[ 19 febbraio 2019]
Presentiamo ai lettori la seconda parte (QUI la prima) di questo studio sul pensiero di Toni Negri. Un breve ma poderoso saggio con cui si spiega e si difende la teoria marxiana del valore, che per Negri oggigiorno, nel tempo del "capitalismo bio-cognitivo" non sarebbe più valida.
* * *
LA LEGGE DEL VALORE NEL CAPITALISMO BIO-COGNITIVO
gli errori teorici di Toni Negri
di Mauro Pasquinelli
La
legge del valore è un caposaldo della teoria economica marxista. E’ il perno
concettuale dell’analisi delle leggi di movimento del capitale. E’ la madre di
tutte le leggi scoperte da Marx (dalla legge assoluta dell’accumulazione, al
plusvalore assoluto e relativo, fino alla legge della caduta tendenziale del
saggio di profitto, dal concetto di equilibrio al concetto di crisi e di ciclo economico). Non è un caso
se tutti i critici di Marx, pensando invano di demolirlo, hanno concentrato il focus su
questa legge, dai neoricardiani (secondo i quali la “trasformazione dei valori
in prezzi” del terzo volume inficerebbe la teoria del valore-lavoro) per finire con
André Gorz e il nostro Toni Negri. [1]
La teoria del valore-lavoro in pillole
Di
cosa tratta questa legge, in estrema sintesi? Lo spiegheremo provando a sintetizzare in pillole i primi due
capitoli del primo volume del capitale, da sempre considerati i più ostici alla
comprensione di un pubblico a digiuno di economia e filosofia.
Ogni merce, quindi ogni bene destinato allo scambio
(e nel capitalismo tutto è merce) è unità di due opposti: valore d’uso e valore di
scambio. Come determinare la grandezza di valore della merce? Non possiamo
farlo concentrandoci sul valore d’uso,
come pensano i teorici marginalisti neoliberali, perché ognuno di noi attribuisce un peso diverso ad ogni bene
in base alle proprie necessità e/o preferenze personali — ed anche quelle “marginali” sono
differenti per ogni persona. [2] Ne deriverebbero miliardi di grandezze di
valore diverse. Poiché il valore deve essere universale ed uguale per tutti ed
il prezzo pure, esso deve essere necessariamente calcolato nell’altro polo, il valore di scambio, che viene rappresentato universalmente
attraverso l’equivalente generale
del denaro. Come equiparare
in valore quindi un kg di patate con un litro di latte o due ore di lavoro
della badante? Smith e Ricardo, precursori di Marx, rispondono così: attraverso
il lavoro necessario a produrre questi beni. E siccome il lavoro si misura in
unità temporali essi si affrettano a dire: attraverso il tempo di lavoro
necessario alla loro produzione.
Ma
questa tesi, a sua volta, presenta un vulnus, mostra il fianco ad un
limite di misurazione: come uniformare il tempo di lavoro di un calzolaio
pigro, che produce 1 paio di scarpe
in una ora, con il tempo di lavoro di un’altro calzolaio più produttivo
che ne produce 2 paia nello stesso tempo? Qui interviene Marx con la famosa
categoria del lavoro socialmente
necessario. Il tempo che deve
essere calcolato (e questa operazione è compiuta dal mercato ex post) è un tempo medio sociale tra quello del calzolaio più produttivo e
quello del calzolaio meno
produttivo.
Ma rimane ancora un dilemma da risolvere: il lavoro
di un calzolaio è differente dal lavoro di un fabbro, di un contadino o di un
insegnante. Come equiparare lavori di natura e sforzo differente? Marx
risponde, introducendo per la prima volta nella teoria economica, la categoria
di lavoro astratto. Ogni lavoro particolare può essere commisurato con
ogni altro tipo di lavoro in quanto erogazione, in unità temporali di energia
fisica, psichica, intellettuale e muscolare.
Attenzione
quindi: il lavoro in quanto lavoro
astratto è lavoro indifferenziato, è erogazione di generica energia
psico-fisica umana. Grande intuizione di Marx, resa possibile
civettando con la logica di Hegel! Tramite questa categoria logico-dialettica
possiamo commisurare non solo tutti i valori delle merci ma anche lavori di
natura differente, per esempio lavoro manuale e lavoro intellettuale, lavoro
materiale e lavoro immateriale, lavoro di un addetto alle pulizie e lavoro di
un insegnante produttore di conoscenza. Marx non si accontenta e si spinge
oltre: lavori semplici ed esecutivi come quello del manuale si possono
equiparare con lavori più complessi come quello dell’ingegnere facendo
riferimento alla quantità di tempo
di lavoro socialmente necessaria per produrre un manuale o un ingegnere. Ben
detto, sarà un grimaldello per scardinare i super-critici, i critici-critici
della Teoria del valore!
Rebus sic stantibus passiamo
al revisionismo di Negri in tema di teoria del valore. Cosi scrive nel suo
ultimo libro:
«Mentre le imprese capitalistiche provavano a
misurare il valore dei prodotti industriali e culturali, in genere i prodotti
sociali resistono al calcolo. Come si quantifica il valore della cura prodotto
da un infermiere, o l’intelligenza di un addetto al call center che risolve
problemi informatici, o il prodotto culturale di un collettivo artistico o
l’idea prodotta da un gruppo di scienziati? Il valore del comune in generale resiste al calcolo e tutte queste attività del comune che costituiscono forme di vita
sociale si pongono oltre ogni possibilità di misura». [3]
Negri non si avvede che la risposta è proprio
nel primo volume del Capitale: è nella
categoria di lavoro astratto che per Marx, e qui egli opera un
ulteriore scatto logico-analitico, non è solo una operazione concettuale per
ridurre a misura e piegare alla contabilità in denaro entità differenziate di
lavoro concreto, ma è altresì l’approdo a cui è destinato il lavoro salariato
nell’epoca del capitalismo totale, che riduce tutto alla dimensione asettica
del calcolo: un lavoro non solo alienato ma appunto astratto, uniformato, de-soggettivato.
Lavoro che esce dal corpo non come praxis volontaria e oggettivante, non come
realizzazione di sé, ma come lavoro generico che precipita nello stesso tipo di
estraneazione sia l’infermiere che l’addetto al call center (solo per citare i
soggetti tirati in ballo da Negri
e che lui enfatizza spogliandoli di ogni dimensione negativa e
de-soggettivante impressi dal capitale).
Come vedremo nella terza parte della mia critica (general Intellect), Negri attribuisce al lavoro del Comune e alle forze produttive bio-cognitive in esso racchiuse, un carattere non
solo neutrale, ma addirittura portatrici di una plusvalenza di socialità, di
produttività bio-politica, di attitudine alla libertà e alla pluralità, di
produzione di senso, di autonomia dal comando capitalistico. Se ci pensate bene
siamo agli antipodi degli insegnamenti della Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno e Marcuse) che infatti
Negri stigmatizza con queste durissime espressioni:
«Infatti la tragica valutazione di Horkheimer e
Adorno dell’umanità moderna, della sua ideologia e delle sue tecnologie può
portare solo ad amare rassegnazioni piuttosto che ad un progetto attivo. [4]
Negri non si spinge fino a negare che il lavoro
vivo è la fonte del valore (come fanno i neoricardiani e i marginalisti).
Sostiene la tesi che oggi, nel capitalismo bio-cognitivo, dove la conoscenza e
l’intelligenza sono diventate la principale forza produttiva (come del resto
scritto da Marx nei Grundrisse) entra
in crisi la misura del valore. In altre parole il valore di scambio non può essere più misurato dal tempo di lavoro.
La produzione del comune contiene una
eccedenza in termini di affettività, di imaginazione, di cura, di saperi, di
codici, che non si fa ridurre al calcolo matematico dei tempi. Negri non si
avvede che rendendo irriducibile la produzione del Comune al calcolo non fa che destituire di fondamento la stessa teoria
del valore-lavoro, poiché essa è incentrata esattamente sul calcolo del tempo
di lavoro astratto socialmente necessario. E dove non è possibile la
misura si smarrisce l’essenza della legge, la sua geometrica e
matematica certezza.
Ma
Negri sa che dove lui non trova la misura, (cioè il prezzo) ci pensa il mercato
a trovarla. E il mercato non è una entità soprannaturale slegata dal processo
di circolazione del valore, ma il luogo geometrico dove si traducono le merci e
dove esse realizzano un prezzo che deve necessariamente coprire i costi di
produzione più il profitto dell’imprenditore. Ove questi non si realizzano il
mercato ti espelle alzando cartellino rosso. L’addetto al call center e
l’infermiere ricevono un salario che è l’equivalente, non della affettività da
loro trasferita sul lavoro (sic!), ma del tempo di lavoro socialmente necessario a produrre i beni-salario
(benzina, macchina, alimenti, vestiti, telefonino etc) che servono a
ri-produrli come forza-lavoro. Il capitale ragione in modo molto più materiale
e concreto delle imbarazzanti,
sofisticherie negriane.
La cortina fumogena del Negri-pensiero comincia a dissolversi. Ma siamo solo all’inizio.
Andiamo oltre!
Legge del valore e capitalismo bio-cognitivo
Ripetendo concetti già espressi da Marx nei Grundrisse e nel Capitolo sesto inedito del Capitale, Negri certifica che la fonte
di tutta la ricchezza sociale e quindi del valore totale risiede nel lavoro vivo; ma non più nel lavoro immediato del singolo operaio bensì
nel lavoro cooperativo e cognitivo
sociale. Aggiunge che la forma
e il contenuto di questo lavoro cooperativo del “Comune”, nel passaggio dal
fordismo al postfordismo cambia di segno: non è più lavoro materiale, trasformazione dell’oggetto alla catena
di montaggio ma produzione di conoscenze,
di intelligenza, di affettività, persino di cura. E come misurare
l’intelligenza, l’immaginazione, l’intuito del pubblicitario, il senso
estetico, il giudizio, il livello di formazione e d’informazione, la facoltà di
apprendimento e di adattamento a situazioni impreviste, l’arte di convincere
l’interlocutore e il consumatore? Tutto ciò non può piu’ essere misurato in
unità di tempo astratte, non si fa ridurre alla quantità di lavoro astratto di
cui sarebbe l’equivalente.
Io aggiungerei, per complicare il quadro, che si presenta
un ulteriore difficoltà: l’infinita catena globale del valore. Se è vero
che la merce diventa merce globale e le sue molteplici componenti vengono
prodotte da un polo all’altro del pianeta, con regimi di salario e di costi
differenti, con poteri di acquisto della moneta e livelli di produttività
estremamente diversificati, come raccapezzarsi e formulare un calcolo dei tempi
di lavoro di ogni singola merce?
Faccio notare e sottolineo en passant che il
vero padre di questa teoria non è Tony Negri bensì Andre’ Gorz. [5] Ma sorvoliamo
sul plagio e torniamo in medias res.
Alle precedenti domande si può rispondere
facilmente. Andiamo per gradi.
a) Il sistema capitalistico fissa il prezzo delle
merci non nella sfera del processo di produzione, quando le merci sono appena
uscite dalla fabbrica, ma nella sfera del processo di circolazione, a meno che
non ci si trovi di fronte a prezzi di monopolio o di oligopolio pre-fissati dal singolo capitale.
b) La fissazione del prezzo di un bene a livello
mondiale non è arbitraria ma dipende sempre dai livelli di produttività media
del lavoro che ha generato quel bene. E cosa indica il concetto di produttività
se non una formula matematica dove al numeratore poniamo la quantità di beni
prodotti e al denominatore il numero delle ore di lavoro?
c) Lo stesso saggio medio di profitto, che entra a
far parte del prezzo di produzione, non può essere stabilito dai singoli
capitalisti ex ante ma dal mercato ex-post ed esso è la
risultante dell’interazione tra migliaia di venditori che agiscono sul mercato.
Il processo capitalistico è processo di produzione e processo di realizzazione
del valore. I due momenti non possono essere disgiunti.
d) E’ pleonastico far notare che se nessuno vuole
la merce prodotta, se la merce non risponde ad un valore d’uso, quella merce
non ha nessun valore. Le ore impiegate alla sua produzione valgono zero. Ma se
facciamo astrazione dal valore d’uso e diamo per assunto che la merce
corrisponde ad un bisogno capace di pagare, essa, per essere venduta, deve fare
i conti con l’ostacolo della produttività media (quantità di prodotto per ore
lavorate) e qui entra in gioco la legge del valore. Se non superi questo
scoglio sei fuori dal mercato!
e) Last but not least, qui entriamo nel
cuore della confusione analitica di Negri. La conoscenza, l’intelligenza, l’intraprendenza, l’intuito,
la cura, l’affettività, tutte
queste qualità immateriali che Negri pone a fondamento della creazione di
valore nel Comune (e non più
misurabili secondo lui) non sono affatto fonte di valore ma di plusvalore relativo. Non sono
misurabili perché non entrano nel processo di creazione del valore di scambio.
E’ qui l’arcano del valore che Negri non riesce a penetrare e svelare. Esse
rappresentano doni gratuiti della natura umana che consentono al capitale che
se ne appropria, e che recinta e cattura (come i famosi beni comuni
nell’accumulazione originaria, corvees)
di estrarre valore, di aumentare il tasso di sfruttamento del lavoro vivo,
cioè la relazione tra plusvalore e capitale variabile (salario).
Anche la natura fornisce doni gratuiti senza aggiungere valore alla merce.
L’abbondanza di acqua o di materie prime in un determinato luogo è fonte di
valori d’uso e di ricchezza, è una bonus per il capitale che li
cattura, ma è un dono gratuito dal
punto di vista della creazione di valore di scambio. Negri, come nella teoria
dell’Impero, cade di nuovo nell’astratto
indifferenziato, nella totalità priva di senso, e mette nello stesso
sacco il processo di creazione di
valore d’uso e valore di scambio come avessero la stessa natura. Ma per Marx
hanno una relazione antitetica e spesso inversa. Infatti quanto più aumenta la
produttività del lavoro, quanto più aumentano i valori d’uso (e quindi la
ricchezza sociale) tanto più ogni
singolo valore d’uso perde valore di scambio.
Malgrado Il
Capitale sia stato uno dei centri del suo studio (negli anni ‘60 già organizzava
corsi su questo testo) Negri — mi
perdoni l’irriverenza — non ne ha
ancora afferrato la dialettica
immanente, tra astratto e concreto, tra valore d’uso e valore di scambio, tra
lavoro astratto e lavoro concreto, alla base del metodo analitico marxiano.
f) La
scienza, la conoscenza e l’intelligenza, se non sono incorporate nel capitale
attraverso l’innovazione tecnica, il trasferimento nel corpo fisico della
macchina, se non diventano software di un Hardware non intaccano e non offrono
nulla al processo di produzione capitalistico. La geniale intuizione di James
Watt (ma potremmo dire di internet,
del digitale etc) sarebbe morta nel suo laboratorio se non fosse stata
incorporata nella nuova tecnologia della macchina a vapore. Ma una volta
che l’intuizione, l’idea, la facoltà di comprensione, l’arte, cioè tutte queste
facoltà immateriali che distinguono l’uomo dai suoi cugini animali, vengono
catturate e recintate dal capitale, esse si trasformano in capitale fisso
(macchine, macchine che producono macchine fino all’intelligenza artificiale),
lavoro morto ed oggettivato, che come tale non crea alcun nuovo valore anche se
consente di accrescere il lavoro superfluo a spese di quello necessario
(plusvalore relativo) e la ricchezza sociale in termini di valori d’uso. [6] Il
capitale fisso — o capitale
costante — trasferisce, come ammortamento
nel valore finale, solo la quota di valore in suo possesso, ma non
aggiunge nuovo valore al capitale iniziale investito, come invece è prerogativa
del lavoro vivo e astratto.
g) Quantunque l’intelligenza e l’immateriale
finisca come componente del lavoro vivo (per esempio nel toyotismo, nella lean
production del just in time, dove la capacità di autocorrezione in
situazioni di anomalia,
l’autonomia intellettiva dell’operaio, il lavoro per squadra che
promuove la responsabilità, è fonte di valorizzazione) essa è pagata, come abbiamo visto
sopra, come capitale variabile. E
il capitale variabile viene calcolato dal capitalista — come abbiamo visto
— non per chissà quale dote
immateriale e impalpabile del salariato (le sue intuizioni, la sua affettività,
etc.) ma per il valore dei beni-
salario che servono a tenerlo in vita come forza-lavoro astratta e
riproducibile (sottolineo riproducibile). Solo in questo caso l’immateriale
rientra a pieno titolo nella categoria del lavoro vivo astratto in grado di
creare nuovo valore. Ma vi rientra come lavoro intellettuale che, in quanto
lavoro astratto, è compreso sempre nella categoria di lavoro vivo, come il
lavoro manuale. Ognuno può intuire che nello stesso lavoro manuale è contenuto
lavoro intellettuale, conoscenza, gnosis. Non c’è muratore che prima di
elevare un muro non faccia sforzo cognitivo, non sprigioni arte, esperienza e
sapienza (qualità immateriali che si traducono in un muro materiale) Teoria
e praxis, praxis e teoria sono componenti materiali ed immateriali del lavoro
vivo astratto.
h) En passant
e a scanso di equivoci rilevo che la conoscenza e l’intelligenza, che nella
circolazione del valore si da come brevetto o proprietà intellettuale di
singoli capitali, non è sorgente di valore ma funzione estrattiva di valore già
creato, in una parola rendita.
Negri e il “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse
Per
facilitare al lettore il compito di comprensione di questo frammento [7], che è
tra i più complessi e incompresi degli scritti di Marx — e che Negri prende a fondamento per la sua
demolizione della teoria del valore-lavoro, reiterandolo sottotraccia e in modo
fantasmatico in tutti i suoi scritti dagli anni 60 — immaginiamo ciò che Marx stesso aveva ipoteticamente in
mente: una economia dove un singolo operaio muove un sistema automatizzato di
macchine che produce l’intera ricchezza sociale, o se volete una fabbrica
interamente automatizzata messa in movimento da un solo operaio. Scopriremmo,
applicando la legge del valore, che in essa la creazione di nuovo valore
precipita vicino allo zero. Il plusvalore relativo e assoluto crollano e con
essi la base su cui poggia e si eleva la produzione capitalistica. Con ciò sottolinea Marx:
«la produzione basata sul valore di scambio crolla e il processo produttivo materiale viene a perdere la forma della miseria e dell’antagonismo».
Prendendo
per buono il paradosso [8] a cui Marx spinge l’astrazione del valore, Marx ha
ragione. Ha torto Negri quando trasforma questo paradosso analitico, questa
iperbole teorica nello schema che raffigura il capitalismo bio-cognitivo
post-fordista. Infatti basta osservare l’economia del paese tecnologicamente
più avanzato del mondo (gli Usa) e scopriamo che ivi la disoccupazione oggi è
al 4% — molto più alta in verità — e l’immensa ricchezza sociale di questo
paese eè prodotta, non da un solo operaio che muove tutto, ma da decine di
milioni lavoratori salariati, (compresi quelli de-localizzati all’estero e che
lavorano per le multinazionali Usa) erogatori di lavoro vivo astratto,
produttori di plusvalore relativo ed assoluto. La legge del valore non è
tramontata, è più viva che mai, almeno fino a quando sopravviverà la vessante
forma capitalistica del processo di produzione. Speriamo non molto.
NOTE
[1] Nel mio scritto Andare oltre Marx — Prima parte, Seconda parte, Terza parte — presuppongo la validità, che
resiste ancora alla forza del tempo e del cambiamento, della sua geniale teoria
economica , dedicandomi alla critica del suo pensiero nella sfera politica e
filosofica.
[2] Per i marginalisti non c'è alcun parametro oggettivo che determini il valore di una merce, in quanto esso sarebbe determinato, in ultima istanza, dalle preferenze e dalle decisioni del consumatore. Di qui la definizione di "teoria soggettiva del valore".
[3] Toni Negri e Michael Hardt, Assemblea, ed. Ponte alle Grazie 2019 pag
277
[4] Toni Negri ibidem, pag 150
[5]
André Gorz, L'immateriale, Bollati Boringhieri 2003.
[6] La Divina Commedia di Dante Alighieri arricchisce la società di
bellezza ma non aumenta di un euro il valore prodotto fino a che non ci sia un
capitale o un editore che stampa il suo libro in serie illimitata.
[7] Come è noto Marx non pubblicò mai i Grundrisse, che erano quaderni di appunti
in vista della scrittura del Capitale. Questa frammento, che io considero una
iperbole teorica, una estrema astrazione analitica, non troverà mai spazio nei tre volumi del Capitale.
Scrive
Marx:
«Nella grande industria la ricchezza reale si manifesta nella
straordinaria sproporzione tra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto,
come pure nella sproporzione qualitativa tra il lavoro ridotto a pura
astrazione e la potenza del processo produttivo che esso sorveglia. Il lavoro
non si presenta più tanto come incluso nel processo produttivo in quanto è piuttosto l’uomo a porsi come sorvegliante e regolatore nei confronti del
processo produttivo stesso...l’operaio si sposta accanto al processo produttivo
invece di esserne l’agente principale. In questa situazione modificata non è più il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli
lavora, bensì l’appropriazione della sua forza produttiva generale, lo
sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilastro della
produzione e della ricchezza. Il furto di tempo di lavoro altrui, sulla quale
si basa la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile in confronto a questa nuova base, creata dalla grande industria stessa. Non
appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della
ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di esserne la misura, e
quindi il valore di scambio cessa e deve cessare di essere la misura del valore
d’uso...con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla e viene a
perdere esso stesso la forma della miseria e dell’antagonismo”.
K. Marx, Grundrisse, Einaudi 1976. pag 717
[8]
Marx forza l’analisi astrattamente fino al paradosso per indicare
l’approdo a cui può condurre la tendenza di sviluppo del sistema
capitalistico, se portata all’estremo la crescita della composizione organica
del capitale (rapporto tra capitale investito in tecnologia e salari, per
unità di capitale o di prodotto)
sostieni SOLLEVAZIONE e P101
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