[ giovedì 26 settembre 2019]
Dalle cronache giudiziarie degli ultimi giorni apprendiamo l’esistenza di una pratica particolarmente ignobile di sfruttamento della forza lavoro precaria. La procura di Milano sta indagando sulla “moda”, invalsa nel mondo dei rider (i ragazzi che rischiano la pelle destreggiandosi con bici e motorini nel traffico cittadino per portare a tempo di record una pizza, o altri manicaretti, a chi li ha ordinati attraverso la app di uno dei tanti servizi di consegna di alimenti a domicilio) di “subappaltare” il servizio ad altri disgraziati, ”subaffittandogli” i ferri del mestiere (il contenitore dei cibi con tanto di marchio pubblicitario e l’uso del proprio account) in cambio di una quota del compenso per il servizio reso.
La pratica – definita come una inedita forma di “caporalato digitale” – è venuta alla luce perché alcuni di questi “sotto lavoratori” sono stati sorpresi a girare senza casco protettivo, senza giubbotti catarifrangenti nelle ore serali, o, visto che in molti casi si tratta di immigrati, senza permesso di soggiorno. Gli autori degli articoli sul fenomeno precisano che non si tratta – almeno finora - di una vera e propria inchiesta penale, bensì di un insieme sempre più nutrito di fascicoli relativi a violazioni a norme sulla sicurezza sul lavoro, a casi di incidenti stradali, a problemi igienico-sanitari (pare che la pulizia dei contenitori sequestrati lasci spesso a desiderare) e al tentativo di appurare se, dietro a questi casi, si nasconda una vera e propria organizzazione criminale che gestisce forme di caporalato paragonabili a quelle di cui sono vittime i braccianti nelle regioni del Sud Italia. Personalmente, devo confessare che alle mie orecchie quest’ultima ipotesi suona meno oscena rispetto a quella di qualche decina (o centinaia?) di rider che hanno deciso di scaricare gli aspetti più degradanti della propria condizione su uno strato di lavoratori ancora più deboli e privi di tutele, ricavandone una sia pur miserabile “rendita”.
Nel primo caso, ci troveremmo semplicemente di fronte all’ennesima conferma che il capitalismo – non solo quello “arretrato” delle imprese agrarie, ma anche quello super avanzato che sfrutta i più moderni ritrovati delle tecnologie digitali – si allea spesso e volentieri con antiche e collaudate pratiche criminali che garantiscono tassi di sfruttamento del lavoro (e profitti) più elevati. Del resto, come ho sostenuto più volte nei miei libri più recenti, le piattaforme digitali come Uber, Airbnb e, appunto, le varie imprese di delivery di prodotti ordinati online, si caratterizzano per il fatto che non si arricchiscono tanto attraverso lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi, quanto attraverso la percezione di rendite monopolistiche su determinate reti di intermediazione commerciale, per cui non deve stupire se, all’ombra dei loro piccoli imperi, si sviluppano micro pratiche di intermediazione tese a intercettare quote di queste rendite parassitarie.
Se viceversa il caso fosse il secondo, se fossimo cioè di fronte alla “libera e autonoma” iniziativa di singoli rider, avremmo una ulteriore prova di quanto fossero mal riposti i peana di chi, negli anni scorsi, esaltava (non solo dalle pagine della stampa neoliberista ma anche da quelle della stampa “di sinistra”) le magnifiche sorti e progressive dei lavoratori autonomi, fronte avanzato di una iper-modernità proiettata — soprattutto se armata dei più innovativi strumenti digitali - verso un futuro di libertà e progresso. La penetrazione del digitale in tutti i settori del terziario “avanzato” e “arretrato” (sempre più integrati fra loro e difficili da distinguere) ha prodotto quasi esclusivamente sotto occupazione, precariato, salari miserabili, super sfruttamento, ma soprattutto auto-sfruttamento di lavoratori messi in condizione di tirarsi il collo per competere fra loro, invece di allearsi per contrattare condizioni di lavoro e di vita migliori. Il tutto nella colpevole latitanza di organizzazione sindacali incapaci di fronteggiare le trasformazioni della composizione di classe.
Ma la vicenda ha un altro risvolto amaro. Si sa che molti rider sono membri della “classe creativa”, giovani dotati di competenze professionali complesse e titoli superiori di studio, i quali, non avendo trovato altri modi di campare, si sono adattati a svolgere questi ruoli “marginali”. È chiaro che non possono vivere la propria condizione senza provare un penoso senso di frustrazione, quindi si capisce (anche se non si giustifica) che cerchino soluzioni per scaricare su qualcun altro il peso di tale condizione, e chi se non l’immigrato senza permesso di soggiorno può meglio incarnare il ruolo di questo “qualcun altro”? Magari, qualcuno trova modo di autogiustificarsi perché così “offre un’opportunità” a chi è messo peggio di lui. E magari in qualche manifestazione ha pure gridato slogan “no border”, per ritrovarsi a svolgere, nei confronti del clandestino di turno, il ruolo di caporale, invece che di compagno di lotte contro il comune nemico di classe.
Per finire con una nota allegra. L’associazione delle imprese Asso Delivery ha dichiarato: “il caporalato è un fenomeno di illegalità che le piattaforme intendono contrastare in ogni modo, con una politica di tolleranza zero”. No comment.
Dalle cronache giudiziarie degli ultimi giorni apprendiamo l’esistenza di una pratica particolarmente ignobile di sfruttamento della forza lavoro precaria. La procura di Milano sta indagando sulla “moda”, invalsa nel mondo dei rider (i ragazzi che rischiano la pelle destreggiandosi con bici e motorini nel traffico cittadino per portare a tempo di record una pizza, o altri manicaretti, a chi li ha ordinati attraverso la app di uno dei tanti servizi di consegna di alimenti a domicilio) di “subappaltare” il servizio ad altri disgraziati, ”subaffittandogli” i ferri del mestiere (il contenitore dei cibi con tanto di marchio pubblicitario e l’uso del proprio account) in cambio di una quota del compenso per il servizio reso.
La pratica – definita come una inedita forma di “caporalato digitale” – è venuta alla luce perché alcuni di questi “sotto lavoratori” sono stati sorpresi a girare senza casco protettivo, senza giubbotti catarifrangenti nelle ore serali, o, visto che in molti casi si tratta di immigrati, senza permesso di soggiorno. Gli autori degli articoli sul fenomeno precisano che non si tratta – almeno finora - di una vera e propria inchiesta penale, bensì di un insieme sempre più nutrito di fascicoli relativi a violazioni a norme sulla sicurezza sul lavoro, a casi di incidenti stradali, a problemi igienico-sanitari (pare che la pulizia dei contenitori sequestrati lasci spesso a desiderare) e al tentativo di appurare se, dietro a questi casi, si nasconda una vera e propria organizzazione criminale che gestisce forme di caporalato paragonabili a quelle di cui sono vittime i braccianti nelle regioni del Sud Italia. Personalmente, devo confessare che alle mie orecchie quest’ultima ipotesi suona meno oscena rispetto a quella di qualche decina (o centinaia?) di rider che hanno deciso di scaricare gli aspetti più degradanti della propria condizione su uno strato di lavoratori ancora più deboli e privi di tutele, ricavandone una sia pur miserabile “rendita”.
Nel primo caso, ci troveremmo semplicemente di fronte all’ennesima conferma che il capitalismo – non solo quello “arretrato” delle imprese agrarie, ma anche quello super avanzato che sfrutta i più moderni ritrovati delle tecnologie digitali – si allea spesso e volentieri con antiche e collaudate pratiche criminali che garantiscono tassi di sfruttamento del lavoro (e profitti) più elevati. Del resto, come ho sostenuto più volte nei miei libri più recenti, le piattaforme digitali come Uber, Airbnb e, appunto, le varie imprese di delivery di prodotti ordinati online, si caratterizzano per il fatto che non si arricchiscono tanto attraverso lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi, quanto attraverso la percezione di rendite monopolistiche su determinate reti di intermediazione commerciale, per cui non deve stupire se, all’ombra dei loro piccoli imperi, si sviluppano micro pratiche di intermediazione tese a intercettare quote di queste rendite parassitarie.
Se viceversa il caso fosse il secondo, se fossimo cioè di fronte alla “libera e autonoma” iniziativa di singoli rider, avremmo una ulteriore prova di quanto fossero mal riposti i peana di chi, negli anni scorsi, esaltava (non solo dalle pagine della stampa neoliberista ma anche da quelle della stampa “di sinistra”) le magnifiche sorti e progressive dei lavoratori autonomi, fronte avanzato di una iper-modernità proiettata — soprattutto se armata dei più innovativi strumenti digitali - verso un futuro di libertà e progresso. La penetrazione del digitale in tutti i settori del terziario “avanzato” e “arretrato” (sempre più integrati fra loro e difficili da distinguere) ha prodotto quasi esclusivamente sotto occupazione, precariato, salari miserabili, super sfruttamento, ma soprattutto auto-sfruttamento di lavoratori messi in condizione di tirarsi il collo per competere fra loro, invece di allearsi per contrattare condizioni di lavoro e di vita migliori. Il tutto nella colpevole latitanza di organizzazione sindacali incapaci di fronteggiare le trasformazioni della composizione di classe.
Ma la vicenda ha un altro risvolto amaro. Si sa che molti rider sono membri della “classe creativa”, giovani dotati di competenze professionali complesse e titoli superiori di studio, i quali, non avendo trovato altri modi di campare, si sono adattati a svolgere questi ruoli “marginali”. È chiaro che non possono vivere la propria condizione senza provare un penoso senso di frustrazione, quindi si capisce (anche se non si giustifica) che cerchino soluzioni per scaricare su qualcun altro il peso di tale condizione, e chi se non l’immigrato senza permesso di soggiorno può meglio incarnare il ruolo di questo “qualcun altro”? Magari, qualcuno trova modo di autogiustificarsi perché così “offre un’opportunità” a chi è messo peggio di lui. E magari in qualche manifestazione ha pure gridato slogan “no border”, per ritrovarsi a svolgere, nei confronti del clandestino di turno, il ruolo di caporale, invece che di compagno di lotte contro il comune nemico di classe.
Per finire con una nota allegra. L’associazione delle imprese Asso Delivery ha dichiarato: “il caporalato è un fenomeno di illegalità che le piattaforme intendono contrastare in ogni modo, con una politica di tolleranza zero”. No comment.
Nessun commento:
Posta un commento