[ giovedì 8 agosto 2019 ]
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Paolo Buchignani è un grande studioso del pensiero rivoluzionario italiano, allievo di Renzo De Felice. E’ un un antifascista, strettamente connesso all’Istituto Storico per la Resistenza della Toscana.
La sua ultima fatica di storico è Ribelli d’Italia. Il sogno della rivoluzione da Mazzini alle Br (Marsilio editore 2017); in passato ha scritto su Marcello Gallian e Berto Ricci "fascisti di sinistra", sul sogno della “Rivoluzione in camicia nera” ma il suo testo più importante e che ha fatto storia è quello sui Fascisti rossi, fascisti di regime e della Rsi che diventano nel dopoguerra militanti e teorici della via nazionale al socialismo promossa dal segretario Palmiro Togliatti e dai vertici del PCI.
Tutte le notizie di seguito sulla vita del Nostro sono riprese da “Fascisti rossi”, Edizioni Mondadori 1998. Stanis Ruinas — pseudonimo di Giovanni Antonio De Rosas — nasce l’11 febbraio 1899 in un piccolo paese nei pressi di Sassari (Usini). Di estrazione popolare e con simpatie giovanili per i «fasci anarchici individualisti», dopo la collaborazione con «L'Unione Sarda» nel 1922, si trasferisce agli inizi degli anni Venti a Roma, dove nel dicembre 1924 aderisce al fascismo e adotta lo pseudonimo con cui sarà poi conosciuto.
Quale è la visione politica e geopolitica di Stanis Ruinas e dei suoi collaboratori del PN? Buchignani, Paolo Mieli, Antonio Carioti che si sono occupati in più casi del pensiero di Ruinas, rilevano a più riprese il sottofondo mazziniano, pisacaniano e risorgimentalista del Nostro. Per Ruinas, “Mussolini è il Garibaldi ‘900” circondato, come quello originale dell’800, da una classe dirigente inetta e non consapevole del destino storico italiano.
Cercando quindi di trarre una lezione politica sulla storia della nostra Patria da queste vicende e da questi studi, sono tre gli elementi che emergono, anche riguardo all’attualità:
A differenza di quanto pensavano Ruinas ed i suoi, Mussolini non fu un socialista, non fu né il Mazzini né il Garibaldi del ‘900. Fu anzi semmai il trait d’union con il cavourismo ottocentesco, di contro al primordiale “costituzionalismo” liberale istituzionale crispino e giolittiano che il capo fascista spazzò via. Un cavourismo, quello di Mussolini statista, rimescolato e mascherato alla luce del conflitto interimperialista globale con l’idea di Italia romana e Roma nuovo centro globale di civilizzazione antagonista al mondo anglofrancese. Mussolini stabilizza un modello sociale in cui quote di capitalismo statale occupano sempre di più i tradizionali spazi di quello privato; una pura élite fascista, una pura classe dirigente fascista non vide però la luce nel Ventennio.
I Fascisti Rossi non furono marxisti. Furono oggettivamente comunisti in quanto non solo fiancheggiarono il PCI nei momenti decisivi e più caldi della storia italiana postguerra civile, ma accusarono apertamente, contemporaneamente ai fatti, i vertici togliattiani e secchiani del Partito di scarso idealismo e di determinismo marxista astratto.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Paolo Buchignani è un grande studioso del pensiero rivoluzionario italiano, allievo di Renzo De Felice. E’ un un antifascista, strettamente connesso all’Istituto Storico per la Resistenza della Toscana.
La sua ultima fatica di storico è Ribelli d’Italia. Il sogno della rivoluzione da Mazzini alle Br (Marsilio editore 2017); in passato ha scritto su Marcello Gallian e Berto Ricci "fascisti di sinistra", sul sogno della “Rivoluzione in camicia nera” ma il suo testo più importante e che ha fatto storia è quello sui Fascisti rossi, fascisti di regime e della Rsi che diventano nel dopoguerra militanti e teorici della via nazionale al socialismo promossa dal segretario Palmiro Togliatti e dai vertici del PCI.
Questo testo provocò un lungo e sofferto dibattito tra intellettuali di sinistra e di regime. Intelligenti spunti furono forniti allora dai vari Mieli, Ferrara, Lerner, Galli Della Loggia. Ora noi, più umilmente e modestamente, tenteremo di riportare al centro il momento politico scansando il più possibile quello metapolitico e letterario.
Stanis Ruinas
Tutte le notizie di seguito sulla vita del Nostro sono riprese da “Fascisti rossi”, Edizioni Mondadori 1998. Stanis Ruinas — pseudonimo di Giovanni Antonio De Rosas — nasce l’11 febbraio 1899 in un piccolo paese nei pressi di Sassari (Usini). Di estrazione popolare e con simpatie giovanili per i «fasci anarchici individualisti», dopo la collaborazione con «L'Unione Sarda» nel 1922, si trasferisce agli inizi degli anni Venti a Roma, dove nel dicembre 1924 aderisce al fascismo e adotta lo pseudonimo con cui sarà poi conosciuto.
Fino al 1929 lavora come redattore al quotidiano romano «L'Impero», giornale del fascismo intransigente, fondato e diretto dai due giornalisti e scrittori futuristi Mario Carli ed Emilio Settimelli. Dopo la prima chiusura dell'«Impero», nel febbraio 1930 fu cooptato dalla direzione de «Il Popolo Apuano», organo settimanale del PNF di Massa Carrara. Imposta un «giornale di battaglia» (sua stessa definizione), imperniato sulla propaganda dello «stile fascista», secondo la linea del PNF allora guidato da Augusto Turati. Sotto la sua direzione, «Il Popolo Apuano» conduce campagne di stampa verso le banche, i commercianti, la stampa locale. Assai aggressiva, in linea con le direttive del PNF, fu quella contro gli industriali elettrici, mentre verso gli industriali del marmo locali fu condotta una campagna di moral suasion, secondo le direttive di governo e partito. Lasciata la direzione del giornale, dopo una sospensione dal partito in seguito a un duello con un locale industriale del marmo, precisa in seguito di aver chiesto lui stesso il trasferimento per l'incompatibilità tra il suo fascismo «rivoluzionario» e quello «conservatore» del PNF locale. Rientra a Roma all'«Impero d'Italia» diretto da Emilio Settimelli. Scontata la sospensione, è così nominato nel maggio 1931 direttore del «Corriere Emiliano», quotidiano della federazione del PNF di Parma, dove rimane sino al 1933. In seguito pubblica il libro Viaggio per le città di Mussolini, incentrando l’attenzione del lettore sulle riforme sociali del regime e sulla lotta al latifondo; il libro sarà vincitore del premio Sabaudia. E’ combattente e inviato di guerra in Etiopia e durante la guerra in Libia nel 1940, in Germania nel 1941. Dopo l'8 settembre aderisce alla RSI e si trasferisce al Nord, a Venezia, come capo della segreteria particolare di Vincenzo Lai, amico e corregionale, commissario della Banca Nazionale del Lavoro. Alla fine della guerra viene arrestato nel maggio del 1945 ma prosciolto in istruttoria. Riprende l'attività di giornalista e scrittore e fonda la rivista Il Pensiero Nazionale (d’ora in avanti PN), organo di un piccolo movimento politico di fascisti ex repubblichini su posizioni antiborghesi, anticapitaliste e antioccidentali.
Stanis Ruinas |
La rivista ottenne per alcuni anni finanziamenti dal Partito Comunista Italiano che tentava il recupero di gruppi della sinistra fascista. Nel 1950 finì per quaranta giorni a Regina Coeli per «istigazione alla rivolta armata contro i poteri costituiti»: in alcuni articoli aveva invitato il PCI alla ribellione, con gli ex fascisti saloini, contro il governo De Gasperi. Fu prosciolto in istruttoria per non aver commesso il fatto. La collaborazione con il PCI finisce agli inizi degli anni Cinquanta. «Il Pensiero Nazionale» cessa le pubblicazioni nel 1977 e, venendo meno i fondi del PCI, sarà dalla seconda metà degli anni ’50 finanziato e sostenuto prima da Enrico Mattei, poi da Gamal Abd el Nasser e quindi da Mu’ammar Gheddafi. Secondo la testimonianza di un famigliare, Stanis Ruinas conobbe direttamente sia i leader del nazionalismo algerino anti-francese, sia il leader egiziano sia quello libico e questi ultimi due capi riportarono entrambi una positiva impressione riguardo alla notevole qualità politica strategica del Fascista Rosso di Usini.
La strategia politica di PN
Quale è la visione politica e geopolitica di Stanis Ruinas e dei suoi collaboratori del PN? Buchignani, Paolo Mieli, Antonio Carioti che si sono occupati in più casi del pensiero di Ruinas, rilevano a più riprese il sottofondo mazziniano, pisacaniano e risorgimentalista del Nostro. Per Ruinas, “Mussolini è il Garibaldi ‘900” circondato, come quello originale dell’800, da una classe dirigente inetta e non consapevole del destino storico italiano.
Tale interpretazione del "fascismo movimento" di fronte al "fascismo regime", secondo il quale Mussolini rimarrebbe ideologicamente un socialista gradualista che vorrebbe attuare una socializzazione totale dei mezzi di produzione ed un modello di civilizzazione socialista con metodologie però differenti rispetto a quelle bolsceviche, è una costante ermeneutica e della sinistra fascista e della stessa sinistra neofascista presente nel Movimento Sociale Italiano, che non ruppe mai i contatti con Ruinas e i con “i comunisti” del PN.
Viceversa, la “destra nazionale”, prima nella versione più centrista micheliniana poi in quella più “populista” almirantiana, rivendicherà sempre con una sorta di fanatico anelito il ruolo storico mussoliniano all’insegna della “salvazione della patria” dalla cosiddetta orda rossa bolscevica. La destra nazionale sarà sin dal dopoguerra continuamente accusata su tutta la linea da Ruinas e dai redattori vari del PN di collusione totale con sionisti, con il Vaticano e con angloamericani, gli storici nemici della “guerra del sangue contro l’oro”. Nella consapevolezza che il fascismo movimentista non si fece mai Stato-Nazione ma rimase sempre frazione e coscienza critica del regime, Ruinas si considera per molti versi l’autentico continuatore di una linea ortodossa saloina, che avrebbe visto Mussolini nei tragici momenti finali affidare alla componente della futura “sinistra nazionale” il testamento della continuità fascista [1]; una “sinistra nazionale” interna al PSI che doveva però essere, almeno nei propositi strategici “pontisti” mussoliniani — ossia volti al passaggio dei poteri da Salò alla sinistra nazionalpopolare post-guerra civile —, indipendente sia da Mosca sia da Washington. Un postfascismo il quale, almeno per come era nella mente di Mussolini, sarebbe stato assai più simile al titoismo nazionale jugoslavista geopoliticamente non allineato piuttosto che allo stato di polizia sovietico.
E qui entriamo appunto nel vivo della questione politica che i vari studi forse non ci hanno bene fornito. Ruinas ideologizza astrattamente sia il fascismo sia Mussolini. Quest’ultimo è un cinico opportunista di scuola machiavellica, certo non privo di una sua capacità tattica politica e di sue soggettive ambizioni idealistiche e notevoli aperture storicistiche, che si era definitivamente lasciato alla spalle ogni velleità di tipo socialista. Ciò che gli sarebbe rimasto di tale originaria formazione socialista sarebbe stato proprio il momento blanquista, ovvero la dimensione più concreta e tattica della lotta élitista e populista di frazioni, non certo il retroterra giacobino o saintsimoniano finalizzato al regno politico come scienza della produzione e dei calcoli economici.
Il Mussolini del ’45, politico disperato e sconfitto alla ricerca di una soluzione politica nella tragedia imminente, non crede più al fascismo, men che meno può credere al socialismo, che ha già abbandonato nel 1914. E’ alla ricerca di una nuova soluzione realistica che non è però questa volta in grado di partorire. Costerebbe troppo ammetterlo al Ruinas, è chiaro. Ma se il Mussolini di regime non era certamente, come ben spiega De Felice, il classico conservatore di destra nazionale, sarebbe falsificante, allo stesso modo, proporre un Mussolini ideologicamente di sinistra o populista nel ’19 e nel ’45 (proposta storica che infatti De Felice non ha mai fatto).
Ed è significativo del resto che il più grande rimprovero e la più grande critica che Ruinas muove a Togliatti nel corso della collaborazione tattica tra il PN e il PCI è la scarsa coscienza politica blanquista dei quadri comunisti. I comunisti non si sarebbero impadroniti del potere nella primavera del 1945 quando bastava un minimo di sana follia tattica, alleandosi con i fascisti di sinistra, per farlo e non lo hanno fatto nel ’47 quando De Gasperi antidemocraticamente li cacciò in malo modo dal governo. Il treno della storia passa di rado, guai a quel “Principe” che non lo coglie. Scrive infatti l’ideologo dei Fascisti Rossi nell’aprile 1950 subito dopo essere uscito dal carcere:
«Che s’ha da fare? Subire gli avvenimenti o prevenirli? Voi, comunisti e socialisti, siete ancora i più forti. Volendo, fortemente volendo, voi potete rovesciare l’attuale governo e cambiare la rotta della storia. Noi non ci lasciamo ingannare dalle apparenze, anche se perfettamente consci di vivere in un paese abituato da secoli ad accontentarsi delle elemosine spirituali e materiali. Scelba ha 70.000 agenti. I carabinieri sono circa 60.000. L’esercito americano di Pacciardi arriva, largheggiando, a cinque divisioni. Gli agenti di Scelba non sono tutti scelbini. Al momento giusto una buona parte di essi fa causa comune con il popolo. I carabinieri sono anch’essi divisi…..Un pericolo tuttavia c’è: l’intervento degli USA. Interverranno gli americani armata manu? Noi crediamo di no… In ogni modo o si rischia o non si rischia. Il dilemma è preciso. Se oggi per liberare il Paese dall’anti-Risorgimento e dai nemici del popolo occorrono 50.000 decisi, e voi li avete, domani occorreranno molti di più. Chi ha tempo non aspetti tempo. Chi oggi è il più forte non aspetti che il nemico si rafforzi».[Cfr. S. Ruinas, “Ai Comunisti”, in PN, n. 7, 1-15 aprile 1950, p. 3]
La lezione dei Fascisti Rossi e l’Italia di oggi
Cercando quindi di trarre una lezione politica sulla storia della nostra Patria da queste vicende e da questi studi, sono tre gli elementi che emergono, anche riguardo all’attualità:
A differenza di quanto pensavano Ruinas ed i suoi, Mussolini non fu un socialista, non fu né il Mazzini né il Garibaldi del ‘900. Fu anzi semmai il trait d’union con il cavourismo ottocentesco, di contro al primordiale “costituzionalismo” liberale istituzionale crispino e giolittiano che il capo fascista spazzò via. Un cavourismo, quello di Mussolini statista, rimescolato e mascherato alla luce del conflitto interimperialista globale con l’idea di Italia romana e Roma nuovo centro globale di civilizzazione antagonista al mondo anglofrancese. Mussolini stabilizza un modello sociale in cui quote di capitalismo statale occupano sempre di più i tradizionali spazi di quello privato; una pura élite fascista, una pura classe dirigente fascista non vide però la luce nel Ventennio.
I casi di Beneduce, Mattioli, Arturo Osio, Vincenzo Azzolini lo mostrano. L’élite fascista fu, in larga parte, ben più quella fanfaniana o dell’ENI del dopoguerra che quella “socialdemocratica” o ex socialista del Ventennio di regime. Questa la sconfitta politica del machiavelliano blanquista Mussolini. Assieme a ciò, e forse conseguenziale, è l’incapacità di trattenere il conflitto bellico entro lo spazio vitale mediterraneo. L’alta marea panasiatica nipponica e quella pangermanica avrebbero preso il sopravvento con gran danno per la “nazione Proletaria” di pascoliana memoria.
Giorgio Galli nella sua fondamentale Storia del PCI sostiene che i veri teorici del togliattismo, che sarebbe nella prassi la via italiana al socialismo, provenivano in buona parte dei casi dalla sinistra fascista (da Alicata a Zangrandi passando per Ruinas). Per Galli il PCI è socialismo più il realismo machiavelliano di una certa tradizione politica italiana. Il segretario del PCI non vuole affatto la rivoluzione sociale, ma la lenta guerra di posizione per la conquista graduale del potere politico. Per questo rifiuta stranamente ogni scorciatoia insurrezionalista e blanquista.
Giorgio Galli nella sua fondamentale Storia del PCI sostiene che i veri teorici del togliattismo, che sarebbe nella prassi la via italiana al socialismo, provenivano in buona parte dei casi dalla sinistra fascista (da Alicata a Zangrandi passando per Ruinas). Per Galli il PCI è socialismo più il realismo machiavelliano di una certa tradizione politica italiana. Il segretario del PCI non vuole affatto la rivoluzione sociale, ma la lenta guerra di posizione per la conquista graduale del potere politico. Per questo rifiuta stranamente ogni scorciatoia insurrezionalista e blanquista.
Il “fuoco dell’azione come tempesta” (Blanqui) è estraneo alla strategia togliattiana. Del Noce stesso conferma che il PCI ha molto nel suo stesso codice genetico della sinistra movimentista fascista. E’ un movimentismo con un deficit nella testa strategica; un movimentismo senza una élite insurrezionalista “populista” che punti a chiudere velocemente i conti con la storia è destinato all’inconcludenza impolitica, d’altra parte la Russia del 1917 non può essere un modello sperimentale per un paese ben più avanzato come l’Italia, peraltro poverissimo di materie prime e con il solito Vaticano al centro del mondo religioso.
Berlinguer, allora responsabile della linea politica della FGCI, il più vicino — probabilmente con lo stesso Togliatti, secondo Buchignani; Cfr, p. 195 — alla visione del mondo del PN, finirà per imporre una linea politica assolutamente nazionalista prima alla gioventù comunista poi a tutto il Partito, nazionalismo populista stranamente rimosso anche nelle ricostruzioni storiche e ferocemente osteggiato dalle correnti trotsky-bordighiste e ultrasinistre dell’epoca. L’antagonismo strategico con la Jugoslavia di Tito e con la Francia socialista basato sulla logica della difesa dello stato nazionale, il culto dell’esercito e della vita militare, il principio secondo cui i confini territoriali della
nazione sono sacri, come sacra è la famiglia tradizionale, il rispetto della tradizione religiosa del popolo italiano, tutti questi sono punti di forza del prassismo togliattista. Ciò farebbe evidentemente inorridire la sinistra postmarxista o neomarxista della sezione di Capalbio, quella sinistra che celebra, senza forse ben conoscerne l’intera militanza politica e le finalità strategiche, Enrico Berlinguer come un proprio punto di riferimento.
Togliatti non fu antifascista. L’antifascismo italiano e globale è infatti in prima istanza di marca e sostanza radical-azionista e massonica. Con “L’appello ai fratelli in camicia nera” del 1936 il socialismo togliattiano rompe con l’antifascismo dogmatico e teorico di estrazione rosselliana e social-liberale e avvia un proprio percorso autonomo dal settarismo mondialista europeista ed internazionalista; sansepolcrismo, socializzazione, populismo socialnazionale divengono patrimonio politico del PCI. Togliatti volle provare a fondere questa tradizione politica nazionalpopolare italiana con il marxismo ortodosso sovietico, Mussolini la utilizzò cinicamente alla luce della strategia realistica blanquista e machiavellica finalizzata alla mera e immediata conquista del potere. Togliatti non era purtroppo un blanquista né un leninista ma non era nemmeno un socialdemocratico, come era all’epoca di moda sostenere tra le correnti dell’ultrasinistra, più vicine al futurismo estetizzante che al volontarismo gramsciano. Se i maoisti crearono la via cinese al marxismo che oggi è divenuto stato sociale confuciano, Togliatti creò una via italiana al marxismo. Se il PCI non avesse mortalmente esitato nei momenti decisivi e fosse stato in grado di prendere il potere politico, la storia del ‘900 sarebbe stata completamente diversa. La Russia non sarebbe più stata la principale guida del comunismo storico novecentesco ma avrebbe trovato un equilibrato modus operandi con l’Italia socialcattolica togliattiana.
nazione sono sacri, come sacra è la famiglia tradizionale, il rispetto della tradizione religiosa del popolo italiano, tutti questi sono punti di forza del prassismo togliattista. Ciò farebbe evidentemente inorridire la sinistra postmarxista o neomarxista della sezione di Capalbio, quella sinistra che celebra, senza forse ben conoscerne l’intera militanza politica e le finalità strategiche, Enrico Berlinguer come un proprio punto di riferimento.
Togliatti non fu antifascista. L’antifascismo italiano e globale è infatti in prima istanza di marca e sostanza radical-azionista e massonica. Con “L’appello ai fratelli in camicia nera” del 1936 il socialismo togliattiano rompe con l’antifascismo dogmatico e teorico di estrazione rosselliana e social-liberale e avvia un proprio percorso autonomo dal settarismo mondialista europeista ed internazionalista; sansepolcrismo, socializzazione, populismo socialnazionale divengono patrimonio politico del PCI. Togliatti volle provare a fondere questa tradizione politica nazionalpopolare italiana con il marxismo ortodosso sovietico, Mussolini la utilizzò cinicamente alla luce della strategia realistica blanquista e machiavellica finalizzata alla mera e immediata conquista del potere. Togliatti non era purtroppo un blanquista né un leninista ma non era nemmeno un socialdemocratico, come era all’epoca di moda sostenere tra le correnti dell’ultrasinistra, più vicine al futurismo estetizzante che al volontarismo gramsciano. Se i maoisti crearono la via cinese al marxismo che oggi è divenuto stato sociale confuciano, Togliatti creò una via italiana al marxismo. Se il PCI non avesse mortalmente esitato nei momenti decisivi e fosse stato in grado di prendere il potere politico, la storia del ‘900 sarebbe stata completamente diversa. La Russia non sarebbe più stata la principale guida del comunismo storico novecentesco ma avrebbe trovato un equilibrato modus operandi con l’Italia socialcattolica togliattiana.
Avrebbe alla fine prevalso per necessità storicistica il modello italiano. Una élite egemone comunista, cattolica, mediterranea, idealista avrebbe imposto nei fatti una nuova lettura storica e fenomenologica del concetto di socialismo umanizzandolo e purificandolo dal deforme substrato materialistico. Il comunismo non sarebbe “morto” sui campi afghani, ma avrebbe anzi condotto la lotta politica decisiva dei nostri tempi, in difesa dello Stato nazionale “borghese”, alleato di larghissime frazioni del proletario e della piccola-borghesia occidentali, contro la sinistra globalista, transgenica, “alto-borghese” e sionistizzata.
Il Partito Comunista Italiano avrebbe forse salvato l’Occidente dal capitalismo casinò e dalla follia liberista del globalismo arcobaleno. Non lo ha fatto. Non è stato all’altezza della sua missione e del suo compito storico. Ma noi non gettiamo il bambino con l’acqua sporca. I Fascisti Rossi, con la loro testimonianza, volevano liberare il campo fascista o postfascista dall’abbraccio tattico della destra nazionale golpista, franchista o militarista con il nemico mortale della loro rappresentazione di ex fascisti saloini, ossia gli USA, la Gran Bretagna e il sionismo.
I Fascisti Rossi non furono marxisti. Furono oggettivamente comunisti in quanto non solo fiancheggiarono il PCI nei momenti decisivi e più caldi della storia italiana postguerra civile, ma accusarono apertamente, contemporaneamente ai fatti, i vertici togliattiani e secchiani del Partito di scarso idealismo e di determinismo marxista astratto.
Di scarso comunismo addirittura, ove il comunismo fosse anzitutto e sopra tutto atto di umanesimo politico e non utopismo teorico dottrinario millenarista.
In realtà l’accusa, se può essere suggestiva, è forse fuori luogo alla luce dell’estenuante guerra di posizione ingaggiata da Togliatti. I Fascisti Rossi recupereranno il Marx blanquista de “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850” e de “La guerra civile in Francia” ma faranno tabula rasa del marxismo operaistico con il suo determinismo filosofico. I Fascisti Rossi avrebbero voluto imporre a Togliatti la rilettura gentiliana dell’immanentismo marxista; il PCI sarebbe così divenuto l’incarnazione politica dell’idealismo italiano da Vico a Gentile, passando per Silvio Spaventa, teorico dello “Stato forte” e ideologo del cavourismo.
Togliatti non avrebbe potuto, ammesso lo avesse voluto, dichiarare ufficialmente Giovanni Gentile, nemmeno quello di “Genesi e struttura della società” (per quanto Gentile sia morto da comunista, per quanto abbia infine teorizzato una società ideale in cui venga finalmente abolita la retribuzione economica dell’atto di lavoro, un atto spirituale che non può essere materializzato, economicizzato e compensato), il padre putativo del Partito Comunista italiano.
Da lì, stando alla testimonianza di Lando Dell’Amico, i rapporti tra i Fascisti Rossi di PN e Togliatti si incrineranno e comprometteranno definitivamente. Il segretario del PCI non gradirà neanche l’eccesso di laicismo anticlericale che molti collaboratori del sardo andavano esibendo nei vari articoli. Il “Fronte laico nazionale” di Ruinas, inizialmente sorto per fiancheggiare autonomamente il PCI nelle varie scadenze elettorali, finirà invece per sostenere la Sinistra DC e la “Base” di Enrico Mattei prima, Nasser, Gheddafi, il Baathismo panarabo poi.
Stanis Ruinas muore a Roma il 21 gennaio 1984; pare che le sue ultime posizioni geopolitiche fossero improntate alla devota causa della Rivoluzione iraniana guidata dall’Imam Khomeini e che vi sia stata la sua presenza all’ambasciata iraniana di Roma nel corso di conferenze sul pensiero politico sciita: “né oriente né occidente”, “né Usa né Urss”. Morì dunque così come ebbe vissuto: da italiano, mediterraneo, terzomondista, nemico irriducibile di sionisti ed occidentali, che il Nostro considerò sempre il Nemico principale di quell’Italia “proletaria e fascista” per la quale in gioventù avrebbe voluto dare la vita. Di quell’Italia proletaria e socialista, libera dalla NATO, per la quale avrebbe poi tenacemente combattuto in età più matura.
NOTE
1) Al riguardo: G. Parlato, “La sinistra fascista”, Il Mulino 2000; S. Fabei, “I neri e i rossi. Tentativi di conciliazione tra fascisti e socialisti nella repubblica di Mussolini”, Mursia 2011.
2) V. Lecis, “Il Nemico. Intrighi, sospetti e misteri nel PCI della guerra fredda”, Nutrimenti edizioni 2018; G. Fiocco, “Togliatti. Il realismo della politica”, Carocci 2018.
NOTE
1) Al riguardo: G. Parlato, “La sinistra fascista”, Il Mulino 2000; S. Fabei, “I neri e i rossi. Tentativi di conciliazione tra fascisti e socialisti nella repubblica di Mussolini”, Mursia 2011.
2) V. Lecis, “Il Nemico. Intrighi, sospetti e misteri nel PCI della guerra fredda”, Nutrimenti edizioni 2018; G. Fiocco, “Togliatti. Il realismo della politica”, Carocci 2018.
3 commenti:
Eeeehhhh... mi ricorda il fascismo immenso e rosso di La Rochelle.
Marxismo e nazionalsocialismo prefigurano pur sempre la ricerca di soluzioni identitarie e solidali avverso il processo di reificazione-atomizzazione. Dissentono sulla natura del vincolo solidale, e per questo si combattono appassionatamente: ci si uccide bene solo tra fratelli perduti. "Il rapporto tra amico e nemico non è quello tra tavola imbandita e sterco, ma quello del mescolamento e della copula, la notte di nozze degli opposti; un’orgia eraclitica".
Nel dopoguerra quanti erano stati fascisti per motivi d'ordine diventarono democristiani, coloro che ci credevano e che avevan voglia di menare le mani diventarono comunisti: il pensiero è schiavo della vita, e questa il giullare del tempo.
Cosa c'entra qui il vincolo solidale anonimo? Interessante il tuo commento.
Mario
Togliatti n°1 non certo l'eurocomunista Berlinguer la pippa.
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