[ 21 febbraio 2019 ]
Che c'azzeccano i cantieri? E che c'azzecca l'instabilità politica con il crollo del fatturato dell'industria?
Il dato è di quelli che non ammette troppi discorsi. A dicembre il fatturato dell'industria italiana è calato del 3,5% rispetto a novembre e del 7,3% rispetto al dicembre 2017. Eravamo dunque stati facili profeti nel pronosticare il consolidarsi di una seria tendenza recessiva.
«E' successo che il ciclo economico capitalistico volge verso il basso. E, come avviene da anni, il calo è più marcato in Europa. All'interno della quale l'Italia paga più degli altri la gabbia dell'euro. Insomma, la verità è che siamo nella norma. Quella norma da cui non si può uscire, altrimenti i "mercati" (cioè l'oligarchia finanziaria) ci puniscono con lo spread».
Proprio perché questa fotografia è difficile da contestare, lorsignori amano parlar d'altro. La loro narrazione è semplice: si va verso la recessione perché abbiamo instabilità politica ed un governo di incapaci "blocca-cantieri".
Il problema è che questa menzogna non regge. Ed i nostri pinocchietti del "partito del pil" si auto-smentiscono ogni volta che aprono bocca.
Vediamo alcuni esempi, cominciando con il commento del presidente di Confindustria sui dati dell'Istat. Per Boccia la risposta da dare è chiara: bisogna aprire i cantieri. Quali? Tutti. Quando? Domani mattina, ma che domande! Con quali soldi non si sa, dato che il Boccia reclama investimenti pubblici ma anche rigore nei conti. Peccato che le due cose abbiano qualche difficoltà a stare insieme.
Subito dopo, però, il Boccia si scioglie ammettendo che siamo in un «contesto economico che sta rallentando e che è arrivato anche in casa essendo il nostro un paese ad alta vocazione all'export». Che si riferisca agli ultimi dati della Germania? Eh già, perché la "locomotiva tedesca" è ferma da sei mesi. Anzi è un po' più che ferma, visto il -0,2% del terzo e lo zero tondo del quarto trimestre 2018. Che anche in Germania vi sia il problema dei cantieri e dell'instabilità politica? Suvvia, non scherziamo.
Boccia sa bene come stanno le cose, tant'è che parlando delle previsioni sul Pil 2019 dice papale papale: «Purtroppo, dati i contesti esterni, non del governo, questa crescita si ridurrà». «Contesti esterni», interessante confessione, che ci dice quanto c'azzecchino i cantieri e l'instabilità politica con le attuali difficoltà economiche. Quel che il capo di Confindustria non può invece dire è che in crisi è proprio il modello mercantilista tedesco, che l'Italia ha adottato con decisione con il governo Monti, che se da un lato ci fa dipendere ancor più di prima dalla Germania (se l'export tedesco cala, calano anche le forniture italiane all'industria tedesca), dall'altro deprime necessariamente i salari e dunque la domanda interna del nostro Paese.
Anche se "mercantilismo" resta una parola proibita, è di questo che ci parla Federico Fubini sul Corriere della sera di ieri. La citazione è lunga, ma estremamente utile:
«Quel che conta non è la congiuntura - migliorerà - ma la miopia che sta diventando evidente nella strategia europea di questi anni. Nella massima sintesi essa è spesso una brutta copia di quella della nazione guida: come la Germania tutti i Paesi dell'euro (va detto, meno la Francia) hanno cercato di creare crescita e lavoro quasi solo tramite l'export, i surplus commerciali e quindi sfruttando la voglia di spendere del resto del mondo. La Cina siamo diventati noi, noi europei. Siamo noi la principale fonte di squilibri al mondo: vendiamo all'estero molto più di quanto compriamo e spesso lo facciamo grazie al lavoro a basso costo».
Davvero un'ottima sintesi del modello euro-germanico, imposto via moneta unica al resto dell'eurozona. Ma qual è stato l'effetto di questo modello sulle popolazioni europee ed in particolare sui lavoratori? Così prosegue Fubini:
«Dal 2010 il saldo degli scambi dell'area sul resto del mondo è esploso da zero fino a un surplus fra i 300 e i 400 miliardi di euro. Nel frattempo, la quota di lavoratori dipendenti in condizioni di povertà in area euro è esplosa ben sopra quota 9%. Questo è il dato che più avvicina la Grecia, l'Italia e la Spagna alla Germania: la povertà fra coloro che hanno un lavoro.Sono il 9,1% fra i tedeschi, il 12,2% fra gli italiani, il 12,9% fra i greci, il 13,1% fra gli spagnoli (molto meno invece in Francia o in Scandinavia). Per una volta siamo nella categoria della Germania, peccato non sia quella giusta». (tutte le sottolineature in grassetto sono nostre)
Ben detto Fubini! Tutte cose giuste, ma allora perché hai aperto il tuo ragionamento scrivendo che:
«Questa recessione italiana nasce dall'"incertezza", eufemismo per dire che le sbandate sul bilancio nel 2018, quindi la tensione sui mercati, hanno frenato gli investimenti delle imprese»?
Già, chissà perché! Sai che risposta difficile!
Hai voglia di far ragionamenti sensati, tanto alla fine la narrazione da vendere ai lettori ha da essere sempre la stessa. Interessante però come le due cose (i ragionamenti e la narrazione) non riescano più a stare insieme.
Torniamo adesso al Sole 24 Ore di ieri. Nella stessa pagina che dà voce a Boccia abbiamo anche un'intervista a Paolo Lamberti, presidente di Federchimica. Il Lamberti ci dice tre cose. Primo: «Il dato negativo di produzione riferito alla chimica, peraltro non riguarda solo l'Italia, ma in generale l'area euro nel suo complesso». Secondo: «Il deterioramento riguarda sia il mercato interno, sia quello europeo. Nei mercati extra-europei riscontriamo un rallentamento decisamente meno marcato». Strano, chissà perché... Infine il terzo punto: «Uno dei fattori determinanti nell'aggravare la situazione è la profonda incertezza connessa al contesto politico, sia nazionale, sia internazionale». (anche qui le sottolineature sono nostre)
Ora, sono almeno quarant'anni che gli industriali, quando le cose non vanno, la buttano addosso all'incertezza politica, così intendendo in genere quel poco che rimane della democrazia. Ma qui il Lamberti parla di ben altri fattori, riducendo il discorso sulla cosiddetta "incertezza" ad una formula generica assai, la qual cosa non impedisce però al giornale di Confindustria di sparare il solito titolo mirato contro il governo populista.
Concludiamo questa rassegna sui commenti "che contano" alle cifre dell'Istat sul calo del fatturato dell'industria, con un breve sguardo alla sua scomposizione per settori. Dati che smentiscono clamorosamente tutte le litanie sui "cantieri chiusi" dei pinocchietti di quel "partito del pil" guidato dallo stesso Boccia attualmente a capo degli industriali italiani.
Se il calo a dicembre è stato generalizzato, quali sono i due settori che hanno registrato un tonfo a doppia cifra? Il primo è quello dei mezzi di trasporto (-23,6%), il secondo è l'industria farmaceutica (-13,0%). Che c'azzeccano questi due settori con i famosi cantieri?
Ma l'Istat è generosa e ci fornisce anche i dati degli ordinativi, sempre riferiti al mese di dicembre. Anche qui un calo notevole, ma se la media è del -5,3%, quali sono i settori in maggiore sofferenza? Quelli con il segno meno a doppia cifra sono: apparecchiature elettriche (-21,4%), computer ed elettronica (-20,3%), prodotti farmaceutici (-14,6%), mezzi di trasporto (-11,4%). Che c'azzeccano queste cifre con i mitici cantieri?
Ovviamente - chiarito che le cause della recessione sono fondamentalmente altre - ben vengano gli investimenti pubblici e pure (purché siano quelli socialmente utili) i cantieri. Quali cantieri l'abbiamo scritto a dicembre: quelli per accelerare la transizione energetica verso le rinnovabili, quelli per la sicurezza idrogeologica, quelli per la prevenzione antisismica e per dare finalmente una casa ai terremotati del centro Italia, quelli per potenziare il trasporto ferroviario regionale, quelli per modernizzare scuole e ospedali.
Benissimo, tutto ciò va fatto, ma sapendo che lo si potrà fare solo rompendo con i vincoli europei, scontrandosi con l'UE, ed in definitiva uscendone per riconquistare la sovranità monetaria e con essa la possibilità di praticare una diversa politica economica.
In conclusione, le cose sono chiare oggi più che mai. Tant'è che - lo abbiamo visto in questo articolo - anche chi grida ai "cantieri bloccati", al Tav od all'instabilità dovuta al governo gialloverde, alla fine deve poi riconoscere che il marcio sta altrove: per l'esattezza subito a sud della Danimarca.
4 commenti:
La retorica delle fonti rinnovabili è uno dei cavalli di battaglia dei decrescisti, perfettamente interno alla propaganda ecologista. Da anni se ne fa un uso politicamente orientato.
Magari una analisi più obiettiva, piuttosto che auspicare un raggiungimento del "100% dalle fonti rinnovabili" del tutto ipotetico, sarebbe stata migliore.
Davvero le fonti rinnovabili potrebbero far andare avanti al 100% un paese industrializzato? Io ne dubito.
All'anonimo delle 17,17
Che ci sia una retorica - politicamente orientata - delle fonti rinnovabili, cui corrispondono corposi interessi, è del tutto evidente.
Ma questo significa forse che il tema di un'energia più pulita non debba interessarci? Sarebbe follia pura.
Dunque, a mio modesto avviso, respingiamo quella retorica - fra l'altro alimentata ad arte dal catastrofismo sul cambiamento climatico - ma al tempo stesso battiamoci per migliorare l'ambiente.
E' possibile tutto ciò si chiede l'anonimo? Assolutamente sì.
Servirebbe "un'analisi più obiettiva"? Magari un'analisi più approfondita, questa sì. Ma non era il tema dell'articolo citato.
Il quale non parlava affatto di un raggiungimento del 100% di rinnovabili sui consumi energetici complessivi, bensì di un 100% su consumi e produzione di energia elettrica da raggiungersi in 20-30 anni. Sono cose diversissime, anche se tutti - commentatori, politici, giornalisti - tendono sempre a confondere i due dati.
In ogni caso io ho solo affermato che:
"Spingendo principalmente sul solare e sull'eolico, in Italia ci sono le condizioni per arrivare nell'arco di un ventennio (massimo un trentennio) ad una produzione di elettricità ottenuta al 100% dalle fonti rinnovabili".
E' plausibile questo obiettivo? Assolutamente sì.
Mercantilismo e neoliberismo, la versione moderna del sistema schiavistico e la ragione per cui non si può ridurre la disoccupazione investendo in fonti di energia rinnovabile.
La chiarissima analisi di Mazzei individua il punto centrale della menzogna neoliberista e del suo corollario mercantilista: se si produce in tutti i Paesi per esportare, chi ci guadagna maggiormente? Ovviamente chi gestisce questo meccanismo. Storicamente i grandi patrimoni si sono creati sullo sfruttamento privo di vincoli della manodopera. Il caso più estremo è stato quello della schiavitù: agli schiavi il minimo necessario per sopravvivere, tutto il resto per l'esportazione ed i profitti di chi gestiva questo commercio. La moderna versione di questa schiavitù dei produttori al servizio dei mercanti è appunto il modello neoliberista. Un modello che proprio per sua intrinseca natura deve continuamente condurre a crisi di sorapproduzione, che limita unicamente con la disoccupazione forzata, ma siccome è difficile mantenere un equilibrio fra forza lavoro occupata ed esercito industriale di riserva, le crisi si ripetono con costante regolarità.
Se questo è il sistema, è evidente che chi ne approfitta non può aver einteresse a creare posti di lavoro nel settore delle energie rinnovabili: semplicemente perché nonsi esportano, o al massimo in misura irrisoria.
Creare almeno una parziale indipendenza energetica (totale è impossibile allo stato attuale della tecnica) significherebbe due cose:
1) ridurre i profitti di chi importa/esporta petrolio e gas (cosa vellitaria poiché sono le più potenti lobbies in tutto il mondo)
2)aumentare corrispondentemente il reddito degli addetti all'interno di ciascun Paese a detrimento dei profitti suddetti e senza utili per gli esportatori:
Sarebbe una mossa intelligente e utile, ma danneggerebbe tutti coloro che dal sistema attualmente estraggono i massimi profitti.
Nulla da eccepire. L'analisi e' purtroppo tristemente nota; il problema e' come farla diventare mainstream.
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