5 aprile. Tensione alle stelle in Estremo oriente, diventato oramai il secondo polmone dell’economia mondiale e un centro strategico delle tensioni geopolitiche. La Corea del Nord è una spina nel fianco, non solo delle pretese imperiali degli USA, ma anche delle mire egemoniche cinesi.
Can che abbia non morde?
di Campo Antimperialista
L’annuncio di Kim Jong-un di essere pronto ad attaccare coi suoi missili a medio e lungo raggio le basi americane nel dirimpettaio Giappone (ma anche quelle nelle Hawaii) e quella di riattivare il reattore nucleare di Yongbyon, fermo dal 2007, ha provocato reazioni negative perfino in Cina, supposto sponsor di Pyongyang.
Pechino, secondo funzionari americani, ha iniziato a mobilitare le sue truppe al confine con la Corea del Nord, nel timore che uno sgretolamento del regime porti ad un massiccio afflusso di profughi sul suo territorio. Gli Stati Uniti da parte loro, mentre hanno fatto mettere in stato di massima allerta le alleate truppe sud-coreane, hanno deciso di rafforzare ulteriormente lo schieramento difensivo attorno a Seul e al Giappone.
Una ennesima puntata della saga della guerra fredda oppure, questa volta, tutto precipita? Questo sembra l’esito sciagurato seguendo l’allarmistica stampa occidentale, che così sembra fare eco a quella Nord-coreana, mentre quella del Sud tende a presentare i fatti sotto una luce più tranquillizzante.
Non essendo noi nelle stanze dei bottoni di chi ha l’ultima parola, possiamo solo fare delle congetture, delle deduzioni per essere più precisi.
La domanda è la seguente: è forse nell’interesse delle grandi potenze dell’area (Cina, Russia, Giappone e USA) essere trascinate in una guerra regionale devastante? Noi riteniamo di no. Certo non per adesso. La seconda domanda è più spinosa: può, al contrario, il regime di Pyongyang avere l’interesse a scatenare lo scontro frontale ora?
Difficile rispondere a questa domanda. Per farlo occorre capire di che tipo di regime stiamo parlando, qual è il suo stato di salute, come esso vede il futuro proprio e quello della regione.
Occorre anzitutto smentire la vulgata di certi media occidentali, quella secondo cui la Cina sarebbe un sicuro alleato di Pyongyang, anzi il suggeritore della sua politica “provocatoria”. Le cose stanno altrimenti. Pechino non vede affatto di buon occhio il regime della Corea del Nord. L’opinione comune in Cina sul regime di Pyongyang non è dissimile a quella predominante in Occidente, che esso sia guidato da “folli”.
Di converso il regime nord-coreano diffida di Pechino. Non è solo che la Cina si è sempre arrogata, negli ultimi sette secoli, una specie di diritto di prelazione sulla Corea (che considera zona sotto la sua giurisdizione strategica). Pyongyang teme, non a torto, che Pechino punti sul medio periodo, pur in chiave antiamericana e anti-giapponese, a stringere alleanza con Seul — tanto per fare un esempio: l’interscambio cinese con la Corea del Sud ammontava nel 2012 a 215 Mld di dollari mentre quello con il Nord a 6 Mld. Se così stanno le cose il tetragono regime nord-coreano, arroccato attorno al sacro dogma trinitario del Songun (sovranità nazionale, Stato, Esercito) vede come fumo negli occhi la “amicizia” cinese, se non addirittura come la più grande minaccia alla sua propria sopravvivenza.
Per quanto forte, ci pare plausibile l’affermazione di Maurizio Riotto, secondo cui il vero e più pericoloso nemico di Pyongyang non sono gli Stati Uniti ma la Cina. In effetti Pyongyang, di contro ad una certa retorica occidentalista, è dalla metà degli anni ’70 che cerca il dialogo con gli Usa. Riotto addirittura sostiene che «l’atomica nord-coreana non serve tanto a dissuadere gli Usa quanto a scoraggiare eventuali pretese egemoniche cinesi sulla Corea». [1]
Per quanto attiene alla natura sociale del regime, se esso possa essere considerato “socialista”, si potrebbe rispondere che sì, lo è, se per socialismo s’intende genericamente una formazione sociale fondata sulla pressoché totale statalizzazione dei mezzi di produzione e di scambio.
Ma un socialismo sui generis, da caserma, fondato non sull’auotogoverno dei lavoratori e nemmeno, stalinisticamente sul predominio assoluto del partito unico, burocratizzato o meno. Nella Corea del Nord la parte del leone (nella struttura economica come nella sovrastruttura politica e statuale) la svolge l’Esercito, di cui il partito è protesi. Un socialismo militare quindi, le cui radici affondano nell’antico humus del “modo asiatico di produzione”.
Ideologicamente, alle spalle del pensiero di regime super-omista dello Juche, quello nord-coreano è, come sostiene Riotto «uno Stato confuciano appena coperto da un sottile strato di “vernice rossa”. (…) Fin dalla sua formazione il programma della politica nazionale nordcoreana era stato il recupero dei valori e dell'identità nazionali nell'ambito della più piena indipendenza politica [...]. Non deve perciò stupire che, nell'edificazione del nuovo Stato, ci si sia aggrappati ai modelli culturali più noti e rassicuranti, ossia quelli neoconfuciani degli ultimi seicento anni, mummificatisi in un panorama storico che si era mantenuto assolutamente involuto e piatto per almeno due secoli e mezzo, dalla prima metà del Seicento alla seconda metà dell'Ottocento».
Non è quindi il giovane Kin Jong-un che ha in mano le chiavi per decidere se sarà guerra o pace, ma i vecchi generali che detengono le leve decisive del potere.
Note
[1] «In questi giorni è emersa una notizia non inattesa: è stato sanzionato con una sospensione dal lavoro Deng Yuwen, vicedirettore di una rivista affiliata alla Scuola del Partito comunista cinese, che aveva scritto in febbraio sul Financial Times un articolo che violava un tabù. Deng si era permesso di osservare, da un palcoscenico internazionale come il quotidiano britannico, quello che sarebbe ovvio in qualsiasi contesto politico e in ogni Paese: nessuno ha interesse ad avere un Paese vicino - per di più notoriamente imprevedibile nel suo nazionalismo esasperato - che si doti di armamenti atomici, visto che queste armi potrebbero esser rivolte contro chiunque e in particolare contro tutti i vicini, senza esclusione (ossia Cina compresa). Da questa considerazione partiva l'invito alla leadership di Pechino di prendere spunto dal terzo esperimento nucleare per prepararsi a smettere di appoggiare la Corea del Nord, superando la vecchia concezione della necessità di uno Stato-cuscinetto il cui crollo potrebbe portare a una unificazione della penisola sotto l'egida di Seul e portare truppe americane ai confini (per evitare questo Mao mandò a morire un milione di cinesi nella guerra di Corea e rischiò la terza guerra mondiale). È ovvio che le chance di Pechino di esercitare efficaci pressioni politiche in un ruolo di mediazione diminuiscano se si diffonde la sensazione che possa abbandonare Pyongyang, mentre invia chiari segnali di malcontento non opponendosi alle nuove sanzioni dell'Onu. Visto che in alcuni ambienti diplomatici l'articolo di Deng era stato interpretato come il segnale di una possibile svolta, la punizione dell'articolista non è giunta come un fulmine a ciel sereno. Certo con Pyongyang Pechino condivide l'irritazione per l'upgrading della presenza militare americana alle soglie di casa sua».
Stefano Carrer, Il Sole 24 Ore del 4 aprile 2013
Can che abbia non morde?
di Campo Antimperialista
L’annuncio di Kim Jong-un di essere pronto ad attaccare coi suoi missili a medio e lungo raggio le basi americane nel dirimpettaio Giappone (ma anche quelle nelle Hawaii) e quella di riattivare il reattore nucleare di Yongbyon, fermo dal 2007, ha provocato reazioni negative perfino in Cina, supposto sponsor di Pyongyang.
Pechino, secondo funzionari americani, ha iniziato a mobilitare le sue truppe al confine con la Corea del Nord, nel timore che uno sgretolamento del regime porti ad un massiccio afflusso di profughi sul suo territorio. Gli Stati Uniti da parte loro, mentre hanno fatto mettere in stato di massima allerta le alleate truppe sud-coreane, hanno deciso di rafforzare ulteriormente lo schieramento difensivo attorno a Seul e al Giappone.
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Una ennesima puntata della saga della guerra fredda oppure, questa volta, tutto precipita? Questo sembra l’esito sciagurato seguendo l’allarmistica stampa occidentale, che così sembra fare eco a quella Nord-coreana, mentre quella del Sud tende a presentare i fatti sotto una luce più tranquillizzante.
Non essendo noi nelle stanze dei bottoni di chi ha l’ultima parola, possiamo solo fare delle congetture, delle deduzioni per essere più precisi.
La domanda è la seguente: è forse nell’interesse delle grandi potenze dell’area (Cina, Russia, Giappone e USA) essere trascinate in una guerra regionale devastante? Noi riteniamo di no. Certo non per adesso. La seconda domanda è più spinosa: può, al contrario, il regime di Pyongyang avere l’interesse a scatenare lo scontro frontale ora?
Difficile rispondere a questa domanda. Per farlo occorre capire di che tipo di regime stiamo parlando, qual è il suo stato di salute, come esso vede il futuro proprio e quello della regione.
Occorre anzitutto smentire la vulgata di certi media occidentali, quella secondo cui la Cina sarebbe un sicuro alleato di Pyongyang, anzi il suggeritore della sua politica “provocatoria”. Le cose stanno altrimenti. Pechino non vede affatto di buon occhio il regime della Corea del Nord. L’opinione comune in Cina sul regime di Pyongyang non è dissimile a quella predominante in Occidente, che esso sia guidato da “folli”.
Kim Jong-un |
Di converso il regime nord-coreano diffida di Pechino. Non è solo che la Cina si è sempre arrogata, negli ultimi sette secoli, una specie di diritto di prelazione sulla Corea (che considera zona sotto la sua giurisdizione strategica). Pyongyang teme, non a torto, che Pechino punti sul medio periodo, pur in chiave antiamericana e anti-giapponese, a stringere alleanza con Seul — tanto per fare un esempio: l’interscambio cinese con la Corea del Sud ammontava nel 2012 a 215 Mld di dollari mentre quello con il Nord a 6 Mld. Se così stanno le cose il tetragono regime nord-coreano, arroccato attorno al sacro dogma trinitario del Songun (sovranità nazionale, Stato, Esercito) vede come fumo negli occhi la “amicizia” cinese, se non addirittura come la più grande minaccia alla sua propria sopravvivenza.
Per quanto forte, ci pare plausibile l’affermazione di Maurizio Riotto, secondo cui il vero e più pericoloso nemico di Pyongyang non sono gli Stati Uniti ma la Cina. In effetti Pyongyang, di contro ad una certa retorica occidentalista, è dalla metà degli anni ’70 che cerca il dialogo con gli Usa. Riotto addirittura sostiene che «l’atomica nord-coreana non serve tanto a dissuadere gli Usa quanto a scoraggiare eventuali pretese egemoniche cinesi sulla Corea». [1]
Per quanto attiene alla natura sociale del regime, se esso possa essere considerato “socialista”, si potrebbe rispondere che sì, lo è, se per socialismo s’intende genericamente una formazione sociale fondata sulla pressoché totale statalizzazione dei mezzi di produzione e di scambio.
Ma un socialismo sui generis, da caserma, fondato non sull’auotogoverno dei lavoratori e nemmeno, stalinisticamente sul predominio assoluto del partito unico, burocratizzato o meno. Nella Corea del Nord la parte del leone (nella struttura economica come nella sovrastruttura politica e statuale) la svolge l’Esercito, di cui il partito è protesi. Un socialismo militare quindi, le cui radici affondano nell’antico humus del “modo asiatico di produzione”.
Ideologicamente, alle spalle del pensiero di regime super-omista dello Juche, quello nord-coreano è, come sostiene Riotto «uno Stato confuciano appena coperto da un sottile strato di “vernice rossa”. (…) Fin dalla sua formazione il programma della politica nazionale nordcoreana era stato il recupero dei valori e dell'identità nazionali nell'ambito della più piena indipendenza politica [...]. Non deve perciò stupire che, nell'edificazione del nuovo Stato, ci si sia aggrappati ai modelli culturali più noti e rassicuranti, ossia quelli neoconfuciani degli ultimi seicento anni, mummificatisi in un panorama storico che si era mantenuto assolutamente involuto e piatto per almeno due secoli e mezzo, dalla prima metà del Seicento alla seconda metà dell'Ottocento».
Non è quindi il giovane Kin Jong-un che ha in mano le chiavi per decidere se sarà guerra o pace, ma i vecchi generali che detengono le leve decisive del potere.
Note
[1] «In questi giorni è emersa una notizia non inattesa: è stato sanzionato con una sospensione dal lavoro Deng Yuwen, vicedirettore di una rivista affiliata alla Scuola del Partito comunista cinese, che aveva scritto in febbraio sul Financial Times un articolo che violava un tabù. Deng si era permesso di osservare, da un palcoscenico internazionale come il quotidiano britannico, quello che sarebbe ovvio in qualsiasi contesto politico e in ogni Paese: nessuno ha interesse ad avere un Paese vicino - per di più notoriamente imprevedibile nel suo nazionalismo esasperato - che si doti di armamenti atomici, visto che queste armi potrebbero esser rivolte contro chiunque e in particolare contro tutti i vicini, senza esclusione (ossia Cina compresa). Da questa considerazione partiva l'invito alla leadership di Pechino di prendere spunto dal terzo esperimento nucleare per prepararsi a smettere di appoggiare la Corea del Nord, superando la vecchia concezione della necessità di uno Stato-cuscinetto il cui crollo potrebbe portare a una unificazione della penisola sotto l'egida di Seul e portare truppe americane ai confini (per evitare questo Mao mandò a morire un milione di cinesi nella guerra di Corea e rischiò la terza guerra mondiale). È ovvio che le chance di Pechino di esercitare efficaci pressioni politiche in un ruolo di mediazione diminuiscano se si diffonde la sensazione che possa abbandonare Pyongyang, mentre invia chiari segnali di malcontento non opponendosi alle nuove sanzioni dell'Onu. Visto che in alcuni ambienti diplomatici l'articolo di Deng era stato interpretato come il segnale di una possibile svolta, la punizione dell'articolista non è giunta come un fulmine a ciel sereno. Certo con Pyongyang Pechino condivide l'irritazione per l'upgrading della presenza militare americana alle soglie di casa sua».
Stefano Carrer, Il Sole 24 Ore del 4 aprile 2013
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