Emiliano Brancaccio |
E' il liberoscambismo che ci porta verso il baratro
«E’ dunque proprio un incondizionato liberoscambismo, soprattutto in tempi di gravissima crisi economica, che rischia di alimentare le peggiori pulsioni nazionaliste».
D. Il protezionismo sta tornando di moda?
R. Tra il 2008 e il 2012 la Commissione europea ha registrato 534 nuove misure protezionistiche. Non solo l’Argentina, ma anche colossi come Cina, India, Brasile e Stati Uniti hanno introdotto restrizioni. La stessa Russia ha posto in essere 80 nuove misure protezionistiche, il che la dice lunga sul modo in cui intenderà gestire la recente adesione al WTO, l’organizzazione mondiale del commercio.
L’unica potenza che ancora resiste alla tentazione di introdurre controlli sui movimenti di capitali e di merci è proprio l’Unione europea. Dietro ci sono gli interessi del paese più forte, la Germania, che dal libero scambio trae grandi vantaggi. Tuttavia, man mano che la crisi avanza, anche in Europa e in Italia aumentano i consensi verso misure di controllo dei commerci, di limitazione delle acquisizioni estere e di ripristino della sovranità nazionale sulla moneta. E’ un’illusione pensare di contrastare quest’onda con la solita vuota retorica europeista.
D. In effetti i segnali di protezionismo non mancano. Lo stesso Marchionne, in qualità di presidente dell’associazione europea dei costruttori automobilistici, ha criticato l’apertura indiscriminata alle importazioni di autoveicoli prodotti in Asia.
R. Non solo: Marchionne ha pure chiesto alla Commissione europea di governare i tagli di capacità produttiva delle case automobilistiche europee, in modo da lasciare invariate le quote di mercato: una vera e propria pianificazione pubblica europea dei volumi di produzione. E’ una posizione sensata che tuttavia apre una contraddizione, visto che al tempo stesso Marchionne rivendica piena libertà di trasferimento del capitale di Fiat all’estero ed esige dai lavoratori una totale sottomissione alle leggi del mercato. E’ l’ennesimo sintomo di crisi del liberismo e dei suoi ideologi, che da un lato si arrampicano sugli specchi per giustificare i massicci aiuti pubblici ai capitali privati, e dall’altro continuano a pretendere di avere mani libere nello scontro con i lavoratori.
D. E la sinistra, dice lei, risalta per il suo silenzio.
R. Per troppi anni ha subito il condizionamento ideologico del liberismo, dell’idea che la globalizzazione capitalistica fosse un dato ineluttabile e in fin dei conti benefico. Quando Fiat, o i vertici di Alcoa o la famiglia Riva - che hanno ricevuto varie forme di sostegno statale - hanno minacciato di abbandonare l’Italia e investire all’estero, Berlusconi e Monti hanno dato loro man forte sostenendo che un’impresa privata deve esser lasciata libera di trasferirsi dove meglio crede. E non mi risulta che da sinistra si siano levate molte critiche verso questa indiscriminata libertà di spostamento dei capitali. Oppure, quando scopriamo che gli impianti che producono carbone e alluminio in Sardegna sono scarsamente efficienti anche perché risultano in larga misura sottoutilizzati, non mi pare che da sinistra siano giunte proposte per tentare di ridurre un po’ le enormi quantità di questi prodotti che importiamo dalla Cina e dalla Germania. Se si lasciano queste tematiche ai soli movimenti nazionalpopulisti si commette un grave errore di prospettiva.
D. Quello che molti affermano è che il protezionismo provoca danni economici, pericolosi nazionalismi e persino guerre.
R. E’ un convincimento tanto diffuso quanto privo di evidenze. Il premio Nobel per l’Economia Paul Samuelson, che non era un protezionista, ci ha spiegato che in presenza di disoccupazione il libero scambio crea problemi, non vantaggi. E l’economista di Harvard Dani Rodrik ci ricorda che negli anni Cinquanta e Sessanta sussistevano numerosi controlli sui movimenti di capitali e di merci, eppure lo sviluppo, l’occupazione e la distribuzione del reddito erano molto migliori di oggi, anche perché quei controlli permettevano ai singoli stati di perseguire obiettivi interni, occupazionali e distributivi. Si potrebbe anche ricordare che la massima liberalizzazione dei movimenti internazionali dei capitali fu raggiunta esattamente alla vigilia della prima guerra mondiale. E’ dunque proprio un incondizionato liberoscambismo, soprattutto in tempi di gravissima crisi economica, che rischia di alimentare le peggiori pulsioni nazionaliste.
D. Lei arriva anche ad argomentare che una minaccia “neo-protezionista” da parte dei paesi del Sud Europa potrebbe contribuire a salvare l’unità europea. Sembra un paradosso. Ci spiega meglio?
R. L’Europa può ritrovare coesione interna solo se mette un freno alla competizione salariale al ribasso e attiva un “motore interno” dello sviluppo economico e sociale. Per adesso, tuttavia, ci stiamo muovendo in direzione contraria. La Germania ha imposto ai paesi periferici della zona euro una ricetta a base di depressione, disoccupazione e fallimenti aziendali. La stessa Banca centrale europea segue questa linea: è disposta a difendere i paesi periferici dalla speculazione solo a condizione che questi comprimano ulteriormente la spesa pubblica e il costo del lavoro e si dispongano a vendere i capitali nazionali, incluse le banche. Questa violenta ristrutturazione a guida tedesca trasformerà vaste aree del Sud Europa in deserti produttivi, destinati solo a fornire manodopera a buon mercato alle aree più forti. I gruppi d’interesse prevalenti in Germania sanno che questi processi potrebbero scatenare tensioni tali da indurre i paesi del Sud ad abbandonare l’euro, ma questa eventualità non li spaventa. L’unica vera paura dei tedeschi è che con la moneta unica salti anche il mercato unico europeo, sul quale si fonda la loro egemonia: cioè temono che i paesi del Sud introducano limiti alla libera circolazione dei capitali e delle merci in Europa. In Francia si discute da tempo di opzioni simili, ma il governo socialista non sembra disposto a esplicitare una minaccia protezionista. In Italia, per evitare tentazioni, abbiamo addirittura messo un irriducibile liberoscambista ai vertici del governo. La crisi però avanza, i nodi verranno al pettine. Se la sinistra insiste con il suo liberoscambismo acritico, a scioglierli verranno chiamate forze completamente estranee alla tradizione del movimento dei lavoratori.
D. In effetti i segnali di protezionismo non mancano. Lo stesso Marchionne, in qualità di presidente dell’associazione europea dei costruttori automobilistici, ha criticato l’apertura indiscriminata alle importazioni di autoveicoli prodotti in Asia.
R. Non solo: Marchionne ha pure chiesto alla Commissione europea di governare i tagli di capacità produttiva delle case automobilistiche europee, in modo da lasciare invariate le quote di mercato: una vera e propria pianificazione pubblica europea dei volumi di produzione. E’ una posizione sensata che tuttavia apre una contraddizione, visto che al tempo stesso Marchionne rivendica piena libertà di trasferimento del capitale di Fiat all’estero ed esige dai lavoratori una totale sottomissione alle leggi del mercato. E’ l’ennesimo sintomo di crisi del liberismo e dei suoi ideologi, che da un lato si arrampicano sugli specchi per giustificare i massicci aiuti pubblici ai capitali privati, e dall’altro continuano a pretendere di avere mani libere nello scontro con i lavoratori.
D. E la sinistra, dice lei, risalta per il suo silenzio.
R. Per troppi anni ha subito il condizionamento ideologico del liberismo, dell’idea che la globalizzazione capitalistica fosse un dato ineluttabile e in fin dei conti benefico. Quando Fiat, o i vertici di Alcoa o la famiglia Riva - che hanno ricevuto varie forme di sostegno statale - hanno minacciato di abbandonare l’Italia e investire all’estero, Berlusconi e Monti hanno dato loro man forte sostenendo che un’impresa privata deve esser lasciata libera di trasferirsi dove meglio crede. E non mi risulta che da sinistra si siano levate molte critiche verso questa indiscriminata libertà di spostamento dei capitali. Oppure, quando scopriamo che gli impianti che producono carbone e alluminio in Sardegna sono scarsamente efficienti anche perché risultano in larga misura sottoutilizzati, non mi pare che da sinistra siano giunte proposte per tentare di ridurre un po’ le enormi quantità di questi prodotti che importiamo dalla Cina e dalla Germania. Se si lasciano queste tematiche ai soli movimenti nazionalpopulisti si commette un grave errore di prospettiva.
D. Quello che molti affermano è che il protezionismo provoca danni economici, pericolosi nazionalismi e persino guerre.
R. E’ un convincimento tanto diffuso quanto privo di evidenze. Il premio Nobel per l’Economia Paul Samuelson, che non era un protezionista, ci ha spiegato che in presenza di disoccupazione il libero scambio crea problemi, non vantaggi. E l’economista di Harvard Dani Rodrik ci ricorda che negli anni Cinquanta e Sessanta sussistevano numerosi controlli sui movimenti di capitali e di merci, eppure lo sviluppo, l’occupazione e la distribuzione del reddito erano molto migliori di oggi, anche perché quei controlli permettevano ai singoli stati di perseguire obiettivi interni, occupazionali e distributivi. Si potrebbe anche ricordare che la massima liberalizzazione dei movimenti internazionali dei capitali fu raggiunta esattamente alla vigilia della prima guerra mondiale. E’ dunque proprio un incondizionato liberoscambismo, soprattutto in tempi di gravissima crisi economica, che rischia di alimentare le peggiori pulsioni nazionaliste.
D. Lei arriva anche ad argomentare che una minaccia “neo-protezionista” da parte dei paesi del Sud Europa potrebbe contribuire a salvare l’unità europea. Sembra un paradosso. Ci spiega meglio?
R. L’Europa può ritrovare coesione interna solo se mette un freno alla competizione salariale al ribasso e attiva un “motore interno” dello sviluppo economico e sociale. Per adesso, tuttavia, ci stiamo muovendo in direzione contraria. La Germania ha imposto ai paesi periferici della zona euro una ricetta a base di depressione, disoccupazione e fallimenti aziendali. La stessa Banca centrale europea segue questa linea: è disposta a difendere i paesi periferici dalla speculazione solo a condizione che questi comprimano ulteriormente la spesa pubblica e il costo del lavoro e si dispongano a vendere i capitali nazionali, incluse le banche. Questa violenta ristrutturazione a guida tedesca trasformerà vaste aree del Sud Europa in deserti produttivi, destinati solo a fornire manodopera a buon mercato alle aree più forti. I gruppi d’interesse prevalenti in Germania sanno che questi processi potrebbero scatenare tensioni tali da indurre i paesi del Sud ad abbandonare l’euro, ma questa eventualità non li spaventa. L’unica vera paura dei tedeschi è che con la moneta unica salti anche il mercato unico europeo, sul quale si fonda la loro egemonia: cioè temono che i paesi del Sud introducano limiti alla libera circolazione dei capitali e delle merci in Europa. In Francia si discute da tempo di opzioni simili, ma il governo socialista non sembra disposto a esplicitare una minaccia protezionista. In Italia, per evitare tentazioni, abbiamo addirittura messo un irriducibile liberoscambista ai vertici del governo. La crisi però avanza, i nodi verranno al pettine. Se la sinistra insiste con il suo liberoscambismo acritico, a scioglierli verranno chiamate forze completamente estranee alla tradizione del movimento dei lavoratori.
* Intervista apparsa sul quotidiano PUBBLICO del 20 ottobre 2012. Intervista di Marco Berlinguer
4 commenti:
Anonimo Demetrio
Portare avanti l'economia in modo da non causare disastri catastrofici, è come condurre un'automobile: bisogna guidare "a vista". Non si può, a meno che non si voglia portare il veicolo nel fosso o contro un palo, impostare sterzo e comandi vari in modo fisso e via. Quando l'economia va male in un paese, se non si vuole mandare lo stato e la Nazione alla malora, occorre saper introdurre le opportune correzioni di rotta e non bisogna cedere alla tentazione di mollare il volante per cederlo a qualche"esperto" presuntuoso quanto malfido. Il liberoscambismo acritico di cui pare essersi innamorata certa sinistra dopo il 1989, si é rivelato pernicioso sia per il popolo come per lo stato. Introdurre una opportuna dose di protezionismo e, soprattutto, ritornare alla sovranità monetaria, sarebbero ricette da applicare con urgenza. E basta con gli "specialisti" made in G.S.: lo si dovrebbe aver previsto fin da subito che si sarebbe finiti con lo schiantarsi fuori strada.
Se si fa combattere un welter con un peso massimo e qualcuno dice "non si può, bisogna rispettare le regole" cosa rispondi? Gli dai del protezionista? Ma non scherziamo!
E' esattamente quello che è inesorabilmente successo in trent'anni, dal divorzio democristiano-piddino della politica dalla moneta in poi. Un divorzio a metà, perchè tutta la parte fiscale, repressiva, la si è lasciata con sadico gusto alla politica, o meglio al suo ectoplasma visto che è morta contestualmente al divorzio di Andreatta.
Il grossolano disegno della finanza franco-tedesca sotto l'egida anglo-americana è stato criminale fin dal principio, ma mai come quello dei collaboratori italiani, da Prodi a Napolitano, che lo hanno reso possibile.
Oggi D'Alema si vuol dedicare al "pensatoio clintoniano" come coronamento di una carriera dedicata alla causa del tradimento allo stato più puro, quello delle proprie radici. Degno figlio di Machiavelli, che ha superato il padre.
Alberto Conti
Anonimo Geremia
La parabola del welter e del peso massimo andrebbe chiosata meglio ad usum populi. Immagino che il peso massimo sia la Cina, ma potrei sbagliarmi. Forse l'Unione Europea era nata con buone intenzioni ma è finita per cadere totalmente in mano a Wall Street (Germania compresa) che la vuole evidentemente cadaverizzare o in un modo o nell'altro (l'Euro dava un fastidio maledetto al dollaro). In quanto alla politica delle privatizzazioni e dello smantellamento dell'industria Italiana é stato un suicidio che per i risultati perniciosi a cui ha portato squalifica totalmente tutti i politici che l'hanno portata avanti (siano essi di sinistra che di destra). Lo Stato dovrebbe avere la sua funzione anche in regime di imperialismo mercatistico. Per ora, protezionismo cum granu salis e sovranità monetaria potrebbero essere di qualche sollievo perchè ormai la situazione é disperata come suppongo appaia evidente a tutti. Tuttavia è da dire che il ritorno alla sovranità monetaria sarà osteggiato a morte dal Sistema.
La parabola pugilistica nelle mie intenzioni era più riferita alle regole di Maastricht che hanno imposto, sulla scia del WTO in mano alle corporation, la "libera" circolazione di merci, servizi, capitali, senza contrappesi. E' di oggi l'allarme disperato dei produttori europei di fotovoltaico che accusano la Cina di dumping.
In questo disastro d'Europa il peso massimo è indubbiamente la Germania con qualche relativo satellite.
"la nostra permanenza nell'euro non è sostenibile a causa del dover condividere la stessa moneta dei tedeschi senza averne gli stessi "fondamentali". E' questo che sta uccidendo la nostra economia... Il resto è conversazione." (Parola del trader Giuseppe Migliorino).
Le regole mancanti, quelle che distinguono le categorie competitive, sono nell'assenza totale di un Europa politica, visto che evidentemente non interessava alle oligarchie dominanti della finanza, anzi, avrebbe danneggiato l'interesse del capitale franco-tedesco, che come tutti i big quando gli occorre lo sa fare eccome il "protezionismo" a proprio favore. Quanto agli USA più che paura l'euro ha fatto comodo, prima come alterego del dollaro per supportarne l'espansione, ed ora come capro espiatorio della bolla pronta a scoppiare.
Per questo abbiamo non uno, ma due problemi che si sovrappongono, nello stesso segno della truffa.
Alberto Conti
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