[ mercoledì 18 settembre 2019 ]
La scienza al governo e il governo della scienza
Cosa accade quando la scienza diventa ideologia e viene canonizzata in guisa di articolo di fede? Cosa succede quando ogni critica è stigmatizzata come eresia o apostasia, e su di esse si avventa il Malleus Maleficarum del potere e del suo clero opportunista?
Si presuppone che, nelle moderne democrazie, le istituzioni politiche (parlamenti e governi) siano espressione della volontà della popolazione che, col voto e con altri mezzi di pressione chiede che ne siano rappresentate le diverse istanze.
In genere, si tratta, pur sempre, di una rappresentazione assai imperfetta di quello che il termine “democrazia” dovrebbe indicare, in quanto, i gruppi di potere riescono, in genere, ad orientare l’espressione popolare mediante i mezzi di informazione e, in modo più profondo e persistente, costruendo la cultura dominante (scuola, università, “intellettuali” di riferimento, ecc.).
Tuttavia, negli ultimi anni, questi strumenti di influenza, hanno funzionato in maniera sempre meno efficace. Eh sì, si possono fornire circenses finché si vuole, ma se manca il panem, dopo un po’, i suddetti perdono di credibilità e il popolo si appassiona sempre meno alle loro favole e ai loro spettacoli.
D’altronde, pareva brutto lasciare che i “deplorevoli”, il popolino ignorante si esprimessero contro i desiderata delle élite, riverberati dagli uggiolii del loro clero (giornalisti, accademici, opinion maker de ‘sta ceppa, ecc,).
Era quindi, più che mai, necessario l’uso di alcune “tecnologie governamentali”, ovvero strumenti di governo diversi da quelli che si considerano di pertinenza della sfera politica, e che avessero una maggiore efficacia rispetto al semplice controllo dell’informazione o della creazione di una “cultura dominante”.
Non si potevano abolire con un colpo di spugna tutti i riti delle moderne democrazie costituzionali, in primis le consultazioni elettorali, pertanto era necessario instaurare una sorta di “stato di eccezione” permanente che consentisse di eludere la volontà popolare, ma non avesse (troppo) le sembianze del dispotismo.
La migliore opzione era quella di esercitare “la tecnica di governo attraverso la tecnica”: la tecnocrazia, in modo che la politica fosse sempre assoggettata ad un vicolo esterno, una sorta di “pilota automatico” costituito da algoritmi che possono essere di natura economica, sanitaria, climatica, demografica, ecc. Ovvero introdurre una “ratio”, una misura di credibilità, un criterio di valore che valutasse e, in ultima analisi, assoggettasse la politica ad un “regime di verità” tecnico-scientifica.
Negli ultimi anni si è tentato, con un certo successo, di confezionare questa tecnocrazia mediante il paradigma economicista (in fondo, il capitalismo liberale è costruito su un’ontologia di siffatto genere): tutti ricordano il clima da tregenda che si era instaurato per motivare l’insediamento del governo Monti (il “governo dei tecnici”).
Tuttavia il paradigma economicista ha avuto una vita limitata: tutti gli inganni, prima o poi si disvelano, quindi diviene via via necessario cambiare le “tecniche” adottate.
Naturalmente, questa verità non è altro che un artifizio “governamentale” meramente ideologico: la scienza non è mai “neutra” ma, a propria volta, riflette sempre l’ideologia e i rapporti di forza che danno forma alla società. In questo modo essa contribuisce a creare una certa immagine della realtà determinando l’«orizzonte del possibile», ovvero la realtà che è lecito non solo concepire, ma anche percepire, i confini entro i quali è delimitato il pensiero della cosiddetta «opinione pubblica.
Da qui si capisce l’utilità dell’uso ideologico della scienza, che funziona come tanti altri strumenti di governo «impliciti»: limitando i confini della realtà, per ciò stesso, mantiene il pensiero all’interno recinto della visione del mondo dominante.
Questo uso strumentale della scienza è diventato particolarmente evidente negli ultimi anni: si pensi, ad esempio al ridicolo slogan elettorale apparso nelle ultimi elezioni politiche che recitava testualmente: “Vota la scienza, scegli il PD”. Secondo questa puerile espressione di pensiero magico, esistono forze politiche che seguono “la scienza” e altre che ne sono contro.
Naturalmente la “scienza” in oggetto è quella parodia dogmatica e ideologica di scienza che, in quanto dogma, non può essere messa in discussione e, ben lungi dall’essere criterio veritativo, ha la funzione di censurare ogni dissenso. Ossia, è quanto di più lontano dalla scienza così come è definita dal metodo scientifico. Come osserva il Pedante:
È bene fare quindi un po’ di chiarezza per frenare questo tipo di deriva che sta conducendo alla morte della politica e a quella della scienza come libero metodo di indagine e non come dottrina della fede.
La concezione apodittica di scienza che vediamo espressa nel pubblico dibattito, spesso in forma sensazionalistica, non corrisponde in nulla a ciò che l’epistemologia definisce essere tale. Rappresenta piuttosto una vecchia forma di scientismo positivista di stampo ottocentesco, una sorta di cascame d’altri tempi brandito come uno scettro sulle masse.
La scienza al governo e il governo della scienza
Cosa accade quando la scienza diventa ideologia e viene canonizzata in guisa di articolo di fede? Cosa succede quando ogni critica è stigmatizzata come eresia o apostasia, e su di esse si avventa il Malleus Maleficarum del potere e del suo clero opportunista?
Si presuppone che, nelle moderne democrazie, le istituzioni politiche (parlamenti e governi) siano espressione della volontà della popolazione che, col voto e con altri mezzi di pressione chiede che ne siano rappresentate le diverse istanze.
In genere, si tratta, pur sempre, di una rappresentazione assai imperfetta di quello che il termine “democrazia” dovrebbe indicare, in quanto, i gruppi di potere riescono, in genere, ad orientare l’espressione popolare mediante i mezzi di informazione e, in modo più profondo e persistente, costruendo la cultura dominante (scuola, università, “intellettuali” di riferimento, ecc.).
Tuttavia, negli ultimi anni, questi strumenti di influenza, hanno funzionato in maniera sempre meno efficace. Eh sì, si possono fornire circenses finché si vuole, ma se manca il panem, dopo un po’, i suddetti perdono di credibilità e il popolo si appassiona sempre meno alle loro favole e ai loro spettacoli.
D’altronde, pareva brutto lasciare che i “deplorevoli”, il popolino ignorante si esprimessero contro i desiderata delle élite, riverberati dagli uggiolii del loro clero (giornalisti, accademici, opinion maker de ‘sta ceppa, ecc,).
Era quindi, più che mai, necessario l’uso di alcune “tecnologie governamentali”, ovvero strumenti di governo diversi da quelli che si considerano di pertinenza della sfera politica, e che avessero una maggiore efficacia rispetto al semplice controllo dell’informazione o della creazione di una “cultura dominante”.
Non si potevano abolire con un colpo di spugna tutti i riti delle moderne democrazie costituzionali, in primis le consultazioni elettorali, pertanto era necessario instaurare una sorta di “stato di eccezione” permanente che consentisse di eludere la volontà popolare, ma non avesse (troppo) le sembianze del dispotismo.
La migliore opzione era quella di esercitare “la tecnica di governo attraverso la tecnica”: la tecnocrazia, in modo che la politica fosse sempre assoggettata ad un vicolo esterno, una sorta di “pilota automatico” costituito da algoritmi che possono essere di natura economica, sanitaria, climatica, demografica, ecc. Ovvero introdurre una “ratio”, una misura di credibilità, un criterio di valore che valutasse e, in ultima analisi, assoggettasse la politica ad un “regime di verità” tecnico-scientifica.
Negli ultimi anni si è tentato, con un certo successo, di confezionare questa tecnocrazia mediante il paradigma economicista (in fondo, il capitalismo liberale è costruito su un’ontologia di siffatto genere): tutti ricordano il clima da tregenda che si era instaurato per motivare l’insediamento del governo Monti (il “governo dei tecnici”).
Tuttavia il paradigma economicista ha avuto una vita limitata: tutti gli inganni, prima o poi si disvelano, quindi diviene via via necessario cambiare le “tecniche” adottate.
Naturalmente, questa verità non è altro che un artifizio “governamentale” meramente ideologico: la scienza non è mai “neutra” ma, a propria volta, riflette sempre l’ideologia e i rapporti di forza che danno forma alla società. In questo modo essa contribuisce a creare una certa immagine della realtà determinando l’«orizzonte del possibile», ovvero la realtà che è lecito non solo concepire, ma anche percepire, i confini entro i quali è delimitato il pensiero della cosiddetta «opinione pubblica.
Da qui si capisce l’utilità dell’uso ideologico della scienza, che funziona come tanti altri strumenti di governo «impliciti»: limitando i confini della realtà, per ciò stesso, mantiene il pensiero all’interno recinto della visione del mondo dominante.
Questo uso strumentale della scienza è diventato particolarmente evidente negli ultimi anni: si pensi, ad esempio al ridicolo slogan elettorale apparso nelle ultimi elezioni politiche che recitava testualmente: “Vota la scienza, scegli il PD”. Secondo questa puerile espressione di pensiero magico, esistono forze politiche che seguono “la scienza” e altre che ne sono contro.
Naturalmente la “scienza” in oggetto è quella parodia dogmatica e ideologica di scienza che, in quanto dogma, non può essere messa in discussione e, ben lungi dall’essere criterio veritativo, ha la funzione di censurare ogni dissenso. Ossia, è quanto di più lontano dalla scienza così come è definita dal metodo scientifico. Come osserva il Pedante:
«Oggi non servono grandi sforzi ermeneutici per constatare che le politiche più controverse fondano tutte, in un modo o nell'altro, le proprie ragioni nella presunzione di «evidenze» scientifiche alla cui autorevolezza non ci si può opporre senza apparire retrogradi, nostalgici o superstiziosi. Dalle emergenze del «clima» alle «dure leggi» dell'economia, dal trasferimento in massa di esseri umani da un continente all'altro alla foga di digitalizzare, automatizzare e connettere ogni cosa, dalle nuove teorie pansessuali all'imposizione di protocolli pedagogici e sanitari, ciò che «dice la scienza» è diventato il nuovo «Deus vult», l'ultimo talismano per superare magicamente, in senso ferencziano, le fatiche e i compromessi di una democrazia sempre più mal tollerata dai suoi protagonisti».Il "Patto trasversale per la scienza" sottoscritto da personalità politiche e accademiche ha segnato l'ultimo, grave episodio di questa tendenza. Il tentativo esplicito di impegnare le forze politiche a reprimere tutto ciò che, nell'idea dei proponenti, non è "scientifico", rappresenta un pericolo per il libero avanzamento delle conoscenze e, quindi, per il progresso e la sicurezza di tutti. Il principio di autorità, sempre nemico del metodo scientifico, lo è tanto più se si dota degli strumenti repressivi di uno Stato.
È bene fare quindi un po’ di chiarezza per frenare questo tipo di deriva che sta conducendo alla morte della politica e a quella della scienza come libero metodo di indagine e non come dottrina della fede.
Questo è ciò che si propone di fare l’associazione Eunoè, lanciando un Manifesto per la scienza in cui sono riassunti i suoi principi ispiratori.
* Fonte: frontiere.org
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EUNOÈ MANIFESTO
L'associazione
Eunoè è una associazione di promozione sociale (APS) per lo studio e la divulgazione del ruolo della scienza nelle società complesse. Seguendo l'approccio epistemico post-normale di Funtowicz e Ravetz, Eunoè promuove un riequilibrio tra i risultati della ricerca scientifica e i bisogni materiali, intellettuali e spirituali dei cittadini.
Il problema epistemico
Si può dire che la più importante innovazione nelle strutture della conoscenza, nell’epoca moderna, sia stata la sostituzione della filosofia/teologia con la scienza, come metafora centrale dell’organizzazione della conoscenza. E, soprattutto, la predominanza di uno specifico metodo scientifico (che, semplicisticamente, potremmo definire newtoniano) che ha rivendicato essere l’unica modalità legittima di conoscenza. (Immanuel Wallerstein, in The Age of Transition: Trajectory of the World-System, 1945-2025)
Ma oggi non ha più senso riferirsi alla scienza come un sapere apodittico e riduzionistico. È invece necessario un aggiornamento epistemico di tutte le sue principali categorie fondanti deducibili dalla complessità. Non si tratta di mettere in liquidazione l’epistemologia positivista e di sostituirla con una epistemologia semplicemente post positivista, ma di complessificare l’epistemologia. Oggi i fatti non sono altro rispetto alle persone e le complessità delle persone spiegano le complessità dei fatti. Oggi per conoscere non basta più osservare, è necessario interpretare. Oggi le cause spiegano sempre meno i fenomeni a esse riconducibili. Quello che serve non è rinunciare a conoscere attraverso i fatti, l’osservazione e le cause, ma aggiornare queste nozioni tipicamente positiviste alla luce dei cambiamenti del rapporto tra scienza, politica e società.
Il problema politico
In quanto attività orientata al raggiungimento di obiettivi sociali o di mercato, la scienza non può reclamare uno status privilegiato rispetto a una definizione dei fini che spetta invece al più ampio dominio della mediazione politica e culturale. Quando ciò avviene, la scienza e i suoi protagonisti si piegano al potere che le strumentalizza e si fanno schermo di una presunta asetticità dietro cui può celarsi ogni arbitrio. Ciò che guadagnano in autorità, lo perdono in autorevolezza.
Le leggi della natura non operano per il bene pubblico (o per il suo opposto), che può essere realizzato soltanto quando la conoscenza che proviene dal laboratorio interagisce con le istituzioni culturali, economiche e politiche della società. La scienza e la tecnologia moderne sono pertanto fondate su un salto di fede: ovvero che la transizione dal mondo, controllato idealizzato ed indipendente dal contesto, del laboratorio, alla intricata realtà della società complessa possa automaticamente cagionare un beneficio sociale. (Daniel Sarewitz, Frontiers of Illusion: Science and Technology, and the Politics of Progress)
Accade sempre più spesso che la politica si appelli nel suo agire a sedicenti evidenze scientifiche proprio mentre assistiamo a una vera e propria crisi della scienza: è messa in discussione la sua riproducibilità, legittimità e integrità. La crisi della scienza conduce alla crisi di legittimità della politica che pretende di darsi un fondamento tecnico e scientifico (tecnocrazia). Ne è prova il crescente livello di conflitto che assume il dibattito pubblico su temi sensibili dal punto di vista sanitario, ambientale e sociale, quali ad esempio flussi migratori, cambiamento climatico, agenda digitale, profilassi vaccinale, cyber security, economia dell’austerità, educazione LGBT, fine vita, altro.
A partire da Platone la questione della legittimazione della scienza è indissolubilmente, legata a quella della legittimazione del legislatore. In questa prospettiva, il diritto di decidere ciò che è vero non è indipendente dal diritto di decidere ciò che è giusto, anche se gli enunciati sottoposti alle due autorità sono di natura differente. […] Analizzando l'attuale statuto del sapere scientifico, constatiamo che proprio nel momento in cui esso sembrerebbe più subordinato che mai ai giochi di potere e in cui corre anche il rischio di divenire una delle maggiori poste dei conflitti fra le nuove tecnologie, il problema della doppia legittimazione, lungi dallo sfumare, è necessariamente destinato a porsi in modo ancora più acuto. Esso si pone infatti nella sua forma più completa, quella della reversione, che mette in luce come sapere e potere siano i due aspetti di una stessa domanda: chi decide cos’è il sapere, e chi sa cosa conviene decidere? La questione del sapere nell’era dell’informazione è più che mai la questione del governo. (Jean-François Lyotard, La condition postmoderne)
Pertanto, quando lo scopo è quello di convogliare ciò che è frutto di conoscenza scientifica nell’ambito delle scelte politiche, è necessario un accurato lavoro di negoziazione semantica per riuscire a giungere a un significato che sia condiviso da tutte le parti interessate, cioè a un perché che è condizione necessaria per arrivare a un come, ossia all’applicazione, nel mondo reale, della scienza e del contributo degli esperti.
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