[ 13 novembre 2018 ]
L'analisi che Ramarrik De Milford sviluppa sulla nobiltà contemporanea può a primo acchito sembrare appartenere ad un ambito frivolo e di nicchia; in realtà, quale profondo conoscitore delle istituzioni nobiliari,l'autore tratteggia il ruolo reazionario che questi ceti continuano ad interpretare nella società sempre più post-borghese, e ne fa emergere con rara chiarezza, ricchezza di dettagli e rigore filologico, l'istinto di classe ed il coordinamento con cui pervicacemente, come minoranza colta ed organizzata, influenzi le istituzioni per ripristinare - a discapito tanto delle democrazia costituzionale, quanto dell'unità e dell'indipendenza nazionale stessa - l'ordine classista dell'antico regime.
In sintesi, il tema è strettamente connesso a quello delle aspirazioni neomedievali dell'antica aristocrazia terriera che si salda con quelle della grande borghesia, per condurre gli stati nazionali democratici verso una restaurazione global-imperialista.)
Premesse
La progressiva riaffermazione del pensiero e delle categorie conservatrici nel continente europeo a partire dalla fine degli anni ‘70 del secolo appena trascorso costituisce un fenomeno di notevole complessità che, oltre a ridefinire i rapporti strutturali, ha riguardato necessariamente anche aspetti accessori talvolta “frivoli” dalla cui analisi tuttavia, a corollario delle più fondamentali riflessioni economico-giuridiche più volte espresse in questo blog, si può bene intendere quale sia il modello sociale a cui serenamente, per non dire sfrontatamente, si ispirano gli elitisti nostrani: il feudalesimo.
Oltre a provocare nostalgiche simpatie in quanto struttura sociale nella quale un ceto gode in maniera inscalfibile e perpetua il bene della sicurezza per sé unito al privilegio di comandare chi di questo bene non gode, il feudalesimo quale struttura dell’Antico Regime offre un ampio ventaglio di “eleganti” e “romantiche” soluzioni per consolidare e cristallizzare, sul piano ideale e soprattutto morale, gli equilibri di classe. E’ dunque naturale che vecchi e nuovi redditieri siano sempre stati interessati a recuperarne quanto più possibile l’apparato e i simboli. In questa prospettiva l’abbattimento degli emblemi feudali successivo alle rivoluzioni borghesi e i proclami di uguaglianza sono stati per la borghesia un fenomeno del tutto transeunte giustificato da contingenti necessità aggregative e di mobilitazione delle masse, prevalendo anzi nelle fasi più mature l’urgenza di cancellare – proprio per il tramite del recupero di queste simbologie antiche - il peccato originale della propria recente e violenta ascesa politica scongiurando al contempo il possibile ripetersi di eventi simili questa volta sfavorevoli.
Esemplare a tal proposito, e modello per tutta l’Europa continentale, fu il caso della Francia laddove, oramai consolidata l’eversione degli antichi diritti ancora in mano ai ceti dirigenti dell’Antico Regime, la locale borghesia si affrettò a recuperare tutto l’armamentario prerivoluzionario dando vita ad un sistema istituzionale espressione di una rinnovata – ma sempre “naturale” - disuguaglianza fra gli uomini. Ecco dunque ricomparire, già sotto Napoleone I ma soprattutto con il Secondo Impero, segni d’onore e distinzioni quali titoli nobiliari ed ordini cavallereschi che costituirono, in epoca rivoluzionaria, i più odiati simboli del privilegio di Antico Regime. Questo fenomeno peraltro si risconta in tutta Europa durante la Restaurazione, quando i patriziati e le antiche distinzioni onorifiche ripresero ovunque vigore divenendo efficace sanzione della rispettabilità e della intoccabilità del nuovo ceto dirigente.
Del tutto peculiare, per non dire addirittura più efficiente, fu nel medesimo periodo l’esperienza britannica laddove la particolare struttura della locale aristocrazia – oramai non aliena alle logiche del capitalismo e dell’impresa - determinò una singolare commistione di interessi con gli “uomini nuovi” tale da non rendere necessaria a quest’ultimi l’apertura di una nuova fase rivoluzionaria dopo Cromwell e neppure la proclamazione, per quanto strumentale e opportunistica, di pericolose ideologie egalitarie. Questa naturale osmosi tra i due ceti – quello nobile e quello borghese - con la condivisione di stili di vita e simboli, fece del caso britannico un esempio di rapporti sociali oltremodo ammirato nel Diciannovesimo secolo. Non a caso modello del nostro “notabile” dell’Ottocento maturo è infatti il “gentlemen”, ossia l’uomo d’affari spesso proveniente dalla piccola aristocrazia di provincia dedito ad amministrare i propri possedimenti ed impegnato in lucrosi commerci, che ama ritirarsi in campagna per il “week-end”, frequenta circoli maschili – in quel periodo ne nasceranno diversi sul continente proprio su modello inglese - ed è assolutamente leale al suo re da cui riceve onori, incarichi e gli immancabili ordini cavallereschi. Quanto poi ai rapporti familiari, il naturale complemento di tale modello maschile riposava in una figura femminile che, oltre a consentire l’espletamento delle funzioni riproduttive in un contesto di riconosciuta legittimità, contribuiva a tessere utili relazioni sociali per il marito con una attività meno visibile ma non meno importante tramite la quale disattivava anche, con opportune iniziative caritatevoli sovente mediate dalle strutture religiose, qualunque possibile iniziativa rivendicativa dei ceti inferiori non ammessi a partecipare a questo “magnifico mondo”.
Questa arcadia dei rapporti sociali di gusto neogotico e financo bucolico patì in tutt’Europa la quanto mai “fastidiosa” ed “inelegante” irruzione delle masse nella vita sociale delle nazioni. A partire dalla fine della prima guerra mondiale l’abbattimento degli imperi centrali e di quello ottomano – esperimento che le borghesie preferiranno guarda caso non ripetere scegliendo per il futuro, dove possibile, il mantenimento delle vecchie forme monarchiche anche presso le nazioni sconfitte – sanzionò infatti l’emergere di una nuova estetica forgiata nelle trincee e nelle fabbriche che propose gli strumenti del lavoro dell’uomo, e non le corone o le croci di cavaliere, quale fattori distintivi della nuova componente sociale. Si può anzi registrare l’interessante fenomeno di una rottura originalissima e radicale, principiata dopo la fine del primo conflitto mondiale ed ulteriormente rafforzatasi dopo la conclusione del secondo, nell’estetica e nei segni distintivi di chi si proponeva come avanguardia delle nuove componenti sociali tanto da incidere financo nella definizione dei simboli dei neonati ordinamenti statuali: se infatti i ceti dirigenti feudali avevano rivendicato una orgogliosa continuità con le cariche e le simbologie di ceto – a partire dal cavalierato - della Roma imperiale, e così le borghesie europee che si rifecero tanto a Roma quanto all’Antico Regime nel definire i propri simboli distintivi, le componenti popolari e socialiste fecero di ingranaggi meccanici, falci e martelli - e persino centrali elettriche!! - i simboli dei nuovi ordinamenti che rifuggivano il concetto stesso di élite traendo nella legittimazione delle masse e nel soddisfacimento dei bisogni essenziali della Nazione – lavoro, progresso civile, previdenza sociale -la propria ragion d’essere ed il proprio fine specifico.
Non casualmente dunque le uniche forze politiche che nel Novecento non interruppero la continuità degli antichi simboli furono le destre che in tutt’Europa, sia prima che dopo la seconda guerra mondiale, tentarono di rivitalizzare il fenomeno cavalleresco e il concetto stesso di nobiltà giungendo, nelle forme più totalitarie, ad auspicare il sorgere di una nuova aristocrazia del sangue e dello spirito in un contesto di teorie razziste, spiritualità pagana e culto della forza, il tutto con gli esiti noti.
In questo filone evolutivo appaiono dunque assolutamente comprensibili le scelte che i costituenti italiani fecero in materia di nobiltà e cavalierati quando, consolidata l’opzione repubblicana con il referendum del 1946, optarono per una radicale uscita dall’ambito statuale dei titoli nobiliari confinandoli nel lecito giuridicamente irrilevante (XIV disposizione transitoria e finale della Costituzione) e, disattivando in vario modo i vecchi ordini cavallereschi sabaudi, contemplarono il solo generico potere in capo al Presidente della Repubblica di “conferire le onorificenze” (art 87 ultimo comma della Costituzione).
E quanto i padri della Repubblica fossero avversi a questo apparato di simbologie e decisi a voler introdurre sul punto una rottura con il passato - corrispondente a ciò che doveva rappresentare per i rapporti di classe l’istituzione di un nuovo stato democratico fondato sul lavoro - lo si può intendere anche dai dibattiti della successiva legge n. 178 del 1951 regolativa gli ordini cavallereschi in Italia e tutt’ora vigente[1].
Volendo riassumere il contenuto del testo di legge in questione, in primo luogo si istituì un “Ordine al Merito della Repubblica”, evitando accuratamente di qualificarlo come ordine cavalleresco ed evidenziandone al contrario la natura di ordine premiante le particolari benemerenze verso la Nazione così da renderlo accessibile e pluriclasse. Inoltre si vietò categoricamente il conferimento di qualunque altra distinzione cavalleresca extrastatale con le eccezioni – peraltro assai contestate - del Sovrano Militare Ordine di Malta e degli ordini provenienti dalla Santa Sede portabili senza particolari autorizzazioni, mentre per i cavalierati conferiti da “Stati esteri o da ordini non nazionali” era contemplata una apposita autorizzazione al porto delle insegne che gli investiti dovevano richiedere alla Presidenza della Repubblica. Al di fuori di questi casi dunque, la legge stabiliva un rigido monopolio statale delle onorificenze cavalleresche, vietando categoricamente con sanzioni penali e pecuniarie qualunque forma di conferimento di onori che avesse forma cavalleresca. Una posizione che oltre a colpire l’assai prospero mercanteggio di cavalierati dietro il corrispettivo di denaro, intendeva esprimere una chiara diffidenza della Repubblica per tale tipologia di distinzione sociale nel contesto di generale rifiuto del principio dinastico chiaramente espresso dalla Costituzione, e dunque di inaccettabilità per qualsiasi ruolo primaziale fondato sul sangue o su diritti riguardanti ordinamenti monarchici non più in essere.
L’assalto al principio di eguaglianza. La commissione Leanza, il Consiglio di Stato e la Commissione Pezzana.
La materia sembrò dunque pacificamente definita, e così sarebbe rimasta se, in questo campo come in molti altri assai più importanti nella vita della Nazione, la progressiva rivincita di talune componenti sociali quanto mai indisponibili ad accettare il principio di uguaglianza e lo Stato pluriclasse non avesse determinato una certa attenzione verso gli ordini cavallereschi quale ambito nel quale riproporre la dignità e la legittimità di un’estetica “diversa”, con richiami alle “radici storiche d’Europa” e ad un certo modo di impostare i rapporti umani. Insomma, una piccola controrivoluzione utile ad incontrarsi, farsi forza e attendere tempi migliori in una situazione nella quale – orribile a dirsi! – i figli dei propri contadini andavano all’università con la ragionevole prospettiva di guadagnare bene e vivere una vita non da cenciosi.
Il bersaglio immediato di questa nuova Vandea fu presto chiaro: riuscire ad ottenere l’autorizzazione da parte della Repubblica al porto delle insegne di alcuni ordini cavallereschi – sovente semiclandestini o da anni del tutto inattivi - appartenenti al patrimonio dinastico di dinastie italiane preunitarie, e ciò approfittando della incertezza semantica in merito alla dizione “ordini non nazionali” nel testo di legge.
Inutile dire che anche in questa materia, come per le assai più rilevanti questioni di politica economica, fu determinante una certa prassi di entrismo nei ranghi dello Stato. Al netto infatti della costante denigrazione verbale della Repubblica da loro definita “comunista”, i sostenitori di tali rivendicazioni sostanzialmente legittimiste brigarono per procurarsi posizioni comode nella pubblica amministrazione, ben retribuite e utili a determinare atti e pronunciamenti favorevoli alla propria visione dei rapporti sociali, ancorché eversiva ed anticostituzionale.
Questa serie di orrori giuridici ebbe inizio già alla metà degli anni ’60 quando i competenti organi della Repubblica presero ad autorizzare il porto delle insegne del “Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio”, un ordine cavalleresco risalente agli imperatori bizantini (sic!) poi rientrante nel patrimonio dinastico della casa Borbone delle Due Sicilie e miracolosamente sopravvissuto agli scioglimenti degli ordini cavallereschi preunitari realizzati dai Savoia all’indomani della unificazione italiana.
E anche in punto di dottrina proprio in quegli anni non mancarono chiare avvisaglie del tentativo di rivincita in atto. Ad esempio nel 1962 un giovane giurista di nome Aldo Pezzana - destinato ad acquisire rilevanti posizioni compresa quella di Consigliere di Stato - sulle pagine della “Rivista araldica” (sic!) elaborò una interpretazione della dizione “ordini non nazionali” secondo la quale in tale nomenclatura andavano inquadrati quegli ordini riconosciuti “da un ordinamento giuridico diverso da quello dello Stato italiano, e cioè o dall’ordinamento di uno Stato estero o da quello della Chiesa cattolica o dal diritto internazionale”[2]. Nello stesso anno peraltro, la relazione conclusiva del V Congresso Internazionale di Genealogia e Araldica organizzato dalla associazione denominata “Commissione Internazionale per lo Studio degli Ordini Cavallereschi” – una associazione di un certo peso le cui conclusioni verranno richiamate più volte nei documenti che esamineremo - affermò che “gli ordini dinastici o di famiglia appartenenti jure sanguinis a una casa sovrana […] conservano intatta tutta la loro validità storica, indipendentemente da ogni rivolgimento politico. E’ da ritenersi pertanto giuridicamente ultra vires l’eventuale ingerenza dei nuovi ordinamenti statuali succeduti alle antiche dinastie, sia sul piano legislativo che su quello amministrativo nei confronti degli antichi ordini”[3].
Come appare evidente, già in questi due passaggi vengono applicate quelle che saranno le consuete tecniche successivamente adoperate dalle nostre élites per disattivare i testi di legge sgraditi soprattutto in ambito economico e sociale. Infatti nel caso di specie il giovane Pezzana suggerisce di adoperare quello che oggi definiremmo un “vincolo esterno” richiamando la vigenza di norme eterodeterminate nei loro contenuti – e improntate al conservatorismo come possono essere le norme di diritto canonico soprattutto prima del Concilio - allo scopo di introdurre in Patria una disciplina altrimenti non ottenibile per le vie proprie del diritto nazionale informato agli “insopportabili” principi egualitari della nostra Costituzione. Il tutto inserito in un contesto di pervicace e inscalfibile ostinazione intesa a negare la sovranità dello Stato nel momento in cui questo – per loro viziato dal suo essere ente esponenziale degli interessi collettivi - non protegge più con le sue leggi le dinastie e i privilegi, ma pretende anzi di incidere su apparati di casta ritenuti “naturali”. La costruzione giuridica che ne risulta richiama dunque una sorta di neomedievale pluralità degli ordinamenti giuridici nella quale lo Stato – solo uno fra i tanti diritti insistenti su un territorio - deve per forza essere debole, limitato, quasi “pudico” difronte ad un “diritto di natura” che costoro riempivano peraltro di costruzioni cavalleresche del tutto inessenziali, per non dire di apparato, ma divenute di vitale importanza per l’esistenza di quell’insieme di rapporti umani che proprio lo Stato, come dice l’articolo 3 comma secondo della Costituzione, aveva l’obbligo di “rimuovere”.
L’estrema tendenziosità di questa ricostruzione dogmatica appare peraltro evidente se si considera anche un dato: il diritto canonico disciplina tali ordini cavallereschi nei casi in cui siano canonicamente eretti e va bene, ma la Santa Sede quale ente di diritto internazionale si guarda bene dal fornire qualunque forma di riconoscimento agli ordini cavallereschi diversi dai propri e dall’Ordine di Malta! Ciò è tanto è vero che anche in tempi recentissimi, in totale continuità con precedenti prese di posizione, sono state date disposizioni in tal senso dalla Segreteria di Stato vaticana[4]. Il tipo di riconoscimento che dunque i Nostri pretendevano dalla Repubblica integrava una condotta giuridica che neppure un ente di diritto internazionale più direttamente coinvolto, come la Santa Sede, si è mai sognato di porre in essere.
Passarono gli anni, e la precarietà in punto di diritto della prassi autorizzativa fino ad allora adoperata dal Ministero degli Affari Esteri, offrì l’occasione di sollecitare il Consiglio di Stato per un pronunciamento in merito, cosa che il predetto tribunale fece con una decisione del 1981 (parere n. 1869/81) che, andando oltre lo specifico quesito, affrontò tutta la questione relativa alla dizione “ordini non nazionali” contenuta nella legge 178/51 e recepì guarda caso le dottrine del Pezzana.
Il Consiglio di Stato volle vedere infatti nella dizione “ordini non nazionali” proprio quegli ordini “totalmente estranei all’ordinamento italiano, ma non promananti da un ordinamento statuale straniero”, ossia “una categoria di ordini, cioè di istituzioni cavalleresche, costituiti ed operanti all’estero, ma non espressione di ordinamenti statuali sovrani” aggiungendo come terzo elemento qualificante – assieme alla non statualità e alla estraneità all’ordinamento italiano – la presenza di un qualche “riconoscimento che ne identifichi l’esistenza e ne legittimi giuridicamente la dignità cavalleresca” che, non potendo provenire dall’ordinamento italiano ”deve rinvenirsi in quello di ordinamenti stranieri, come l’ordinamento canonico (della Santa Sede) ovvero di Stati esteri, compreso, fra questi, l’Ordinamento del Sovrano Militare Ordine di Malta“[5]. Nel caso di specie, essendo il capo della casa Borbone delle Due Sicilie residente all’estero e avendo l’ordine in questione profili di diritto canonico, se ne confermò l’autorizzabilità, introducendo di fatto per via interpretativa una disciplina totalmente contraria allo spirito della legge in materia.
Inutile dire che attraverso la falla aperta nel nostro diritto da tale pronunciamento sarebbe negli anni seguenti passato di tutto, cosa che puntualmente accadde in singolare coincidenza con la formazione di esecutivi particolarmente versati a ristabilire ciò che tempo dopo sarebbe stata definita la “durezza del vivere”. Così nel 1996, Presidente del Consiglio Lamberto Dini e Ministro degli Esteri Susanna Agnelli, una apposita commissione della Farnesina giunse a concludere, come si legge nella relazione finale del Capo Servizio del Contenzioso Diplomatico e dei Trattati prof. Umberto Leanza, che non solo andavano autorizzati gli ordini cavallereschi “quasi ordini religiosi” ossia dotati di un qualche riconoscimento di diritto canonico come affermato dal Consiglio di Stato, ma estese tale privilegio anche agli “ordini di collana”, ossia a quegli ordini creati dai monarchi non come capi di Stato ma come capi della propria casa, ordini dunque “destinati a sopravvivere anche dopo l’eventuale detronizzazione della dinastia” e ciò perché tali famiglie “continuano ad essere fons honorum anche dopo la detronizzazione purché la famiglia ex sovrana conservi socialmente quel rango che le è proprio”[6].
Senza stupore, quindi, nel 1999 con apposito provvedimento n. 022/713 il Ministero degli Esteri individuò ben otto ordini cavallereschi possibili destinatari di autorizzazioni al porto delle insegne, estendendo dunque ai pretendenti delle dinastie Asburgo-Lorena di Toscana, Borbone di Parma, e ad un altro ordine denominato “Ordine della Corona di Ferro” quella prassi finora adottata solo per un unico ordine della casa Borbone delle Due Sicilie[7].
Peraltro è agile comprendere che un intervento statale di tipo selettivo e oramai del tutto estraneo ai criteri di legge, oltre a fare scempio della Costituzione, esponeva lo Stato a possibili errori in una materia salottiera ma complessa, piena di litigi, giri di denaro poco edificanti, opere di carità pelosa, insomma proprio ciò che nel 1951 si voleva evitare con la legge 178 nel sancire il monopolio statale degli ordini cavallereschi!
E’ necessario rilevare inoltre che nei successivi anni i sostenitori di questo “neofeudalesimo delle patacche” non ebbero neanche più bisogno di trincerarsi dietro il nome rispettabile di un anziano dirigente pubblico e professore di diritto internazionale come il Leanza per condizionare gli organi dello Stato a proprio favore. Infatti nel periodo compreso dal 2001 al 2003 – anni nel quale si andò formando un pensiero neoconservativo che intendeva rivalutare i valori e le tradizioni cristiane unendole alle dottrine liberiste più sfrenate[8] - con Silvio Berlusconi Presidente del Consiglio e Ministri degli Esteri Renato Ruggiero, Franco Frattini e Gianfranco Fini, venne istituita una nuova commissione consultiva in tema di ordini cavallereschi non nazionali presso l’Ufficio del Cerimoniale della Repubblica composta da cinque signori la cui presenza in quella posizione appare, già dai curricula, qualcosa di assimilabile alla presidenza dell’AVIS affidata a Dracula. I membri infatti erano[9]:
- barone Aldo Pezzana ( nel frattempo divenuto soi-disant marchese Capranica del Grillo), presidente onorario del Consiglio di Stato, cavaliere di giustizia del Sacro Militare Ordine di Santo Stefano, cavaliere gran croce dell’Ordine di Merito sotto il Titolo di San Giuseppe, cavaliere di gran croce del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, cavaliere di gran croce del Sovrano Militare Ordine di Malta;
- conte Gustavo Figarolo di Gropello, presidente della Società Italiana di Studi Araldici (S.I.S.A., poi ribattezzata SOC.I.ST.ARA, forse su indicazione di qualche conoscitore del vernacolo romanesco), cavaliere del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, commendatore dell’Ordine di San Ludovico e commendatore del Sovrano Militare Ordine di Malta;
- conte Neri Capponi, avvocato rotale, gran cancelliere del Sacro Militare Ordine di Santo Stefano e gran croce dell’Ordine al Merito sotto il Titolo di San Giuseppe;
- principe don Paolo Boncompagni Ludovisi, capo del cerimoniale del Sovrano Militare Ordine di Malta, gran croce dell’Ordine al Merito sotto il Titolo di San Giuseppe;
- conte Alberto Lembo, già deputato al Parlamento, commendatore dell’Ordine al Merito sotto il Titolo di San Giuseppe, cavaliere di prima classe dell’Ordine di San Ludovico e cavaliere di Grazia Magistrale del Sovrano Militare Ordine di Malta
Di tutta evidenza si trattava di una commissione interamente composta da esponenti di famiglie nobili, insigniti se non addirittura dirigenti proprio di quegli ordini cavallereschi di cui avrebbero, nella loro posizione, chiaramente caldeggiato il riconoscimento. Insomma, una commissione affetta da un clamoroso e palese conflitto di interessi, e che difficilmente possiamo immaginare bendisposta verso qualunque idea di uguaglianza e financo verso la natura repubblicana dello Stato!
Non destano stupore dunque le conclusioni a cui giunse questa commissione, del tutto adesive al vissuto e alle teorie avanzate dai suoi componenti e soprattutto dal Pezzana. Così nella relazione del 4 marzo 2002 ad esempio si legge: “Gli ordini dinastico familiari appartengono, quindi, ad una dinastia indipendentemente dall’esercizio successivo della sovranità su un territorio perché tale elemento, normalmente necessario all’origine, non lo è più, successivamente, quando la famiglia titolare è considerata dinastia, indipendentemente dalla continuità del possesso della sovranità”[10]. Si può dunque agilmente dedurre che difronte a tali strutture di natura dinastica che, a questo punto, paiono reggersi per diritto proprio, lo Stato democratico italiano può tutt’al più fare finta che non esistano, vietarne l’uso o confiscarne i beni ma mai – per carità! -sopprimerle in quanto “l’eventuale soppressione sarebbe del tutto irrilevante rispetto ai soggetti e agli ordinamenti che avevano operato per la sua costituzione o per il suo riconoscimento”, e questo perché “l’avvento della Repubblica […] non può […] prescindere da elementi storici e di diritto preesistenti e non del tutto cancellati (e non lo potrebbero essere) dai mutamenti istituzionali”[11].
La presa di controllo di quello che era di fatto divenuto il luogo di formazione della volontà dello Stato in merito alla definizione dei criteri per l’accesso all’agognato privilegio dell’autorizzazione al porto delle insegne consentì l’eliminazione - guarda caso – di talune realtà non riconducibili alle dinastie da cui i membri della commissione erano stati insigniti. Così, aderendo in toto ai voti della commissione, nel 2001 e nel 2003 il Consiglio di Stato (pareri n. 813/01 e 367/03) ritenne di non dover più considerare tra gli ordini autorizzabili l’Ordine della Corona di Ferro – precedentemente ammesso effettivamente con una certa leggerezza di giudizio - suggerendo il ritiro in autotutela di tutte le autorizzazioni al porto delle insegne fino ad allora concesse dal Ministero degli Affari Esteri[12]. Le difficoltà a gestire questa imbarazzante “marcia indietro” dello Stato richiese fior di riunioni a Palazzo Chigi con Gianni Letta allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, presente l’avvocato generale dello Stato, per tentare di arginare gli inferociti membri dell’ordine non disposti a togliersi da petto la decorazione spesso ottenuta a prezzo di elargizioni importanti con tanto di cause legali ancora in corso davanti ai tribunali amministrativi, in una situazione complessiva di perdita di tempo e risorse pubbliche senza contare lo scandalo per il prestigio dello Stato. Situazione, quest’ultima, che potrebbe peraltro reiterarsi a breve, viste le ricerche - che saranno pubblicate nel 2019 - riguardanti proprio la decadenza dei diritti dinastici di una dinastia fra quelle ancora oggi ammesse al conferimento di ordini cavallereschi autorizzati dalla Repubblica.
I poderosi sforzi intellettuali dei membri della commissione produssero infine – tra una colazione al Circolo del Ministero degli Esteri e fitte corrispondenze blasonate - una nuova lista di ordini autorizzabili, con talune espulsioni e talune novità. Per gli appassionati del genere, il catalogo è questo[13]:
- Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, appartenente al patrimonio dinastico dei Borbone delle Due Sicilie;
- Sacro Militare Ordine di Santo Stefano Papa e Martire, con gran Maestro l’arciduca Sigismondo d’Asburgo Lorena Toscana;
- Ordine di San Gennaro, sempre dei Borbone delle Due Sicilie;
- Ordine al Merito sotto il titolo di San Giuseppe di Toscana, con gran Maestro l’arciduca Sigismondo d’Asburgo Lorena Toscana;
- Real Ordine del merito sotto il titolo di San Ludovico, con gran maestro il principe Carlos Hugo di Borbone-Parma;
- Sacro Angelico Imperiale Ordine Costantiniano di San Giorgio, omologo del precedente ma avente gran maestro il Borbone-Parma
In questa vera e propria orgia cavalleresca non mancò il tentativo di far autorizzare persino i due ordini principali del patrimonio dinastico di Casa Savoia, ossia l’Ordine della SS. Annunziata e l’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Ed è davvero stupefacente leggere come questa commissione del 2001-2003 che ricordiamo era incardinata presso il Ministero degli Esteri della Repubblica, praticamente quasi non tenne in considerazione – se non per insultarle! - la XIV disposizione transitoria e finale della Costituzione nella quale si disponeva la conservazione dell’Ordine Mauriziano esclusivamente come ente ospedaliero, e l’art. 9 della l. 178/51 che sopprimeva l’ordine dell’Annunziata e cessava formalmente il conferimento dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Anzi la commissione ebbe l’ardire di affermare che “la Costituente e poi il legislatore repubblicano operarono ritenendo di essere nel pieno delle loro possibilità normative ma, per troppa fretta, ignoranza o trascuratezza non tennero conto di taluni elementi esterni che ne limitavano l’azione, per cui, di fatto, si legiferò ultra vires e, quindi, con la produzione di norme se non nulle, nel contesto del quadro normativo interno, almeno in parte inefficaci”[14]. Naturalmente questo inaccettabile attacco alla Costituzione venne proclamato in base alle già citate teorie per cui nessun potere statuale si potrebbe permetter di infrangere le prerogative di diritto dinastico proprie delle dinastie anche se detronizzate. Anche perché, continuano compiti i nostri nobili consulenti, “lo Stato italiano repubblicano non poteva ignorare l’esistenza di una consuetudine secolare formatasi nell’ambito delle Corti europee, e tuttora osservata, in base alla quale i capi delle Dinastie ex regnanti continuano a conferire le decorazioni dei loro ordini cavallereschi di natura dinastica”[15]. A parere della commissione, insomma, i costituenti che erano stati partigiani coraggiosi davanti a colonne di tedeschi armati, che avevano patito il confino, la fame e altre privazioni proprio per dare vita ad una società di eguali avrebbero dovuto arretrare, pieni di rispetto e magari con un inchino, davanti alle “consuetudini secolari delle corti europee”!!! Il risultato di questi ragionamenti è ovviamente un giudizio di piena e anzi quasi doverosa autorizzabilità degli ordini di casa Savoia, dalla quale astenersi per sole ragioni di opportunità politica.
Ci tengo peraltro a sottolineare, giusto per completezza, che proprio la sostanziale accoglienza da parte del Ministero degli Esteri di queste teorie sulla sopravvivenza di residui diritti in capo alle dinastie spodestate ha favorito l’affermazione di un concetto di vera e propria “sovranità affievolita” quale residualità del vecchio potere sovrano in capo alle case ex regnanti che gli ordinamenti successivi sarebbero tenuti a rispettare[16]. Inutile sottolineare che una siffatta costruzione giuridica è del tutto incostituzionale, determinando infatti una sostanziale irriducibilità al semplice rango di normali cittadini per coloro i quali hanno la ventura di discendere da famiglie dinastiche, e ciò in barba al principio di uguaglianza che i costituenti intesero chiaramente applicare proprio non riconoscendo il valore legale dei titoli nobiliari!!!
Consolidati il sovvertimento dei principi stabiliti in Costituzione e nella legge 178/51, gli elitisti di antica schiatta si ritirarono in buon ordine nei loro palazzi. La “commissione di Studio e Aggiornamento sulle onorificenze e benemerenze della Repubblica” esistente dal 2004 al 2010, e quella successiva denominata “Gruppo di lavoro informale sulle onorificenze presso il cerimoniale diplomatico del ministero degli affari esteri” operativa dal 2012 al 2014, per quanto presiedute da uno dei membri della vecchia commissione 2001-2003 ebbero come componenti prevalentemente funzionari ministeriali. Gli argomenti di studio solo tangenzialmente avrebbero riguardato gli ordini cavallereschi delle antiche dinastie preunitarie, investendo piuttosto le varie decorazioni di benemerenza civili e militari conferite dalla Repubblica, le onorificenze degli Stati esteri, e poche altre cose. Fattispecie troppo plebee per risultare utili a ricostruire quell’immaginario sociale fatto di re, principi, cameriere da battere col battipanni e cenciosi buoni per fare da soggetto a rinnovati capricci barocchi.
Una nota di colore: l’ultima commissione discusse – ignoro con che esito - anche la possibile istituzione di un “Ordine dell’Unità Europea”.
Tutto si tiene, sempre.
Conclusioni
Ad oggi i principi e le dottrine della commissione Leanza e della commissione Pezzana continuano a condizionare l’interpretazione della l. 178/51, e in nome di tali principi sei ordini cavallereschi appartenenti a dinastie preunitarie (casa Asburgo Lorena di Toscana, casa Borbone delle Due Sicilie, casa Borbone Parma) godono della autorizzazione al porto delle insegne da parte della Repubblica italiana[17]. Oltre a rappresentare una evidente contraddizione con i principi della nostra Costituzione, per quanto mi consta questa disciplina rappresenta un caso unico nel continente europeo.
Volendo riassumere i termini attuali della questione, possiamo dire che:
- La Repubblica italiana, una e indivisibile, autorizza ordini cavallereschi appartenenti ai pretendenti ai troni preunitari, con buona pace dei valori del Risorgimento. E siccome le autorizzazioni all’uso delle insegne sono richieste sovente dai nostri militari per poter aggiungere il nastrino sul petto, si determina la comica e lacrimevole situazione di soldati della Repubblica una e indivisibile decorati da aspiranti sovrani di regni preunitari!!!
- La Repubblica italiana, che in Costituzione rifugge la tutela di qualunque principio dinastico, ora offre il proprio implicito riconoscimento a strutture chiaramente dinastiche, ultimo rifugio di una visione nobiliare del mondo e dei rapporti umani;
- La Repubblica italiana, che non riconosce i titoli nobiliari, ora ammette il porto di insegne di ordini cavallereschi che in taluni casi, e per talune dignità al loro interno, hanno come requisito l’appartenenza alla nobiltà;
- La Repubblica italiana, rifacendosi al diritto canonico, autorizza il porto delle insegne per ordini cavallereschi canonicamente eretti, mentre la Santa Sede intelligentemente se ne astiene.
- Un apposito ufficio del Ministero degli Affari Esteri, organo competente a rilasciare le autorizzazioni, è ad oggi letteralmente subissato di richieste di autorizzazione. In ciò lo Stato si è visto attribuire un compito certificativo che francamente non gli spetterebbe e che costringe a distrarre personale della pubblica amministrazione da attività più utili;
- Il Ministero degli Affari Esteri, chiaramente privo di competenze storiche, è stato indotto ad applicare una serie di principi formalmente applicativi, ma in realtà del tutto innovativi in materia e contrastanti con il senso della legislazione vigente sul punto. Ciò peraltro ha determinato lo scoppio di scandali, con pendenze che ancora oggi gravano i tribunali amministrativi.
- Ultimo dettaglio: i “dinasti” che conferiscono questi ordini hanno per lo più cittadinanza estera, non risiedono in Italia, e hanno nella non accettazione dell’esistenza di uno Stato unitario italiano, implicita nella qualità di pretendenti ai troni preunitari, il loro unico fattore di connessione – eversiva!! - con l’Italia.
Tutta questa indecorosa disfatta dei più elementari principi costituzionali verrebbe naturalmente meno qualora si riuscisse a cancellare l’infelice dizione “ordini non nazionali” dall’articolo 7 della legge 178/51. Questo passo ha costituito infatti un involontario “cavallo di troia” che ha consentito a forze piccole, ma capaci e bene organizzate, di espugnare un bastione di civiltà egualitaria e repubblicana non irrilevante per la difesa di una società democratica.
La guerra alla civiltà del lavoro che le élites hanno scatenato in questi ultimi decenni è passata, come molte volte si è detto in queste pagine, anche tramite battaglie culturali. Questioni apparentemente di scarso rilievo – chiamare nuovamente Unità Sanitarie Locali quelle che ora sono denominate Aziende, tornare a nominare lavoratore chi per il solo fatto di avere una partita iva è oggi definito imprenditore - costituiranno fronti da non trascurare per tentare di ristabilire un contesto di minima vivibilità. Uno di questi, a modesto avviso di chi scrive, dovrà essere anche la riconduzione a più miti consigli di chi ha preteso di fare strame del principio costituzionale di uguaglianza formale stravolgendo il senso della legge 178/51.
L'analisi che Ramarrik De Milford sviluppa sulla nobiltà contemporanea può a primo acchito sembrare appartenere ad un ambito frivolo e di nicchia; in realtà, quale profondo conoscitore delle istituzioni nobiliari,l'autore tratteggia il ruolo reazionario che questi ceti continuano ad interpretare nella società sempre più post-borghese, e ne fa emergere con rara chiarezza, ricchezza di dettagli e rigore filologico, l'istinto di classe ed il coordinamento con cui pervicacemente, come minoranza colta ed organizzata, influenzi le istituzioni per ripristinare - a discapito tanto delle democrazia costituzionale, quanto dell'unità e dell'indipendenza nazionale stessa - l'ordine classista dell'antico regime.
In sintesi, il tema è strettamente connesso a quello delle aspirazioni neomedievali dell'antica aristocrazia terriera che si salda con quelle della grande borghesia, per condurre gli stati nazionali democratici verso una restaurazione global-imperialista.)
* * *
Costituenti frettolosi, ignoranti e trascurati
L’estetica conservatrice, la Commissione Pezzana sugli ordini cavallereschi, e la sovranità dello Stato democratico.
Premesse
La progressiva riaffermazione del pensiero e delle categorie conservatrici nel continente europeo a partire dalla fine degli anni ‘70 del secolo appena trascorso costituisce un fenomeno di notevole complessità che, oltre a ridefinire i rapporti strutturali, ha riguardato necessariamente anche aspetti accessori talvolta “frivoli” dalla cui analisi tuttavia, a corollario delle più fondamentali riflessioni economico-giuridiche più volte espresse in questo blog, si può bene intendere quale sia il modello sociale a cui serenamente, per non dire sfrontatamente, si ispirano gli elitisti nostrani: il feudalesimo.
Oltre a provocare nostalgiche simpatie in quanto struttura sociale nella quale un ceto gode in maniera inscalfibile e perpetua il bene della sicurezza per sé unito al privilegio di comandare chi di questo bene non gode, il feudalesimo quale struttura dell’Antico Regime offre un ampio ventaglio di “eleganti” e “romantiche” soluzioni per consolidare e cristallizzare, sul piano ideale e soprattutto morale, gli equilibri di classe. E’ dunque naturale che vecchi e nuovi redditieri siano sempre stati interessati a recuperarne quanto più possibile l’apparato e i simboli. In questa prospettiva l’abbattimento degli emblemi feudali successivo alle rivoluzioni borghesi e i proclami di uguaglianza sono stati per la borghesia un fenomeno del tutto transeunte giustificato da contingenti necessità aggregative e di mobilitazione delle masse, prevalendo anzi nelle fasi più mature l’urgenza di cancellare – proprio per il tramite del recupero di queste simbologie antiche - il peccato originale della propria recente e violenta ascesa politica scongiurando al contempo il possibile ripetersi di eventi simili questa volta sfavorevoli.
Esemplare a tal proposito, e modello per tutta l’Europa continentale, fu il caso della Francia laddove, oramai consolidata l’eversione degli antichi diritti ancora in mano ai ceti dirigenti dell’Antico Regime, la locale borghesia si affrettò a recuperare tutto l’armamentario prerivoluzionario dando vita ad un sistema istituzionale espressione di una rinnovata – ma sempre “naturale” - disuguaglianza fra gli uomini. Ecco dunque ricomparire, già sotto Napoleone I ma soprattutto con il Secondo Impero, segni d’onore e distinzioni quali titoli nobiliari ed ordini cavallereschi che costituirono, in epoca rivoluzionaria, i più odiati simboli del privilegio di Antico Regime. Questo fenomeno peraltro si risconta in tutta Europa durante la Restaurazione, quando i patriziati e le antiche distinzioni onorifiche ripresero ovunque vigore divenendo efficace sanzione della rispettabilità e della intoccabilità del nuovo ceto dirigente.
Del tutto peculiare, per non dire addirittura più efficiente, fu nel medesimo periodo l’esperienza britannica laddove la particolare struttura della locale aristocrazia – oramai non aliena alle logiche del capitalismo e dell’impresa - determinò una singolare commistione di interessi con gli “uomini nuovi” tale da non rendere necessaria a quest’ultimi l’apertura di una nuova fase rivoluzionaria dopo Cromwell e neppure la proclamazione, per quanto strumentale e opportunistica, di pericolose ideologie egalitarie. Questa naturale osmosi tra i due ceti – quello nobile e quello borghese - con la condivisione di stili di vita e simboli, fece del caso britannico un esempio di rapporti sociali oltremodo ammirato nel Diciannovesimo secolo. Non a caso modello del nostro “notabile” dell’Ottocento maturo è infatti il “gentlemen”, ossia l’uomo d’affari spesso proveniente dalla piccola aristocrazia di provincia dedito ad amministrare i propri possedimenti ed impegnato in lucrosi commerci, che ama ritirarsi in campagna per il “week-end”, frequenta circoli maschili – in quel periodo ne nasceranno diversi sul continente proprio su modello inglese - ed è assolutamente leale al suo re da cui riceve onori, incarichi e gli immancabili ordini cavallereschi. Quanto poi ai rapporti familiari, il naturale complemento di tale modello maschile riposava in una figura femminile che, oltre a consentire l’espletamento delle funzioni riproduttive in un contesto di riconosciuta legittimità, contribuiva a tessere utili relazioni sociali per il marito con una attività meno visibile ma non meno importante tramite la quale disattivava anche, con opportune iniziative caritatevoli sovente mediate dalle strutture religiose, qualunque possibile iniziativa rivendicativa dei ceti inferiori non ammessi a partecipare a questo “magnifico mondo”.
Questa arcadia dei rapporti sociali di gusto neogotico e financo bucolico patì in tutt’Europa la quanto mai “fastidiosa” ed “inelegante” irruzione delle masse nella vita sociale delle nazioni. A partire dalla fine della prima guerra mondiale l’abbattimento degli imperi centrali e di quello ottomano – esperimento che le borghesie preferiranno guarda caso non ripetere scegliendo per il futuro, dove possibile, il mantenimento delle vecchie forme monarchiche anche presso le nazioni sconfitte – sanzionò infatti l’emergere di una nuova estetica forgiata nelle trincee e nelle fabbriche che propose gli strumenti del lavoro dell’uomo, e non le corone o le croci di cavaliere, quale fattori distintivi della nuova componente sociale. Si può anzi registrare l’interessante fenomeno di una rottura originalissima e radicale, principiata dopo la fine del primo conflitto mondiale ed ulteriormente rafforzatasi dopo la conclusione del secondo, nell’estetica e nei segni distintivi di chi si proponeva come avanguardia delle nuove componenti sociali tanto da incidere financo nella definizione dei simboli dei neonati ordinamenti statuali: se infatti i ceti dirigenti feudali avevano rivendicato una orgogliosa continuità con le cariche e le simbologie di ceto – a partire dal cavalierato - della Roma imperiale, e così le borghesie europee che si rifecero tanto a Roma quanto all’Antico Regime nel definire i propri simboli distintivi, le componenti popolari e socialiste fecero di ingranaggi meccanici, falci e martelli - e persino centrali elettriche!! - i simboli dei nuovi ordinamenti che rifuggivano il concetto stesso di élite traendo nella legittimazione delle masse e nel soddisfacimento dei bisogni essenziali della Nazione – lavoro, progresso civile, previdenza sociale -la propria ragion d’essere ed il proprio fine specifico.
Non casualmente dunque le uniche forze politiche che nel Novecento non interruppero la continuità degli antichi simboli furono le destre che in tutt’Europa, sia prima che dopo la seconda guerra mondiale, tentarono di rivitalizzare il fenomeno cavalleresco e il concetto stesso di nobiltà giungendo, nelle forme più totalitarie, ad auspicare il sorgere di una nuova aristocrazia del sangue e dello spirito in un contesto di teorie razziste, spiritualità pagana e culto della forza, il tutto con gli esiti noti.
In questo filone evolutivo appaiono dunque assolutamente comprensibili le scelte che i costituenti italiani fecero in materia di nobiltà e cavalierati quando, consolidata l’opzione repubblicana con il referendum del 1946, optarono per una radicale uscita dall’ambito statuale dei titoli nobiliari confinandoli nel lecito giuridicamente irrilevante (XIV disposizione transitoria e finale della Costituzione) e, disattivando in vario modo i vecchi ordini cavallereschi sabaudi, contemplarono il solo generico potere in capo al Presidente della Repubblica di “conferire le onorificenze” (art 87 ultimo comma della Costituzione).
E quanto i padri della Repubblica fossero avversi a questo apparato di simbologie e decisi a voler introdurre sul punto una rottura con il passato - corrispondente a ciò che doveva rappresentare per i rapporti di classe l’istituzione di un nuovo stato democratico fondato sul lavoro - lo si può intendere anche dai dibattiti della successiva legge n. 178 del 1951 regolativa gli ordini cavallereschi in Italia e tutt’ora vigente[1].
Volendo riassumere il contenuto del testo di legge in questione, in primo luogo si istituì un “Ordine al Merito della Repubblica”, evitando accuratamente di qualificarlo come ordine cavalleresco ed evidenziandone al contrario la natura di ordine premiante le particolari benemerenze verso la Nazione così da renderlo accessibile e pluriclasse. Inoltre si vietò categoricamente il conferimento di qualunque altra distinzione cavalleresca extrastatale con le eccezioni – peraltro assai contestate - del Sovrano Militare Ordine di Malta e degli ordini provenienti dalla Santa Sede portabili senza particolari autorizzazioni, mentre per i cavalierati conferiti da “Stati esteri o da ordini non nazionali” era contemplata una apposita autorizzazione al porto delle insegne che gli investiti dovevano richiedere alla Presidenza della Repubblica. Al di fuori di questi casi dunque, la legge stabiliva un rigido monopolio statale delle onorificenze cavalleresche, vietando categoricamente con sanzioni penali e pecuniarie qualunque forma di conferimento di onori che avesse forma cavalleresca. Una posizione che oltre a colpire l’assai prospero mercanteggio di cavalierati dietro il corrispettivo di denaro, intendeva esprimere una chiara diffidenza della Repubblica per tale tipologia di distinzione sociale nel contesto di generale rifiuto del principio dinastico chiaramente espresso dalla Costituzione, e dunque di inaccettabilità per qualsiasi ruolo primaziale fondato sul sangue o su diritti riguardanti ordinamenti monarchici non più in essere.
L’assalto al principio di eguaglianza. La commissione Leanza, il Consiglio di Stato e la Commissione Pezzana.
La materia sembrò dunque pacificamente definita, e così sarebbe rimasta se, in questo campo come in molti altri assai più importanti nella vita della Nazione, la progressiva rivincita di talune componenti sociali quanto mai indisponibili ad accettare il principio di uguaglianza e lo Stato pluriclasse non avesse determinato una certa attenzione verso gli ordini cavallereschi quale ambito nel quale riproporre la dignità e la legittimità di un’estetica “diversa”, con richiami alle “radici storiche d’Europa” e ad un certo modo di impostare i rapporti umani. Insomma, una piccola controrivoluzione utile ad incontrarsi, farsi forza e attendere tempi migliori in una situazione nella quale – orribile a dirsi! – i figli dei propri contadini andavano all’università con la ragionevole prospettiva di guadagnare bene e vivere una vita non da cenciosi.
Il bersaglio immediato di questa nuova Vandea fu presto chiaro: riuscire ad ottenere l’autorizzazione da parte della Repubblica al porto delle insegne di alcuni ordini cavallereschi – sovente semiclandestini o da anni del tutto inattivi - appartenenti al patrimonio dinastico di dinastie italiane preunitarie, e ciò approfittando della incertezza semantica in merito alla dizione “ordini non nazionali” nel testo di legge.
Inutile dire che anche in questa materia, come per le assai più rilevanti questioni di politica economica, fu determinante una certa prassi di entrismo nei ranghi dello Stato. Al netto infatti della costante denigrazione verbale della Repubblica da loro definita “comunista”, i sostenitori di tali rivendicazioni sostanzialmente legittimiste brigarono per procurarsi posizioni comode nella pubblica amministrazione, ben retribuite e utili a determinare atti e pronunciamenti favorevoli alla propria visione dei rapporti sociali, ancorché eversiva ed anticostituzionale.
Questa serie di orrori giuridici ebbe inizio già alla metà degli anni ’60 quando i competenti organi della Repubblica presero ad autorizzare il porto delle insegne del “Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio”, un ordine cavalleresco risalente agli imperatori bizantini (sic!) poi rientrante nel patrimonio dinastico della casa Borbone delle Due Sicilie e miracolosamente sopravvissuto agli scioglimenti degli ordini cavallereschi preunitari realizzati dai Savoia all’indomani della unificazione italiana.
E anche in punto di dottrina proprio in quegli anni non mancarono chiare avvisaglie del tentativo di rivincita in atto. Ad esempio nel 1962 un giovane giurista di nome Aldo Pezzana - destinato ad acquisire rilevanti posizioni compresa quella di Consigliere di Stato - sulle pagine della “Rivista araldica” (sic!) elaborò una interpretazione della dizione “ordini non nazionali” secondo la quale in tale nomenclatura andavano inquadrati quegli ordini riconosciuti “da un ordinamento giuridico diverso da quello dello Stato italiano, e cioè o dall’ordinamento di uno Stato estero o da quello della Chiesa cattolica o dal diritto internazionale”[2]. Nello stesso anno peraltro, la relazione conclusiva del V Congresso Internazionale di Genealogia e Araldica organizzato dalla associazione denominata “Commissione Internazionale per lo Studio degli Ordini Cavallereschi” – una associazione di un certo peso le cui conclusioni verranno richiamate più volte nei documenti che esamineremo - affermò che “gli ordini dinastici o di famiglia appartenenti jure sanguinis a una casa sovrana […] conservano intatta tutta la loro validità storica, indipendentemente da ogni rivolgimento politico. E’ da ritenersi pertanto giuridicamente ultra vires l’eventuale ingerenza dei nuovi ordinamenti statuali succeduti alle antiche dinastie, sia sul piano legislativo che su quello amministrativo nei confronti degli antichi ordini”[3].
Come appare evidente, già in questi due passaggi vengono applicate quelle che saranno le consuete tecniche successivamente adoperate dalle nostre élites per disattivare i testi di legge sgraditi soprattutto in ambito economico e sociale. Infatti nel caso di specie il giovane Pezzana suggerisce di adoperare quello che oggi definiremmo un “vincolo esterno” richiamando la vigenza di norme eterodeterminate nei loro contenuti – e improntate al conservatorismo come possono essere le norme di diritto canonico soprattutto prima del Concilio - allo scopo di introdurre in Patria una disciplina altrimenti non ottenibile per le vie proprie del diritto nazionale informato agli “insopportabili” principi egualitari della nostra Costituzione. Il tutto inserito in un contesto di pervicace e inscalfibile ostinazione intesa a negare la sovranità dello Stato nel momento in cui questo – per loro viziato dal suo essere ente esponenziale degli interessi collettivi - non protegge più con le sue leggi le dinastie e i privilegi, ma pretende anzi di incidere su apparati di casta ritenuti “naturali”. La costruzione giuridica che ne risulta richiama dunque una sorta di neomedievale pluralità degli ordinamenti giuridici nella quale lo Stato – solo uno fra i tanti diritti insistenti su un territorio - deve per forza essere debole, limitato, quasi “pudico” difronte ad un “diritto di natura” che costoro riempivano peraltro di costruzioni cavalleresche del tutto inessenziali, per non dire di apparato, ma divenute di vitale importanza per l’esistenza di quell’insieme di rapporti umani che proprio lo Stato, come dice l’articolo 3 comma secondo della Costituzione, aveva l’obbligo di “rimuovere”.
L’estrema tendenziosità di questa ricostruzione dogmatica appare peraltro evidente se si considera anche un dato: il diritto canonico disciplina tali ordini cavallereschi nei casi in cui siano canonicamente eretti e va bene, ma la Santa Sede quale ente di diritto internazionale si guarda bene dal fornire qualunque forma di riconoscimento agli ordini cavallereschi diversi dai propri e dall’Ordine di Malta! Ciò è tanto è vero che anche in tempi recentissimi, in totale continuità con precedenti prese di posizione, sono state date disposizioni in tal senso dalla Segreteria di Stato vaticana[4]. Il tipo di riconoscimento che dunque i Nostri pretendevano dalla Repubblica integrava una condotta giuridica che neppure un ente di diritto internazionale più direttamente coinvolto, come la Santa Sede, si è mai sognato di porre in essere.
Passarono gli anni, e la precarietà in punto di diritto della prassi autorizzativa fino ad allora adoperata dal Ministero degli Affari Esteri, offrì l’occasione di sollecitare il Consiglio di Stato per un pronunciamento in merito, cosa che il predetto tribunale fece con una decisione del 1981 (parere n. 1869/81) che, andando oltre lo specifico quesito, affrontò tutta la questione relativa alla dizione “ordini non nazionali” contenuta nella legge 178/51 e recepì guarda caso le dottrine del Pezzana.
Il Consiglio di Stato volle vedere infatti nella dizione “ordini non nazionali” proprio quegli ordini “totalmente estranei all’ordinamento italiano, ma non promananti da un ordinamento statuale straniero”, ossia “una categoria di ordini, cioè di istituzioni cavalleresche, costituiti ed operanti all’estero, ma non espressione di ordinamenti statuali sovrani” aggiungendo come terzo elemento qualificante – assieme alla non statualità e alla estraneità all’ordinamento italiano – la presenza di un qualche “riconoscimento che ne identifichi l’esistenza e ne legittimi giuridicamente la dignità cavalleresca” che, non potendo provenire dall’ordinamento italiano ”deve rinvenirsi in quello di ordinamenti stranieri, come l’ordinamento canonico (della Santa Sede) ovvero di Stati esteri, compreso, fra questi, l’Ordinamento del Sovrano Militare Ordine di Malta“[5]. Nel caso di specie, essendo il capo della casa Borbone delle Due Sicilie residente all’estero e avendo l’ordine in questione profili di diritto canonico, se ne confermò l’autorizzabilità, introducendo di fatto per via interpretativa una disciplina totalmente contraria allo spirito della legge in materia.
Inutile dire che attraverso la falla aperta nel nostro diritto da tale pronunciamento sarebbe negli anni seguenti passato di tutto, cosa che puntualmente accadde in singolare coincidenza con la formazione di esecutivi particolarmente versati a ristabilire ciò che tempo dopo sarebbe stata definita la “durezza del vivere”. Così nel 1996, Presidente del Consiglio Lamberto Dini e Ministro degli Esteri Susanna Agnelli, una apposita commissione della Farnesina giunse a concludere, come si legge nella relazione finale del Capo Servizio del Contenzioso Diplomatico e dei Trattati prof. Umberto Leanza, che non solo andavano autorizzati gli ordini cavallereschi “quasi ordini religiosi” ossia dotati di un qualche riconoscimento di diritto canonico come affermato dal Consiglio di Stato, ma estese tale privilegio anche agli “ordini di collana”, ossia a quegli ordini creati dai monarchi non come capi di Stato ma come capi della propria casa, ordini dunque “destinati a sopravvivere anche dopo l’eventuale detronizzazione della dinastia” e ciò perché tali famiglie “continuano ad essere fons honorum anche dopo la detronizzazione purché la famiglia ex sovrana conservi socialmente quel rango che le è proprio”[6].
Senza stupore, quindi, nel 1999 con apposito provvedimento n. 022/713 il Ministero degli Esteri individuò ben otto ordini cavallereschi possibili destinatari di autorizzazioni al porto delle insegne, estendendo dunque ai pretendenti delle dinastie Asburgo-Lorena di Toscana, Borbone di Parma, e ad un altro ordine denominato “Ordine della Corona di Ferro” quella prassi finora adottata solo per un unico ordine della casa Borbone delle Due Sicilie[7].
Peraltro è agile comprendere che un intervento statale di tipo selettivo e oramai del tutto estraneo ai criteri di legge, oltre a fare scempio della Costituzione, esponeva lo Stato a possibili errori in una materia salottiera ma complessa, piena di litigi, giri di denaro poco edificanti, opere di carità pelosa, insomma proprio ciò che nel 1951 si voleva evitare con la legge 178 nel sancire il monopolio statale degli ordini cavallereschi!
E’ necessario rilevare inoltre che nei successivi anni i sostenitori di questo “neofeudalesimo delle patacche” non ebbero neanche più bisogno di trincerarsi dietro il nome rispettabile di un anziano dirigente pubblico e professore di diritto internazionale come il Leanza per condizionare gli organi dello Stato a proprio favore. Infatti nel periodo compreso dal 2001 al 2003 – anni nel quale si andò formando un pensiero neoconservativo che intendeva rivalutare i valori e le tradizioni cristiane unendole alle dottrine liberiste più sfrenate[8] - con Silvio Berlusconi Presidente del Consiglio e Ministri degli Esteri Renato Ruggiero, Franco Frattini e Gianfranco Fini, venne istituita una nuova commissione consultiva in tema di ordini cavallereschi non nazionali presso l’Ufficio del Cerimoniale della Repubblica composta da cinque signori la cui presenza in quella posizione appare, già dai curricula, qualcosa di assimilabile alla presidenza dell’AVIS affidata a Dracula. I membri infatti erano[9]:
- barone Aldo Pezzana ( nel frattempo divenuto soi-disant marchese Capranica del Grillo), presidente onorario del Consiglio di Stato, cavaliere di giustizia del Sacro Militare Ordine di Santo Stefano, cavaliere gran croce dell’Ordine di Merito sotto il Titolo di San Giuseppe, cavaliere di gran croce del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, cavaliere di gran croce del Sovrano Militare Ordine di Malta;
- conte Gustavo Figarolo di Gropello, presidente della Società Italiana di Studi Araldici (S.I.S.A., poi ribattezzata SOC.I.ST.ARA, forse su indicazione di qualche conoscitore del vernacolo romanesco), cavaliere del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, commendatore dell’Ordine di San Ludovico e commendatore del Sovrano Militare Ordine di Malta;
- conte Neri Capponi, avvocato rotale, gran cancelliere del Sacro Militare Ordine di Santo Stefano e gran croce dell’Ordine al Merito sotto il Titolo di San Giuseppe;
- principe don Paolo Boncompagni Ludovisi, capo del cerimoniale del Sovrano Militare Ordine di Malta, gran croce dell’Ordine al Merito sotto il Titolo di San Giuseppe;
- conte Alberto Lembo, già deputato al Parlamento, commendatore dell’Ordine al Merito sotto il Titolo di San Giuseppe, cavaliere di prima classe dell’Ordine di San Ludovico e cavaliere di Grazia Magistrale del Sovrano Militare Ordine di Malta
Di tutta evidenza si trattava di una commissione interamente composta da esponenti di famiglie nobili, insigniti se non addirittura dirigenti proprio di quegli ordini cavallereschi di cui avrebbero, nella loro posizione, chiaramente caldeggiato il riconoscimento. Insomma, una commissione affetta da un clamoroso e palese conflitto di interessi, e che difficilmente possiamo immaginare bendisposta verso qualunque idea di uguaglianza e financo verso la natura repubblicana dello Stato!
Non destano stupore dunque le conclusioni a cui giunse questa commissione, del tutto adesive al vissuto e alle teorie avanzate dai suoi componenti e soprattutto dal Pezzana. Così nella relazione del 4 marzo 2002 ad esempio si legge: “Gli ordini dinastico familiari appartengono, quindi, ad una dinastia indipendentemente dall’esercizio successivo della sovranità su un territorio perché tale elemento, normalmente necessario all’origine, non lo è più, successivamente, quando la famiglia titolare è considerata dinastia, indipendentemente dalla continuità del possesso della sovranità”[10]. Si può dunque agilmente dedurre che difronte a tali strutture di natura dinastica che, a questo punto, paiono reggersi per diritto proprio, lo Stato democratico italiano può tutt’al più fare finta che non esistano, vietarne l’uso o confiscarne i beni ma mai – per carità! -sopprimerle in quanto “l’eventuale soppressione sarebbe del tutto irrilevante rispetto ai soggetti e agli ordinamenti che avevano operato per la sua costituzione o per il suo riconoscimento”, e questo perché “l’avvento della Repubblica […] non può […] prescindere da elementi storici e di diritto preesistenti e non del tutto cancellati (e non lo potrebbero essere) dai mutamenti istituzionali”[11].
La presa di controllo di quello che era di fatto divenuto il luogo di formazione della volontà dello Stato in merito alla definizione dei criteri per l’accesso all’agognato privilegio dell’autorizzazione al porto delle insegne consentì l’eliminazione - guarda caso – di talune realtà non riconducibili alle dinastie da cui i membri della commissione erano stati insigniti. Così, aderendo in toto ai voti della commissione, nel 2001 e nel 2003 il Consiglio di Stato (pareri n. 813/01 e 367/03) ritenne di non dover più considerare tra gli ordini autorizzabili l’Ordine della Corona di Ferro – precedentemente ammesso effettivamente con una certa leggerezza di giudizio - suggerendo il ritiro in autotutela di tutte le autorizzazioni al porto delle insegne fino ad allora concesse dal Ministero degli Affari Esteri[12]. Le difficoltà a gestire questa imbarazzante “marcia indietro” dello Stato richiese fior di riunioni a Palazzo Chigi con Gianni Letta allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, presente l’avvocato generale dello Stato, per tentare di arginare gli inferociti membri dell’ordine non disposti a togliersi da petto la decorazione spesso ottenuta a prezzo di elargizioni importanti con tanto di cause legali ancora in corso davanti ai tribunali amministrativi, in una situazione complessiva di perdita di tempo e risorse pubbliche senza contare lo scandalo per il prestigio dello Stato. Situazione, quest’ultima, che potrebbe peraltro reiterarsi a breve, viste le ricerche - che saranno pubblicate nel 2019 - riguardanti proprio la decadenza dei diritti dinastici di una dinastia fra quelle ancora oggi ammesse al conferimento di ordini cavallereschi autorizzati dalla Repubblica.
I poderosi sforzi intellettuali dei membri della commissione produssero infine – tra una colazione al Circolo del Ministero degli Esteri e fitte corrispondenze blasonate - una nuova lista di ordini autorizzabili, con talune espulsioni e talune novità. Per gli appassionati del genere, il catalogo è questo[13]:
- Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, appartenente al patrimonio dinastico dei Borbone delle Due Sicilie;
- Sacro Militare Ordine di Santo Stefano Papa e Martire, con gran Maestro l’arciduca Sigismondo d’Asburgo Lorena Toscana;
- Ordine di San Gennaro, sempre dei Borbone delle Due Sicilie;
- Ordine al Merito sotto il titolo di San Giuseppe di Toscana, con gran Maestro l’arciduca Sigismondo d’Asburgo Lorena Toscana;
- Real Ordine del merito sotto il titolo di San Ludovico, con gran maestro il principe Carlos Hugo di Borbone-Parma;
- Sacro Angelico Imperiale Ordine Costantiniano di San Giorgio, omologo del precedente ma avente gran maestro il Borbone-Parma
In questa vera e propria orgia cavalleresca non mancò il tentativo di far autorizzare persino i due ordini principali del patrimonio dinastico di Casa Savoia, ossia l’Ordine della SS. Annunziata e l’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Ed è davvero stupefacente leggere come questa commissione del 2001-2003 che ricordiamo era incardinata presso il Ministero degli Esteri della Repubblica, praticamente quasi non tenne in considerazione – se non per insultarle! - la XIV disposizione transitoria e finale della Costituzione nella quale si disponeva la conservazione dell’Ordine Mauriziano esclusivamente come ente ospedaliero, e l’art. 9 della l. 178/51 che sopprimeva l’ordine dell’Annunziata e cessava formalmente il conferimento dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Anzi la commissione ebbe l’ardire di affermare che “la Costituente e poi il legislatore repubblicano operarono ritenendo di essere nel pieno delle loro possibilità normative ma, per troppa fretta, ignoranza o trascuratezza non tennero conto di taluni elementi esterni che ne limitavano l’azione, per cui, di fatto, si legiferò ultra vires e, quindi, con la produzione di norme se non nulle, nel contesto del quadro normativo interno, almeno in parte inefficaci”[14]. Naturalmente questo inaccettabile attacco alla Costituzione venne proclamato in base alle già citate teorie per cui nessun potere statuale si potrebbe permetter di infrangere le prerogative di diritto dinastico proprie delle dinastie anche se detronizzate. Anche perché, continuano compiti i nostri nobili consulenti, “lo Stato italiano repubblicano non poteva ignorare l’esistenza di una consuetudine secolare formatasi nell’ambito delle Corti europee, e tuttora osservata, in base alla quale i capi delle Dinastie ex regnanti continuano a conferire le decorazioni dei loro ordini cavallereschi di natura dinastica”[15]. A parere della commissione, insomma, i costituenti che erano stati partigiani coraggiosi davanti a colonne di tedeschi armati, che avevano patito il confino, la fame e altre privazioni proprio per dare vita ad una società di eguali avrebbero dovuto arretrare, pieni di rispetto e magari con un inchino, davanti alle “consuetudini secolari delle corti europee”!!! Il risultato di questi ragionamenti è ovviamente un giudizio di piena e anzi quasi doverosa autorizzabilità degli ordini di casa Savoia, dalla quale astenersi per sole ragioni di opportunità politica.
Ci tengo peraltro a sottolineare, giusto per completezza, che proprio la sostanziale accoglienza da parte del Ministero degli Esteri di queste teorie sulla sopravvivenza di residui diritti in capo alle dinastie spodestate ha favorito l’affermazione di un concetto di vera e propria “sovranità affievolita” quale residualità del vecchio potere sovrano in capo alle case ex regnanti che gli ordinamenti successivi sarebbero tenuti a rispettare[16]. Inutile sottolineare che una siffatta costruzione giuridica è del tutto incostituzionale, determinando infatti una sostanziale irriducibilità al semplice rango di normali cittadini per coloro i quali hanno la ventura di discendere da famiglie dinastiche, e ciò in barba al principio di uguaglianza che i costituenti intesero chiaramente applicare proprio non riconoscendo il valore legale dei titoli nobiliari!!!
Consolidati il sovvertimento dei principi stabiliti in Costituzione e nella legge 178/51, gli elitisti di antica schiatta si ritirarono in buon ordine nei loro palazzi. La “commissione di Studio e Aggiornamento sulle onorificenze e benemerenze della Repubblica” esistente dal 2004 al 2010, e quella successiva denominata “Gruppo di lavoro informale sulle onorificenze presso il cerimoniale diplomatico del ministero degli affari esteri” operativa dal 2012 al 2014, per quanto presiedute da uno dei membri della vecchia commissione 2001-2003 ebbero come componenti prevalentemente funzionari ministeriali. Gli argomenti di studio solo tangenzialmente avrebbero riguardato gli ordini cavallereschi delle antiche dinastie preunitarie, investendo piuttosto le varie decorazioni di benemerenza civili e militari conferite dalla Repubblica, le onorificenze degli Stati esteri, e poche altre cose. Fattispecie troppo plebee per risultare utili a ricostruire quell’immaginario sociale fatto di re, principi, cameriere da battere col battipanni e cenciosi buoni per fare da soggetto a rinnovati capricci barocchi.
Una nota di colore: l’ultima commissione discusse – ignoro con che esito - anche la possibile istituzione di un “Ordine dell’Unità Europea”.
Tutto si tiene, sempre.
Conclusioni
Ad oggi i principi e le dottrine della commissione Leanza e della commissione Pezzana continuano a condizionare l’interpretazione della l. 178/51, e in nome di tali principi sei ordini cavallereschi appartenenti a dinastie preunitarie (casa Asburgo Lorena di Toscana, casa Borbone delle Due Sicilie, casa Borbone Parma) godono della autorizzazione al porto delle insegne da parte della Repubblica italiana[17]. Oltre a rappresentare una evidente contraddizione con i principi della nostra Costituzione, per quanto mi consta questa disciplina rappresenta un caso unico nel continente europeo.
Volendo riassumere i termini attuali della questione, possiamo dire che:
- La Repubblica italiana, una e indivisibile, autorizza ordini cavallereschi appartenenti ai pretendenti ai troni preunitari, con buona pace dei valori del Risorgimento. E siccome le autorizzazioni all’uso delle insegne sono richieste sovente dai nostri militari per poter aggiungere il nastrino sul petto, si determina la comica e lacrimevole situazione di soldati della Repubblica una e indivisibile decorati da aspiranti sovrani di regni preunitari!!!
- La Repubblica italiana, che in Costituzione rifugge la tutela di qualunque principio dinastico, ora offre il proprio implicito riconoscimento a strutture chiaramente dinastiche, ultimo rifugio di una visione nobiliare del mondo e dei rapporti umani;
- La Repubblica italiana, che non riconosce i titoli nobiliari, ora ammette il porto di insegne di ordini cavallereschi che in taluni casi, e per talune dignità al loro interno, hanno come requisito l’appartenenza alla nobiltà;
- La Repubblica italiana, rifacendosi al diritto canonico, autorizza il porto delle insegne per ordini cavallereschi canonicamente eretti, mentre la Santa Sede intelligentemente se ne astiene.
- Un apposito ufficio del Ministero degli Affari Esteri, organo competente a rilasciare le autorizzazioni, è ad oggi letteralmente subissato di richieste di autorizzazione. In ciò lo Stato si è visto attribuire un compito certificativo che francamente non gli spetterebbe e che costringe a distrarre personale della pubblica amministrazione da attività più utili;
- Il Ministero degli Affari Esteri, chiaramente privo di competenze storiche, è stato indotto ad applicare una serie di principi formalmente applicativi, ma in realtà del tutto innovativi in materia e contrastanti con il senso della legislazione vigente sul punto. Ciò peraltro ha determinato lo scoppio di scandali, con pendenze che ancora oggi gravano i tribunali amministrativi.
- Ultimo dettaglio: i “dinasti” che conferiscono questi ordini hanno per lo più cittadinanza estera, non risiedono in Italia, e hanno nella non accettazione dell’esistenza di uno Stato unitario italiano, implicita nella qualità di pretendenti ai troni preunitari, il loro unico fattore di connessione – eversiva!! - con l’Italia.
Tutta questa indecorosa disfatta dei più elementari principi costituzionali verrebbe naturalmente meno qualora si riuscisse a cancellare l’infelice dizione “ordini non nazionali” dall’articolo 7 della legge 178/51. Questo passo ha costituito infatti un involontario “cavallo di troia” che ha consentito a forze piccole, ma capaci e bene organizzate, di espugnare un bastione di civiltà egualitaria e repubblicana non irrilevante per la difesa di una società democratica.
La guerra alla civiltà del lavoro che le élites hanno scatenato in questi ultimi decenni è passata, come molte volte si è detto in queste pagine, anche tramite battaglie culturali. Questioni apparentemente di scarso rilievo – chiamare nuovamente Unità Sanitarie Locali quelle che ora sono denominate Aziende, tornare a nominare lavoratore chi per il solo fatto di avere una partita iva è oggi definito imprenditore - costituiranno fronti da non trascurare per tentare di ristabilire un contesto di minima vivibilità. Uno di questi, a modesto avviso di chi scrive, dovrà essere anche la riconduzione a più miti consigli di chi ha preteso di fare strame del principio costituzionale di uguaglianza formale stravolgendo il senso della legge 178/51.
NOTE
[1] Il testo
della legge, nelle versione aggiornata e completa della regolamentazione
attuativa, si legge in: https://www.quirinale.it/allegati_statici/omri/fonti_omri.pdf
[2] Cfr. Rivista
araldica, 1962, pp. 155, ma citato a p. 43 vol. I dell’opera di A. Lembo, A.
Scandola, Dottrina e giurisprudenza in
materia di onorificenze cavalleresche. L’archivio Lembo, edita in due
grossi tomi nel 2018 dalla “International Commission for Orders of Chivalry”.
[3] Cfr.
Lembo, Scandola, Dottrina e giurisprudenza…, vol. I, p. 44.
[5] Cfr.
Lembo, Scandola, Dottrina e giurisprudenza…, vol. I, pp. 13-16.
[6] Cfr.
Lembo, Scandola, Dottrina e giurisprudenza…, vol. I, pp. 19-21.
[7] Copia
della circolare è in Lembo, Scandola, Dottrina e giurisprudenza…, vol. I, pp. 255-257.
[8] Sono gli
anni di George Bush presidente USA, dell’attentato alla Torri Gemelle, della
guerra in Iraq, dei libri di Oriana Fallaci, dell’occidentalismo. Si veda
l’interessante saggio di Luigi Copertino, Spaghetticons.
La deriva neoconservatrice della destra cattolica italiana, ed. Il Cerchio
2008.
[9] Cfr.
Lembo, Scandola, Dottrina e giurisprudenza…, vol. I, pp. 23-24, 26 e, per i
dati di appartenenza ai vari ordini cavallereschi, pp. 228-229.
[10] Cfr. Lembo, Scandola, Dottrina e
giurisprudenza…, vol. I, pp. 95-96.
[11] Cfr. Lembo,
Scandola, Dottrina e giurisprudenza…, vol. I, p. 95.
[12] Cfr.
Lembo, Scandola, Dottrina e giurisprudenza…, vol. I, pp. 174-218.
[13] Cfr.
Lembo, Scandola, Dottrina e giurisprudenza…, vol. I, pp. 113-115.
[14] Cfr. Lembo,
Scandola, Dottrina e giurisprudenza…, vol. I, p. 164
[15] Cfr. Lembo,
Scandola, Dottrina e giurisprudenza…, vol. I, p. 167.
[16] Cfr.
Alberto Lembo, Il concetto di “sovranità
affievolita” e l’autorizzazione all’uso di Ordini Dinastici concessi dai Capi
delle Dinastie già regnanti in Italia, in Atti del 33° convivio della Società Italiana di Studi Araldici, 2015;
Alberto Lembo, Il concetto di “sovranità
affievolita” individuato dalla Repubblica italiana per autorizzare l’uso di
Ordini Dinastici concessi dai Capi delle Dinastie già regnanti in Italia prima
dell’unità, in Nobiltà, gennaio-febbraio
2016, pp. 61-88.
[17] Una summa
dello stato dell’arte si legge nella circolare del Ministero degli Affari
Esteri n. 022/80926 del 2009, che si legge in Lembo, Scandola, Dottrina e
giurisprudenza…, vol II, pp. 374-379.
2 commenti:
ma come si chiamerebbe il libro di Ramarrik de Milford ???
https://www.lintellettualedissidente.it/letteratura-2/classismo-blasoni-e-croci/
Posta un commento