QUELLA IN FIAT È UNA PARTITA POLITICA
c'è di mezzo la via per uscire dalla crisi
di Marco Sferini
«Oggigiorno troviamo esponenti della sinistra, persino della sinistra cosiddetta “radicale”, che in maniera preanalitica, oserei dire istintiva, etichettano il protezionismo e persino il controllo dei movimenti di capitale come politiche “nazionaliste”, “reazionarie” e “di destra”. Questi “comunisti liberoscambisti”, come talvolta provocatoriamente li ho definiti, alimentano un equivoco colossale che stiamo pagando carissimo, poiché esso ci sta impedendo di delineare un autonomo punto di vista del lavoro nel dibattito interno agli assetti del capitale, tra fautori del protezionismo e difensori del libero scambio».
D. Stiamo assistendo a una precipitazione della vicenda FIAT e a un inasprimento del conflitto tra i sostenitori e gli oppositori della linea portata avanti dai vertici del gruppo. Qual è secondo lei l’incidenza della crisi economica sulle scelte operate da Marchionne?
R. La crisi ha rappresentato un acceleratore dei piani di Marchionne. La grande recessione esplosa nel 2008 ha indotto l’amministratore delegato di FIAT ad attuare in termini molto più repentini e dolorosi un programma di ristrutturazione che egli probabilmente coltivava già da tempo, e che in buona sostanza dipende dalla fragile posizione di FIAT all’interno di un mercato automobilistico in profonda transizione. Il punto da comprendere è che in molte branche del manifatturiero, e in particolar modo nel settore automobilistico, registriamo da tempo un eccesso di capacità produttiva a livello mondiale. Conseguenza di questo eccesso è quella che Marx definiva una tendenza alla centralizzazione dei capitali. Le imprese relativamente più forti si riorganizzano, si ristrutturano e tendono ad assorbire o a mettere fuori mercato le imprese più deboli. Si tratta di una tendenza di lungo periodo, che tuttavia ha subìto una accelerazione a seguito della crisi. Gli effetti della precipitosa e violenta ristrutturazione in corso si possono a grandi linee già prevedere. Le imprese del settore automobilistico che resteranno sul mercato saranno molte meno delle attuali. Attualmente contiamo quindici grandi players operanti sui quattro principali mercati mondiali dell’auto.
R. La crisi ha rappresentato un acceleratore dei piani di Marchionne. La grande recessione esplosa nel 2008 ha indotto l’amministratore delegato di FIAT ad attuare in termini molto più repentini e dolorosi un programma di ristrutturazione che egli probabilmente coltivava già da tempo, e che in buona sostanza dipende dalla fragile posizione di FIAT all’interno di un mercato automobilistico in profonda transizione. Il punto da comprendere è che in molte branche del manifatturiero, e in particolar modo nel settore automobilistico, registriamo da tempo un eccesso di capacità produttiva a livello mondiale. Conseguenza di questo eccesso è quella che Marx definiva una tendenza alla centralizzazione dei capitali. Le imprese relativamente più forti si riorganizzano, si ristrutturano e tendono ad assorbire o a mettere fuori mercato le imprese più deboli. Si tratta di una tendenza di lungo periodo, che tuttavia ha subìto una accelerazione a seguito della crisi. Gli effetti della precipitosa e violenta ristrutturazione in corso si possono a grandi linee già prevedere. Le imprese del settore automobilistico che resteranno sul mercato saranno molte meno delle attuali. Attualmente contiamo quindici grandi players operanti sui quattro principali mercati mondiali dell’auto.
Un recente studio della Deloitte prevede che in meno di un decennio cinque gruppi usciranno dal mercato o saranno assorbiti. Ne resteranno quindi soltanto dieci che si spartiranno il 90% del mercato globale. Altre ricerche sono persino più pessimistiche, prevedendo la sopravvivenza di appena sei gruppi automobilistici. In questo scenario altamente conflittuale la FIAT è un attore relativamente debole che sconta una fragilità intrinseca, dovuta a una struttura industriale obsoleta e a scarsi investimenti in ricerca e sviluppo. La strategia di Marchionne sembra prendere atto passivamente della debolezza di FIAT. Basti pensare che egli non parla quasi mai di nuovi modelli. La sua linea d’azione si concentra pressoché esclusivamente sull’obiettivo di minacciare le delocalizzazioni degli impianti in quei paesi in cui egli può ottenere ingenti sussidi pubblici oppure mani libere per liquidare definitivamente i sindacati non compiacenti, intensificare i ritmi produttivi e abbattere i costi unitari del lavoro. Non sto qui a dire se Marchionne abbia delle alternative e se quindi sia un capitalista “buono” o “cattivo”. Lo trovo un esercizio abusato ed inutile, che nulla ha a che fare con un serio metodo di analisi storico-materialista. Possiamo tuttavia tranquillamente affermare che la sua è una strategia da comprimario nel grande risiko capitalistico in atto, ed è anche per questo che essa risulta particolarmente aggressiva nei confronti dei lavoratori.
In effetti la stretta di Marchionne sulle condizioni lavorative negli stabilimenti della FIAT introduce una “rivoluzione” vera e propria nelle relazioni industriali nazionali. La risposta a questa impostazione può essere lo sciopero generale?
Esaminando i termini degli accordi che la FIAT ha preso con CISL e UIL e con il beneplacito del governo Berlusconi, direi che siamo di fronte a una “repressione rivoluzionaria”. Nel momento in cui si disintegrano le relazioni che ruotano intorno al contratto nazionale e si giunge al punto di escludere dalla rappresentanza i sindacati che non firmano le intese, è chiaro che ci troviamo al cospetto di un attacco “basico”, che agisce alle fondamenta, e che pertanto si configura come un attacco intrinsecamente politico al già largamente compromesso sistema di relazioni industriali che avevamo ereditato dagli anni ‘70. Mi sembra dunque logico che da più parti si invochi lo sciopero generale, vale a dire uno sciopero che metta in luce il carattere politico della contesa che si sta giocando intorno alla FIAT. Tuttavia, detto questo, a me pare francamente che si fatichi molto a dare a un eventuale sciopero generale una precisa connotazione politica, e di politica economica. Eppure nel tempo della crisi i lavoratori percepiscono che la mera prova muscolare e di piazza contro Marchionne e i suoi sostenitori può rivelarsi del tutto insufficiente, anche qualora andasse benissimo in termini di numerosità dei partecipanti.
In effetti la stretta di Marchionne sulle condizioni lavorative negli stabilimenti della FIAT introduce una “rivoluzione” vera e propria nelle relazioni industriali nazionali. La risposta a questa impostazione può essere lo sciopero generale?
Esaminando i termini degli accordi che la FIAT ha preso con CISL e UIL e con il beneplacito del governo Berlusconi, direi che siamo di fronte a una “repressione rivoluzionaria”. Nel momento in cui si disintegrano le relazioni che ruotano intorno al contratto nazionale e si giunge al punto di escludere dalla rappresentanza i sindacati che non firmano le intese, è chiaro che ci troviamo al cospetto di un attacco “basico”, che agisce alle fondamenta, e che pertanto si configura come un attacco intrinsecamente politico al già largamente compromesso sistema di relazioni industriali che avevamo ereditato dagli anni ‘70. Mi sembra dunque logico che da più parti si invochi lo sciopero generale, vale a dire uno sciopero che metta in luce il carattere politico della contesa che si sta giocando intorno alla FIAT. Tuttavia, detto questo, a me pare francamente che si fatichi molto a dare a un eventuale sciopero generale una precisa connotazione politica, e di politica economica. Eppure nel tempo della crisi i lavoratori percepiscono che la mera prova muscolare e di piazza contro Marchionne e i suoi sostenitori può rivelarsi del tutto insufficiente, anche qualora andasse benissimo in termini di numerosità dei partecipanti.
Coloro che hanno mantenuto un saldo legame politico-culturale con l’esperienza novecentesca del movimento operaio sono consapevoli del fatto che ci troviamo nel mezzo di una “congiuntura storica”, che per ragioni costitutive non può essere mai affrontata tramite azioni di taglio puramente rivendicativo, sia pure ispirate ad altissimi principii etici. Piuttosto, bisognerebbe riunire le forze attorno a un preciso “punto di vista del lavoro” sulla crisi dell’accumulazione capitalistica e sulle concrete misure per farvi fronte. Può farsi che mi sia distratto, ma mi sembra che anche dagli interventi degli intellettuali più illuminati e storicamente più vicini al movimento dei lavoratori emergano preziosi frammenti di verità, ma mai una risposta generale e concreta alla domanda che urge: “che fare?”.
Ma allora, che tipo di proposta di politica economica è possibile fare, nel concreto, per impedire un ulteriore tracollo dei diritti sociali e per fissare le basi per un rilancio del movimento dei lavoratori?
La mia tesi è abbastanza nota. Tutti gli eredi della tradizione del movimento operaio, siano essi di ispirazione socialista o comunista, dovrebbero sottoporre a revisione quel liberoscambismo acritico, talvolta persino apologetico, che soprattutto a partire dalla caduta del Muro di Berlino ha più o meno consapevolmente plasmato la loro visione e ha drammaticamente limitato la loro azione politica. Le cause di questa sudditanza verso il dogma liberista della totale apertura dei mercati sono tante, di ordine sia teorico che pratico: da una lettura ingenua del Marx del 1848 alla incapacità di sottrarsi a un compromesso sempre più al ribasso con quel capitalismo finanziario che in questi anni ha più tenacemente sostenuto il paradigma del libero scambio. Non è questa ovviamente la sede per approfondire le determinanti di un simile orientamento. Mi limito qui a evidenziarne le conseguenze: oggigiorno troviamo esponenti della sinistra, persino della sinistra cosiddetta “radicale”, che in maniera preanalitica, oserei dire istintiva, etichettano il protezionismo e persino il controllo dei movimenti di capitale come politiche “nazionaliste”, “reazionarie” e “di destra”. Questi “comunisti liberoscambisti”, come talvolta provocatoriamente li ho definiti, alimentano un equivoco colossale che stiamo pagando carissimo, poiché esso ci sta impedendo di delineare un autonomo punto di vista del lavoro nel dibattito interno agli assetti del capitale, tra fautori del protezionismo e difensori del libero scambio. Un dibattito che è pienamente in corso e che sta cambiando i meccanismi dell’accumulazione capitalistica, come dimostrano i numeri: ben 332 nuove misure protezionistiche intraprese negli ultimi due anni un po’ in tutto il mondo tranne che in Europa, guarda caso. Personalmente ritengo che se esisterà davvero una chance per la costruzione di un nuovo movimento dei lavoratori, questa dovrà necessariamente passare per una critica dell’apertura indiscriminata dei mercati. Se questa critica non verrà alla luce, una politica alternativa non potrà mai prodursi e la “guerra mondiale tra lavoratori” tenderà inesorabilmente a intensificarsi.
Esiste un modo per legare eventi popolari e di massa come uno sciopero generale alla questione della critica alla dottrina del libero scambio? E’ possibile cioè ritrovare un legame fra la teoria e la prassi politica?
Non solo è possibile, ma credo sia urgente. Quando Marchionne ha fatto della minaccia di delocalizzazione la sua arma “di ultima istanza” nel confronto che si accingeva ad aprire con il sindacato, Berlusconi lo ha repentinamente appoggiato sostenendo che «in una libera economia e in un libero Stato, un gruppo industriale è libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione». Ebbene, è alquanto sintomatico nessuna forza politica o sindacale abbia indicato una chiara alternativa a questa netta presa di posizione del presidente del Consiglio. Se allora, per esempio, da uno sciopero generale facesse capolino la parola d’ordine secondo cui “un gruppo industriale NON deve esser libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione”, direi che avremmo già fatto un passo nella giusta direzione.
Nella “Lettera degli economisti” pubblicata nel giugno scorso, lei e gli altri 250 studiosi firmatari avete anche evocato il pericolo di una speculazione internazionale in grado di destabilizzare l’intera zona euro e di aprire la strada a nuove politiche di soppressione dei diritti sociali. La critica dell’apertura dei mercati riguarda anche il problema dei movimenti speculativi di capitale?
Assolutamente sì. La questione non attiene solo ai movimenti di capitale fisico e alla connessa localizzazione degli impianti industriali. Il problema è di ordine generale, e quindi riguarda tutti i tipi di movimenti di capitale, a partire da quelli finanziari. Mi permetto a questo proposito di rivolgere una sommessa domanda a Bersani, Vendola, Diliberto, Ferrero, Camusso, Landini, e agli altri leader eredi più o meno diretti della tradizione del movimento operaio: se nei prossimi mesi dovesse partire un attacco speculativo contro i titoli italiani, quale sarebbe la proposta politica delle forze di sinistra? Si adeguerebbero alla prassi finora prevalente in Europa, basata su strette di bilancio, abbattimento ulteriore dei salari e dei diritti e massicce privatizzazioni in cambio di liquidità a breve? Accetterebbero in altri termini di subire passivamente gli effetti di una versione ancor più feroce della crisi valutaria del 1992? O sarebbero piuttosto in grado di evidenziare che l’assetto rigidamente liberoscambista della Unione monetaria europea è palesemente insostenibile, e che dunque non si può restare al suo interno senza un profondo mutamento del medesimo? Spero che a questo interrogativo non si debba mai rispondere. Ma semmai venisse il tempo, sarebbe bene non trovarsi impreparati. Sarebbe bene chiarire fin d’ora che abbiamo bisogno di elevare un argine contro le speculazioni finanziarie e le delocalizzazioni industriali.
31 Dicembre 2010
Ma allora, che tipo di proposta di politica economica è possibile fare, nel concreto, per impedire un ulteriore tracollo dei diritti sociali e per fissare le basi per un rilancio del movimento dei lavoratori?
La mia tesi è abbastanza nota. Tutti gli eredi della tradizione del movimento operaio, siano essi di ispirazione socialista o comunista, dovrebbero sottoporre a revisione quel liberoscambismo acritico, talvolta persino apologetico, che soprattutto a partire dalla caduta del Muro di Berlino ha più o meno consapevolmente plasmato la loro visione e ha drammaticamente limitato la loro azione politica. Le cause di questa sudditanza verso il dogma liberista della totale apertura dei mercati sono tante, di ordine sia teorico che pratico: da una lettura ingenua del Marx del 1848 alla incapacità di sottrarsi a un compromesso sempre più al ribasso con quel capitalismo finanziario che in questi anni ha più tenacemente sostenuto il paradigma del libero scambio. Non è questa ovviamente la sede per approfondire le determinanti di un simile orientamento. Mi limito qui a evidenziarne le conseguenze: oggigiorno troviamo esponenti della sinistra, persino della sinistra cosiddetta “radicale”, che in maniera preanalitica, oserei dire istintiva, etichettano il protezionismo e persino il controllo dei movimenti di capitale come politiche “nazionaliste”, “reazionarie” e “di destra”. Questi “comunisti liberoscambisti”, come talvolta provocatoriamente li ho definiti, alimentano un equivoco colossale che stiamo pagando carissimo, poiché esso ci sta impedendo di delineare un autonomo punto di vista del lavoro nel dibattito interno agli assetti del capitale, tra fautori del protezionismo e difensori del libero scambio. Un dibattito che è pienamente in corso e che sta cambiando i meccanismi dell’accumulazione capitalistica, come dimostrano i numeri: ben 332 nuove misure protezionistiche intraprese negli ultimi due anni un po’ in tutto il mondo tranne che in Europa, guarda caso. Personalmente ritengo che se esisterà davvero una chance per la costruzione di un nuovo movimento dei lavoratori, questa dovrà necessariamente passare per una critica dell’apertura indiscriminata dei mercati. Se questa critica non verrà alla luce, una politica alternativa non potrà mai prodursi e la “guerra mondiale tra lavoratori” tenderà inesorabilmente a intensificarsi.
Esiste un modo per legare eventi popolari e di massa come uno sciopero generale alla questione della critica alla dottrina del libero scambio? E’ possibile cioè ritrovare un legame fra la teoria e la prassi politica?
Non solo è possibile, ma credo sia urgente. Quando Marchionne ha fatto della minaccia di delocalizzazione la sua arma “di ultima istanza” nel confronto che si accingeva ad aprire con il sindacato, Berlusconi lo ha repentinamente appoggiato sostenendo che «in una libera economia e in un libero Stato, un gruppo industriale è libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione». Ebbene, è alquanto sintomatico nessuna forza politica o sindacale abbia indicato una chiara alternativa a questa netta presa di posizione del presidente del Consiglio. Se allora, per esempio, da uno sciopero generale facesse capolino la parola d’ordine secondo cui “un gruppo industriale NON deve esser libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione”, direi che avremmo già fatto un passo nella giusta direzione.
Nella “Lettera degli economisti” pubblicata nel giugno scorso, lei e gli altri 250 studiosi firmatari avete anche evocato il pericolo di una speculazione internazionale in grado di destabilizzare l’intera zona euro e di aprire la strada a nuove politiche di soppressione dei diritti sociali. La critica dell’apertura dei mercati riguarda anche il problema dei movimenti speculativi di capitale?
Assolutamente sì. La questione non attiene solo ai movimenti di capitale fisico e alla connessa localizzazione degli impianti industriali. Il problema è di ordine generale, e quindi riguarda tutti i tipi di movimenti di capitale, a partire da quelli finanziari. Mi permetto a questo proposito di rivolgere una sommessa domanda a Bersani, Vendola, Diliberto, Ferrero, Camusso, Landini, e agli altri leader eredi più o meno diretti della tradizione del movimento operaio: se nei prossimi mesi dovesse partire un attacco speculativo contro i titoli italiani, quale sarebbe la proposta politica delle forze di sinistra? Si adeguerebbero alla prassi finora prevalente in Europa, basata su strette di bilancio, abbattimento ulteriore dei salari e dei diritti e massicce privatizzazioni in cambio di liquidità a breve? Accetterebbero in altri termini di subire passivamente gli effetti di una versione ancor più feroce della crisi valutaria del 1992? O sarebbero piuttosto in grado di evidenziare che l’assetto rigidamente liberoscambista della Unione monetaria europea è palesemente insostenibile, e che dunque non si può restare al suo interno senza un profondo mutamento del medesimo? Spero che a questo interrogativo non si debba mai rispondere. Ma semmai venisse il tempo, sarebbe bene non trovarsi impreparati. Sarebbe bene chiarire fin d’ora che abbiamo bisogno di elevare un argine contro le speculazioni finanziarie e le delocalizzazioni industriali.
31 Dicembre 2010
* Emiliano Brancaccio, ricercatore e docente di Economia politica presso l’Università del Sannio, a Benevento. E' stato uno dei firmatari dell'«Appello dei cento economisti» (giugno 2010)
** Fonte: Lanterne Rosse
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