[ giovedì 19 settembre 2019 ]
Le elezioni in Israele si sono concluse con un nulla di fatto. Per capire in quale contesto geopolitico si sono svolte un importante articolo di Maurizio Vezzosi.
L’avvicinarsi delle elezioni legislative israeliane del 17 settembre ha portato con sé una lunga scia di incidenti e tensioni nelle aree a ridosso degli attuali confini del territorio controllato da Israele. Gli incidenti hanno visto le forze armate israeliane colpire obiettivi militari di Hezbollah e di alcune formazioni palestinesi attive in Libano sia a ridosso della linea blu – che segna il confine de facto tra Libano e Israele ‒ sia nella Valle della Beqaa.
Durante i mesi di luglio e agosto si sono verificati scontri che hanno coinvolto le forze armate israeliane anche nei territori occupati del Golan siriano: non hanno fatto eccezione i territori sotto controllo palestinese della Cisgiordania e di Gaza, dove anche nei giorni scorsi sono scoppiati incidenti che hanno prodotto morti e feriti. Proprio da Gaza negli scorsi giorni sono partiti alcuni razzi diretti verso il territorio sotto controllo israeliano che hanno addirittura costretto il primo ministro israeliano Netanyahu ad interrompere un comizio elettorale.
Quest’ultimo ha evidentemente scommesso sulla guerra per cercare di risolvere a suo vantaggio una competizione elettorale tutt’altro che in discesa e che vede la sua riconferma come assai problematica. Ad insidiare la vittoria di Netanyahu è soprattutto la coppia di orientamento centrista formata da Benny Gantz e Yair Lapid, nei confronti della quale il primo ministro israeliano sembra comunque in vantaggio. È alla luce di questa dinamica elettorale interna che possono essere lette le affermazioni, che tanto clamore hanno sollevato, fatte da Netanyahu qualche giorno fa, quando in una conferenza stampa ha esplicitato l’intenzione di annettere, in caso di riconferma, la valle del Giordano e la sponda nord del Mar Morto. Netanyahu sembra essersi così intenzionalmente appropriato degli argomenti utilizzati dall’ultradestra israeliana, notoriamente oltranzista e ostile a qualsivoglia compromesso sulla questione palestinese.
Sul bellicoso nervosismo di Tel Aviv sembra del resto pesare l’esito non proprio favorevole del conflitto siriano cominciato nel 2011, conflitto in cui si è palesato il sostegno esplicito di Israele alle componenti ostili al governo siriano. La tenuta di Bashar al-Assad ed il sostegno strategico offerto alla Siria da Iran e Russia hanno accentuato la crisi strategica di Israele, che sembra dover necessariamente fare ricorso alla guerra per proseguire la propria politica.
La volontà israeliana di allentare con ogni mezzo l’intesa tra Mosca e l’asse Damasco-Teheran si è nuovamente manifestata nelle dichiarazioni fatte da Netanyahu in occasione della visita in Russia del 12 settembre, durante la quale ha incontrato il presidente Vladimir Putin. Oltre agli aspetti riguardanti Siria e Iran, la visita di Netanyahu in Russia perseguiva l’obiettivo di polarizzare sull’attuale capo del governo israeliano il consenso elettorale della grande comunità russofona israeliana, consenso conteso soprattutto all’ex ministro degli Esteri Avigdor Lieberman.
Nonostante i toni trionfalistici di gran parte della stampa israeliana riguardo al successo della visita, Vladimir Putin ed il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov hanno accolto con evidente freddezza la volontà israeliana di annettere ulteriori territori quali la valle del Giordano e la sponda nord del Mar Morto: una volontà stigmatizzata esplicitamente anche da Giordania e Turchia, e accolta in Europa con grande preoccupazione.
Durante la visita Netanyahu ha chiesto espressamente alla controparte russa «mano libera» per colpire militarmente «la presenza iraniana» in Siria e Libano: una richiesta a cui non hanno fatto seguito nessuna risposta ufficiale né alcun cenno di intesa. Tutto lascia pensare che la visita di Netanyahu non abbia raggiunto gli obiettivi che si prefissava, evidenziando una rilevante frizione tra gli interessi strategici della Federazione Russa nel quadrante mediorientale e quelli israeliani. Alla vigilia del voto Netanyahu ha inoltre aggiunto alle proprie intenzioni la volontà di annettere al territorio israeliano anche la zona periferica di Hebron.
Con l’allontanamento dalla Casa Bianca dei consiglieri John Bolton (sicurezza nazionale) e Jason Greenblatt (inviato speciale per i negoziati internazionali, e come tale uno degli ‘architetti’ del famoso piano di pace Israele-Palestina) sembra assumere credito l’ipotesi di una parziale revisione dell’atteggiamento statunitense nei confronti di Israele – e della questione palestinese – e più in generale della sua politica mediorientale: una possibilità che seguirebbe in senso inverso il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e della sovranità israeliana sulle alture del Golan siriano effettuato da Washington alcuni mesi fa, generando un’evidente preoccupazione che traspare chiaramente dall’atteggiamento di Netanyahu.
Oltre alla variabile elettorale – e a quanto può esserci di concreto nelle bellicose promesse di Netanyahu, già disattese in alcune circostanze passate – sono dunque numerose le dinamiche destinate a far rimanere instabile l’area del Mashreq.
Le elezioni in Israele si sono concluse con un nulla di fatto. Per capire in quale contesto geopolitico si sono svolte un importante articolo di Maurizio Vezzosi.
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L’avvicinarsi delle elezioni legislative israeliane del 17 settembre ha portato con sé una lunga scia di incidenti e tensioni nelle aree a ridosso degli attuali confini del territorio controllato da Israele. Gli incidenti hanno visto le forze armate israeliane colpire obiettivi militari di Hezbollah e di alcune formazioni palestinesi attive in Libano sia a ridosso della linea blu – che segna il confine de facto tra Libano e Israele ‒ sia nella Valle della Beqaa.
Durante i mesi di luglio e agosto si sono verificati scontri che hanno coinvolto le forze armate israeliane anche nei territori occupati del Golan siriano: non hanno fatto eccezione i territori sotto controllo palestinese della Cisgiordania e di Gaza, dove anche nei giorni scorsi sono scoppiati incidenti che hanno prodotto morti e feriti. Proprio da Gaza negli scorsi giorni sono partiti alcuni razzi diretti verso il territorio sotto controllo israeliano che hanno addirittura costretto il primo ministro israeliano Netanyahu ad interrompere un comizio elettorale.
Quest’ultimo ha evidentemente scommesso sulla guerra per cercare di risolvere a suo vantaggio una competizione elettorale tutt’altro che in discesa e che vede la sua riconferma come assai problematica. Ad insidiare la vittoria di Netanyahu è soprattutto la coppia di orientamento centrista formata da Benny Gantz e Yair Lapid, nei confronti della quale il primo ministro israeliano sembra comunque in vantaggio. È alla luce di questa dinamica elettorale interna che possono essere lette le affermazioni, che tanto clamore hanno sollevato, fatte da Netanyahu qualche giorno fa, quando in una conferenza stampa ha esplicitato l’intenzione di annettere, in caso di riconferma, la valle del Giordano e la sponda nord del Mar Morto. Netanyahu sembra essersi così intenzionalmente appropriato degli argomenti utilizzati dall’ultradestra israeliana, notoriamente oltranzista e ostile a qualsivoglia compromesso sulla questione palestinese.
Sul bellicoso nervosismo di Tel Aviv sembra del resto pesare l’esito non proprio favorevole del conflitto siriano cominciato nel 2011, conflitto in cui si è palesato il sostegno esplicito di Israele alle componenti ostili al governo siriano. La tenuta di Bashar al-Assad ed il sostegno strategico offerto alla Siria da Iran e Russia hanno accentuato la crisi strategica di Israele, che sembra dover necessariamente fare ricorso alla guerra per proseguire la propria politica.
La volontà israeliana di allentare con ogni mezzo l’intesa tra Mosca e l’asse Damasco-Teheran si è nuovamente manifestata nelle dichiarazioni fatte da Netanyahu in occasione della visita in Russia del 12 settembre, durante la quale ha incontrato il presidente Vladimir Putin. Oltre agli aspetti riguardanti Siria e Iran, la visita di Netanyahu in Russia perseguiva l’obiettivo di polarizzare sull’attuale capo del governo israeliano il consenso elettorale della grande comunità russofona israeliana, consenso conteso soprattutto all’ex ministro degli Esteri Avigdor Lieberman.
Nonostante i toni trionfalistici di gran parte della stampa israeliana riguardo al successo della visita, Vladimir Putin ed il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov hanno accolto con evidente freddezza la volontà israeliana di annettere ulteriori territori quali la valle del Giordano e la sponda nord del Mar Morto: una volontà stigmatizzata esplicitamente anche da Giordania e Turchia, e accolta in Europa con grande preoccupazione.
Durante la visita Netanyahu ha chiesto espressamente alla controparte russa «mano libera» per colpire militarmente «la presenza iraniana» in Siria e Libano: una richiesta a cui non hanno fatto seguito nessuna risposta ufficiale né alcun cenno di intesa. Tutto lascia pensare che la visita di Netanyahu non abbia raggiunto gli obiettivi che si prefissava, evidenziando una rilevante frizione tra gli interessi strategici della Federazione Russa nel quadrante mediorientale e quelli israeliani. Alla vigilia del voto Netanyahu ha inoltre aggiunto alle proprie intenzioni la volontà di annettere al territorio israeliano anche la zona periferica di Hebron.
Con l’allontanamento dalla Casa Bianca dei consiglieri John Bolton (sicurezza nazionale) e Jason Greenblatt (inviato speciale per i negoziati internazionali, e come tale uno degli ‘architetti’ del famoso piano di pace Israele-Palestina) sembra assumere credito l’ipotesi di una parziale revisione dell’atteggiamento statunitense nei confronti di Israele – e della questione palestinese – e più in generale della sua politica mediorientale: una possibilità che seguirebbe in senso inverso il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e della sovranità israeliana sulle alture del Golan siriano effettuato da Washington alcuni mesi fa, generando un’evidente preoccupazione che traspare chiaramente dall’atteggiamento di Netanyahu.
Oltre alla variabile elettorale – e a quanto può esserci di concreto nelle bellicose promesse di Netanyahu, già disattese in alcune circostanze passate – sono dunque numerose le dinamiche destinate a far rimanere instabile l’area del Mashreq.
* Fonte: Atlante Treccani
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