Dopo la Tunisia anche in Algeria: i giovani in prima linea |
di Alberto Negri*
Oltre l'altura dov'è arroccata la Casbah inizia Bab el Oued, la Porta del Fiume, ventre e cuore di Algeri. Tutto è cominciato qui, dalla rivolta anticoloniale contro i francesi nel '54 all'ascesa degli integralisti negli anni Ottanta e Novanta, all'ultima ribellione giovanile di questi giorni.
Dai tavoli del Café Esplanade si controlla l'incrocio dove Gillo Pontecorvo girò una delle scene più famose della "Battaglia di Algeri". È in questo angolo fatale della Ville Blanche, investito dalle brezze marine, che sono iniziati gli scontri per i rincari dei beni primari dilagati poi in tutti i maggiori centri del paese.
Algeri adesso cerca di esorcizzare la paura di un ritorno agli anni di piombo, alle battaglie a colpi di attentati e teste mozzate tra islamici e forze di sicurezza, una tragedia mediterranea che si svolse a porte chiuse definita quasi subito una guerre sale, una guerra sporca, con un bilancio terrificante: 200mila morti, 15mila desaparecidos, 30mila vedove, 50mila orfani. «Andavamo in redazione con la paura nello stomaco», ricorda al telefono Omar Belhoucet, direttore del quotidiano Watan, che sfuggì per un soffio a un attentato: in Algeria furono uccisi 94 giornalisti.
«La generazione di oggi di Bab el Oued - osserva Belhoucet - ha molti punti in comune con quella che diede il via alla rivolta del couscous nell'88». Sono gli hittistes, letteralmente "i ragazzi attaccati al muro", legioni di candidati a una pericolosa marginalità che ogni giorno, inchiodati nelle strade e nei caffè a una perenne attesa senza speranza, aspettano un qualunque lavoro o una dritta per ottenere un visto verso la Francia e l'Europa. Allora questi ragazzi erano la massa di manovra del Fis, il Fronte islamico che stava per scalzare alle elezioni l'Fnl, l'ex partito unico, portabandiera di un dirigismo di ferro fallimentare. Il Muro di Algeri stava crollando, prima ancora di quello orientale, per dare il via al golpe dei generali del gennaio '92.
La nuova generazione di disoccupati - il tasso reale dei ventenni senza lavoro è del 40% - è ancora un esercito ma questa volta i leader integralisti in djellaba sembrano avere meno presa di un tempo. Almeno così si augurano i laici, già contrariati dal fatto che lo stato ha dato spazio agli islamici per cooptarli nel sistema con la politica di riconciliazione nazionale voluta dal presidente Abdelaziz Bouteflika.
Anche oggi il punto debole dei regimi nordafricani è quello di non offrire alternative economiche e politiche, con elezioni senza democrazia e diseguaglianze eclatanti. L'economia informale del trabendo, il contrabbando, non basta, l'edilizia fornisce occupazione solo a breve termine e persino gli investitori pubblici, per risparmiare, ricorrono a manodopera cinese. Due algerini su tre hanno meno di trent'anni, Bouteflika a 25 era già ministro degli Esteri ma vedere un giovane ai vertici del governo è impensabile. Il presidente ha 74 anni, il suo mandato scadrà nel 2014 e di successione non si parla. La stessa età del leader tunisino Ben Alì al potere dal 1987, pure lui alle prese con un malcontento angosciante: in Tunisia i laureati disoccupati si suicidano per protesta. In Algeria i diplomati, che nella generazione precedente ingrossarono il movimento islamico, sono ancora più inferociti: non ammettono di non trovare un'occupazione in un paese ricco di gas e petrolio che sbandiera faraonici programmi di sviluppo.
E l'Europa? Noi stiamo assistendo ancora una volta alla crisi dei nostri "vicini distanti" chiudendo le frontiere all'emigrazione della sponda sud, un po' troppo compiacenti nei confronti di regimi esausti, come accusa - riferendosi a Francia e Italia - lo scrittore Tahar Ben Jelloun, in questo contestato dal ministro Frattini. Con l'illusione, peraltro sempre più pallida, di osservare da spettatori le nuove battaglie sociali del Maghreb. Ma anche la fortezza Europa, come sappiamo, è avvolta da una ragnatela di crepe».
* Fonte: Il Sole 24 Ore del 9 gennaio
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