Shoah e libertà di pensiero
di Massimo Fini
Durante il Convegno è rispuntata fuori una ricorrente proposta del presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici: rendere il negazionismo un reato. Cioè chi, a parole o negli scritti, nega o ridimensiona l'Olocausto va in galera. Argomenta Pacifici: “Distinguiamo fra diritto di opinione e negazionismo. Affermare in una casa privata che l'Olocausto non sia mai avvenuto può essere un gesto stupido, immensamente riprovevole e simile a chi sostiene che la Terra è piatta. Ma credo non si possa più concedere il diritto di alzarsi in piedi in un'aula parlamentare, in un'università, in un luogo pubblico in cui si formano le coscienze e dire che la Shoah è stata un'invenzione. La legge riguarderebbe questo ambito”.
Ringraziamo Pacifici perché ci concede almeno di dire in casa nostra quel che pensiamo. Ancora un passo e si arriverebbe al reato di "puro pensiero" ipotizzato da Orwell nel suo 1984: certe cose non solo non si possono dire, ma nemmeno pensare.
Non capisco come Pacifici e coloro che seguono la sua linea non si rendano conto che la legge che propongono è una norma liberticida, totalitaria, in tutto e per tutto degna proprio di quello Stato fascista che emanò le ripugnanti leggi razziali. In una democrazia, se vuole esser tale, tutte le opinioni, anche quelle che paiono più aberranti al senso comune, devono avere diritto di cittadinanza. È il prezzo che la democrazia paga a se stessa. Ciò che la distingue da uno Stato totalitario o quantomeno autoritario.
Intaccare, anche con le migliori intenzioni, un principio come quello della libertà di espressione oltre che ingiusto è estremamente pericoloso . Perché si sa da dove si inizia, ma non si sa mai dove si può andare a finire. Si comincia con cose apparentemente indiscutibili, perché condivise ampiamente dalla communis opinio, e si finisce col mandare gli ebrei nelle camere a gas. Inoltre – ma questo è solo un argomento a latere – una legge come quella proposta da Riccardo Pacifici sarebbe controproducente, perché finirebbe per fare dei "negazionisti" dei martiri e dare loro una rilevanza e un'importanza che attualmente non hanno.
Di questi pericoli sembra rendersi conto Tobia Zevi, il nipote di Tullia, che propone una soluzione diversa.“Forse sarebbe più utile immaginare sanzioni amministrative che vietino di assumere posizioni negazioniste nell'esercizio dell'insegnamento nelle scuole o nelle università”. Insomma agli storici che hanno idee negazioniste dovrebbe essere impedito di insegnare e quelli che già lo fanno, come il professor Claudio Moffa dell'Università di Teramo, dovrebbero essere esulati come lo furono i tredici docenti che si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo. Al giovane Tobia Zevi sfugge, credo in totale buona fede, che i "provvedimenti amministrativi" da lui proposti ledono un altro diritto fondamentale: quello alla ricerca. Premesso che, per quel che mi riguarda, non ha nessuna importanza se gli ebrei sterminati furono quattro milioni invece che sei, uno studioso ha diritto di fare anche, e forse soprattutto, ricerche che vadano contro la communis opinio per gli stessi motivi per cui ogni cittadino ha diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero come recita la Costituzione all'articolo 21.
Pacifici quando dice che le posizioni negazioniste sono simili a quelle di “chi sostiene che la Terra è piatta”, non si rende conto che Galileo, ai tempi suoi, era un "negazionista", perché negava ciò in cui allora tutti, o quasi, credevano: che la Terra fosse piatta e che fosse il sole a girarle attorno. Non voglio, con ciò, paragonare un genio come Galileo ai cialtroni negazionisti. Ma il principio è lo stesso. E la memoria dovrebbe servire non solo a ricordare lo sterminio degli ebrei, ma a evitare di ripetere, in un contesto diverso e mutato, oltre agli orrori, anche gli stessi errori del passato.
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