lo "Stato" può essere (e in genere è) "dirottato" per fare gli interessi della classe dominante.
Questo avviene nella società capitalista, ma è avvenuto anche negli esperimenti (falliti) del Socialismo Reale, dove all'eliminazione della classe capitalista è succeduto l'apparire di una "borghesia di Partito" che era la beneficiaria del potere dello Stato.
Francamente credo che la eccessiva semplicità con cui è stata "eliminata" l'opzione anarchica nella parte iniziale del testo, pur mantenendo l'efficacia dell'analisi per l'area specifica individuata (Stato capitalistico post-moderno) comporti il rischio, nella riproposizione di una alternativa,
di sottovalutare questo rischio intrinseco dello Stato che tanto male ha fatto alle esperienze del Socialismo Reale.
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Quanto all'inibizione della soggettività politica, alla sovranità indiretta ed alla capacità della classe dominante di integrare gli esclusi...mi paiono concetti essenzialmente connessi da un unico fattore:
I soggetti oppressi sono incapaci di riconoscere il fatto che l'unica cosa che hanno da perdere sono le loro catene.
A mio avviso sempre nel libro di Malatesta si trova un esempio molto azzeccato di come gli oppressi percepiscono le "catene" dello Stato:
"Così uno, il quale fin dalla nascita avesse avuto le gambe legate e pure avesse trovato modo di camminare alla men peggio, potrebbe attribuire la sua facoltà di muoversi precisamente a quei legami, che invece non fanno
che diminuire e paralizzare l’energia muscolare delle
sue gambe. Se poi agli effetti naturali dell’abitudine s’aggiunga l’educazione data dal padrone, dal prete, dal professore, ecc., i quali sono interessati a predicare che i signori ed il governo sono necessari; se si aggiunga il giudice ed il birro, che si forzano di ridurre al silenzio chi pensasse diversamente e fosse tentato a propagare il suo pensiero, si comprenderà come abbia messo radice, nel cervello
poco coltivato della massa laboriosa, il pregiudizio della
utilità, della necessità del padrone e del governo.
Figuratevi che all’uomo dalle gambe legate, che abbiamo
supposto, il medico esponesse tutta una teoria e mille
esempi abilmente inventati per persuaderlo che colle
gambe sciolte egli non potrebbe né camminare, né vivere;
quell’uomo difenderebbe rabbiosamente i suoi legami
e considererebbe nemico chi volesse spezzarglieli."
->
->
Ê precisamente questa percezione illusoria alla base dell'incapacità degli oppressi
di riconoscere il proprio potenziale e di ribellarsi:
Le catene vengono vissute come una condizione fisiologica.
Lo Stato viene percepito come l'unico interlocutore da cui ottenere giustizia in modo "civile".
L'uomo così illuso di poter ottenere ciò che vuole senza dover ricorrere alla violenza (prerogativa esclusiva dello Stato) se ne stà docile con i ceppi a mani e piedi e si lascia opprimere.
Ê la comprensione della illusorietà
della civiltà, del diritto (inteso come concetto astratto ed universale, contrapposto al diritto-conquista ottenuto e mantenuto con la minaccia della violenza) e della concezione dello Stato come "ente morale" e lo sprone legato alla disperazione che costituiscono le necessarie premesse per l'innesco dell'impulso di farsi giustizia da sè attraverso la rivoluzione (e la violenza rivoluzionaria che ad essa è associata).
Leggendo il testo mi è parso che l'egemonia ideologica e gli apparati di sovranità indiretta vengano letti come un elemento innovativo di questo tipo di Stato,
ma, se la civiltà ed il diritto li consideriamo illusori e se consideriamo falsa l'idea che lo Stato sia un "ente morale" (e non l'insieme dei soggetti specifici che lo compongono) al quale appellarsi, penso che questi "strumenti" siano una sorta di "evoluzione" di strumenti pre-esistenti:
Inizialmente c'era il suffragio universale...
...poi ci sono stati i "sindacati addomesticati"...
...e così via...
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