Carniti, contesta l'accordo, pur difendendo l'idea di un sindacato concertativo e la tesi che le "regole" della globalizzazione sono intagibili |
Pierre Carniti
«Non avrei firmato nemmeno io»
di Maurizio Fratta
A Pierre Carniti (che non è certo un sindacalista anticapitalista), pubblicando su questo blog suoi articoli nei mesi passati [1], avevamo riconosciuto lucidità di analisi ed onestà intellettuale per quel che aveva scritto sul "caso Fiat". Anzi ci era parso che la radicalità del suo giudizio negativo, a partire dalla vicenda di Pomigliano, non avesse confronti possibili con il giudizio di qualsiasi altro sindacalista in servizio permanente effettivo, che fosse oppure no.
Basti pensare all' invito ad andare a lavorare per qualche ora in una catena di montaggio, da lui rivolto a politici e padroni, oppure al fatto che quando la sopraffazione in fabbrica prende la forma di un diktat anche sabotare la produzione -per Carniti- può diventare
legittimo. Ritorniamo a pubblicare quanto scrive in un saggio dal titolo "La Fiat, la globalizzazione, il lavoro". Del testo riportiamo ancora altre considerazioni sulla vicenda della Fiat che a noi paiono significative ed utili per fornire ai nostri lettori un quadro più ampio di riflessione.
«Per avere mano libera nella determinazione delle relazioni industriali e delle condizioni di lavoro dei propri dipendenti, la Fiat si e' sfilata dal contratto nazionale dei metalmeccanici.
Nei fatti pero' questo accorgimento dovrebbe rilevarsi insufficiente. In effetti, per dare piena attuazione ad alcune delle norme previste per lo stabilimento di Pomigliano e per quello di
Mirafiori dovrebbe poter uscire anche dall' ordinamento giuridico in atto».
«Diverse clausole della normativa proposta -continua Carniti- (basta pensare a quelle relative alla formazione della rappresentanza sindacale, al diritto di sciopero, alla riscossione dei diritti sindacali,ecc) sono infatti, nella lettera e nella sostanza, in contrasto con le disposizioni del titolo II e III della legge 300 e con una giurisprudenza costante in materia.
Questo spiega perché altre aziende, che pure vorrebbero seguire lo stesso percorso della Fiat,mantengano per ora un atteggiamento circospetto di prudente attesa».
"Intanto, quel che resta del movimento sindacale unitario si e' lacerato definitivamente tra accondiscendenti e ricusanti delle pretese esigenze di competitività a cui il gruppo automobilistico ha unilateralmente subordinato le proprie disponibilità agli investimenti
indispensabili per la prosecuzione (pro tempore) dell'attività produttiva anche in alcuni degli stabilimenti italiani. Credo di poter dire che la vicenda Fiat, indipendentemente dalle
circostanze e dagli specifici avvenimenti che l'hanno portata agli onori della ribalta, appare emblematica di una "globalizzazione", intesa soprattutto come disordine e caos e delle conseguenze che questa dinamica ha prodotto sul lavoro.
Ma proprio per questo, più che prefigurare soluzioni da generalizzare, la situazione che si e' determinata nel gruppo automobilistico dovrebbe indurre a riflettere su alcune questioni.
Innanzitutto ci si dovrebbe chiedere se (sulla base della cultura europea, o di quel che ne resta) sia possibile governare rapporti di lavoro in una grande azienda solo sulla base di un assenso formale alle decisioni degli amministratori, non fondato su un consenso reale.
Per altro, anche ammesso che con il tempo l'acquiescenza di oggi dei lavoratori, indotta anche dalla mancanza di alternative, si possa trasformare in pieno accordo (come a volte succede nei matrimoni di convenienza) difficilmente la Fiat potrà considerare risolti i suoi
problemi.
Intanto perché le nuove forme che ora verrebbero introdotte, legate alla previsione di utilizzare gli impianti al sabato e pure la domenica, consentono sicuramente di sfruttare meglio il capitale fisso.
Tuttavia, per raggiungere anche una maggiore redditività, andrebbe anche aumentato il valore del prodotto per ora lavorata. Dove il valore e' dato non solo dal numero dei pezzi, ma pure dal prezzo al quale possono essere venduti. E quest'ultimo, per dirla con Massimo Muchetti," dipende non solo dalle braccia, ma dal cervello".
Questo significa che se c'è un ciclo produttivo da riorganizzare, c'è soprattutto bisogno di modelli innovativi.Perché le auto non basta farle. Poi bisogna anche poterle vendere.
E senza una intelligenza progettuale in continuo aggiornamento non si va da nessuna parte.
L'esempio dei produttori tedeschi di auto (che riescono a garantire ragionevoli profitti, alti salari, orari tollerabili, e un sistema di relazioni industriali tra i più avanzati in Europa), dovrebbe pure insegnare qualcosa anche ai manager Fiat. Pensare come sembra credere
l'amministratore delegato (sostenuto dall' adesione encomiastica di alcuni commentatori e ministri) che il recupero di competitività riguardi essenzialmente il fattore lavoro e non anche la capacità innovativa del fattore imprenditoriale, e' una visione dei problemi contraddetta non solo dai gruppi automobilistici tedeschi, ma anche francesi e persino americani. Basti pensare alla Ford.
C'è poi un'altra questione essenziale. Aldilà delle chiacchiere l'effetto della globalizzazione (almeno nel breve e nel medio periodo) comporta la perdita di una parte del benessere dei paesi opulenti (quindi inclusa l'Italia, malgrado tutti i suoi problemi) in favore di
paesi che da meno tempo hanno imboccato la via della crescita e dello sviluppo.
E' una situazione che genera tensioni perché la perdita di lavoro (e di benessere) non riguarda in misura omogenea l'insieme dei paesi di antica accumulazione di ricchezza, ma riguarda una parte significativa della loro popolazione. In particolare quella occupata nella industria ed in determinati servizi.
Ma soprattutto i giovani, i precari, le fasce deboli ed i territori con minori insediamenti produttivi.
A tale proposito, il punto che non può essere offuscato e' che parte dell'industria dell'automobile è in crisi perché ne vengono prodotte troppe.
Ma anche perché, a causa della crisi, la domanda ristagna. La conseguenza da trarre e' che occorre accrescere la competitività per difendere e conquistare quote di mercato.
Bisogna anche prendere coscienza che l'inevitabile perdita di benessere da parte di molti lavoratori coinvolti nella riorganizzazione e nella ristrutturazione andrebbe compensata.
Non solo con efficaci misure di protezione del reddito, ma anche con un loro diretto e reale coinvolgimento nella determinazione e nel controllo dei processi in atto. In particolare con riconosciuteconcrete possibilità di interagirvi.
A cominciare dalla ripartizione del reddito, ma anche del lavoro. Per offrire una concreta possibilità di occupazione a quanti, iniziando da giovani, vorrebbero lavorare, ma non hanno alcuna concreta possibilitàdi poterlo fare.
Questa per il sindacato appare come l'ultima trincea prima della irrilevanza.
Prospettiva che non mette al riparo nessuno.
Ne' quanti si definiscono riformisti, così come quelli che si ritengono invece radicali».
Pierre Carniti, Roma 8 gennaio 2011
Fonte: blog libertas sindacale
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